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La narrativa industriale britannica del primo Novecento, radice culturale di Ken Loach e William McIlvanney
Nella nostra marcia di avvicinamento ai film di Ken Loach e ai romanzi di William McIlvanney che parlano del mondo operaio, potrebbe essere utile avere un’idea, seppure approssimativa, di quegli scrittori e di quei registi che, prima di loro, si sono assunti, nel corso del Ventesimo secolo, il compito di raccontare la società britannica dei ceti meno abbienti. Per quanto titanica sia la loro impresa di testimoni del progressivo sgretolarsi della classe operaia nell’attuale epoca di scarsa sensibilità ai problemi sociali, Loach e McIlvanney non sono stati gli unici a esserlo – sebbene ci piaccia percepirli in termini ‘eroici’ – ma gli dobbiamo riconoscere di essersi, con intelligenza, ricollegati idealmente a quel patrimonio letterario e cinematografico che oggi, a causa sia del decadimento dei valori etici nella politica, da una parte, sia del predominio dei generi fantasy, horror, soprannaturale e new age, dall’altra, viene ignorato e considerato poco ‘vendibile’.
Tra gli autori più rappresentativi del romanzo industriale ottocentesco – oltre a Caleb Williams (1794) del precursore William Godwin (1756-1836), per la verità più un trattato filosofico sulla ricchezza di pochi uomini indifferenti all’indigenza della stragrande maggioranza della popolazione e sui traumatici inizi della rivoluzione industriale che un romanzo vero e proprio, e al caposaldo della letteratura industriale Hard Times (1854) del mostro sacro Charles Dickens (1812-1870) – ricordiamo Elizabeth Gaskell (1810-1865) con Mary Barton. A Tale of Manchester Life (1848) e North and South (1854); Charles Kingsley (1819-1875) con Alton Locke (1849); Charles Reade (1814-1884) con Put Yourself in His Place (1870); George Gissing (1857-1903) con The Nether World (1889).
Questi illustri esempi di ‘romanzi industriali’ ottocenteschi, oltre a essere un prezioso documento per la ricostruzione della storia della società vittoriana, hanno avuto il merito di preparare il terreno al genio dell’irlandese Robert Tressell (pseudonimo di Robert Noonan, 1870-1911), autore del romanzo The Ragged Trousered Philanthropists pubblicato postumo nel 1914 (da segnalare l’edizione del 1965 arricchita dall’introduzione di un giovane Alan Sillitoe) e figura di grandissimo spessore che oggi noi abbiamo il dovere di vedere come un riferimento insostituibile nella storia della letteratura che ha raccontato il mondo operaio britannico.
Tressell visse una breve vita di stenti (morto di tubercolosi a Liverpool, venne sepolto in una fossa comune) e priva di riconoscimenti del suo talento che purtroppo ebbe la possibilità di manifestarsi in una sola opera. I critici e gli editori percepirono subito il messaggio sovversivo dell’opera ma, inizialmente, sebbene fossero ammirati dalla profondità delle sue impietose annotazioni, ne ebbero timore. Alan Sillitoe dichiarò che era un romanzo pericoloso per l’establishment e sottolineò che aveva dato un grosso sostegno ai laburisti nelle vittoriose elezioni del 1945.
Il giudizio più articolato viene da Raymond Williams che diede rilievo non solo all’attacco satirico contro i nefandi accordi tra imprenditori e amministratori locali (il romanzo è ambientato a Hastings ma il nome fittizio è Mugsborough, ossia: città di brutti ceffi) ma anche alle feroci critiche rivolte alla stessa classe operaia. Tressell era talmente disilluso da non ritenere possibile che i lavoratori sarebbero riusciti a emanciparsi grazie al proprio lavoro. Questo poteva succedere in una società ideale in cui le parti sociali interagivano in armonia. La sua rappresentazione della classe operaia è tragica e spietata (nonostante il tono a volte comico) e i dipendenti della ditta edile vengono descritti come figure disgraziate che vivono in una condizione di quasi schiavitù e alle quali è consentita la scelta soltanto tra la possibilità di rifiutare il lavoro – e morire di fame – o chinare la testa e accettare le condizioni del padrone per guadagnare quel misero salario che permette loro di vivere nient’altro che una vita di stenti.
A Frank Owen, il personaggio culturalmente e politicamente più consapevole del romanzo, non interessa elevarsi economicamente perché questo lo porterebbe a isolarsi dai compagni di lavoro e, di conseguenza, seppure involontariamente, a trovarsi meno coinvolto nella soluzione dei problemi della collettività. Il suo sogno utopistico è di creare una società in cui i concetti di ‘elevazione’ o ‘degradazione’ non hanno fondamento perché esiste solo il valore della dignità individuale che si armonizza con la dignità collettiva. Secondo la visione di Tressell, lo sfruttamento colpiva tutti, dall’operaio più modesto al loro capomastro. Frank tenta di educare i suoi compagni nelle loro discussioni durante la sosta illustrando la rigida struttura gerarchica della società e ipotizzando una Repubblica Cooperativa in cui non viene eliminata la proprietà privata ma allo stesso tempo viene incentivata la nascita di imprese industriali e agricole finanziate dallo Stato. Il risultato poco gratificante per lui è che i compagni di lavoro non lo prendono mai sul serio. (Loach potrebbe essere stato influenzato dalla figura di Frank Owen nel costruire il personaggio di Larry, uno dei protagonisti di Riff-Raff che offre un’attenta rappresentazione della condizione dei lavoratori precari dell’industria edile nella Gran Bretagna degli anni Ottanta, in piena era thatcheriana.)
Lo Yorkshire e tutta l’area delle Midlands, negli anni ‘50-60, sembrarono diventare il cuore della letteratura ‘provinciale’ britannica. Citiamo solo alcuni esempi: Alan Sillitoe e Stanley Middleton scrissero di Nottingham; David Lodge di Birmingham; Beryl Bainbridge di Liverpool; Melvyn Bragg del Lake District; Raymod Williams del Galles. Frank Kermode, parlando della letteratura britannica di quegli anni, disse che “scrivere romanzi è come scrivere Storia molto più di quanto scegliamo di credere”. Facile quindi comprendere il successo del romanzo industriale e operaio che reclamava maggiore attenzione verso le classi più modeste fino ad allora ignorate dalla cultura dominante.
Ecco alcuni tra i nomi più significativi.
John Braine (1922-1986), nativo di Bradford, fece parte del gruppo degli Angry Young Men, anche se marginalmente, insieme ad altri scrittori del nord Inghilterra come David Storey, Stan Barstow, Keith Waterhouse. Room At the Top (1957) è il suo romanzo più celebre. Racconta le vicende di Joe Lampton, un giovane diplomato di estrazione operaia dello Yorkshire, e del suo impatto con il primo lavoro e gli sforzi per realizzare le sue ambizioni. Joe lascia la sua ragazza (che si suicida) e sposa una donna ricca per raggiungere i suoi obiettivi, anche a costo di rinnegare le origini modeste e giustificare a se stesso il proprio cinismo in nome del principio secondo il quale un individuo non è da disprezzare se rinuncia alla propria integrità morale ma raggiunge l’obiettivo che si era posto.
Nel romanzo successivo, Life At the Top (1962), Joe Lampton scopre che una vita di successi economici comporta doveri e responsabilità che lo spingono moralmente sempre più in basso perché deve ricorrere a metodi sgradevoli per conservare la posizione conquistata. Pur di allontanarsi da un ambiente che gli si presenta ormai insopportabile, preferisce tornare, sconfitto e ridimensionato nelle sue aspirazioni, nel natio Yorkshire.
Nel romanzo The Queen of a Distant Country (1972) il protagonista, figlio di genitori modesti, riesce a studiare grazie al sostegno di borse di studio (anche lui, come tanti della sua generazione, verrà paternalisticamente definito scholarship boy) e intraprende la carriera di scrittore. Raggiunto il successo, sceglie di ignorare le realtà sgradevoli del suo tempo per non mettere a rischio l’esistenza dorata che si è costruito. Nemmeno l’incontro con una scrittrice, impegnata politicamente in un movimento di sinistra, che anni prima l’aveva aiutato nella carriera, serve a sensibilizzarlo e a ricordargli le radici operaie da cui proviene.
È curioso che Braine pubblicò nel 1974 un manuale, Writing a Novel, in cui sosteneva che scrivere romanzi doveva essere considerato una professione da cui trarre agiatezza. A tale scopo, lo scrittore doveva evitare temi politici sgraditi all’editore. Il romanzo non era uno strumento per affermare il proprio Io né per cambiare la società. La priorità era di accontentare il lettore, aiutarlo a evadere dalla quotidianità con romanzi commerciali, godibili e avvincenti. (Lasciamo al lettore, se vuole, il commento…)
Philip Larkin (1922-1985), nativo di Coventry, pubblica Jill, il suo romanzo di esordio, nel 1946. Un ragazzo di estrazione operaia del Lancashire, John Kemp, non riesce a mediare tra le sue ambizioni culturali e le ipocrisie dell’ambiente in cui viene a trovarsi alla fine degli studi e commette l’ingenuità di lasciarsi guidare da un certo Christopher che si dà arie da alto borghese. La ragazza che dà il titolo al romanzo è la sorella di un suo amico ma John, continuamente distratto dai discorsi inconcludenti dei falsi amici, non riuscirà mai nemmeno ad avvicinarla pur essendone attratto.
Larkin lavorò come bibliotecario all’Università di Hull fino alla sua morte. È il poeta del Ventesimo secolo più amato in Gran Bretagna, forse anche per il suo rifiuto di diventare ‘poeta laureato’, ossia colui che ha l’incarico di celebrare in versi ogni evento significativo nella vita pubblica della famiglia reale.
John Wain (1925-1994), nativo di Stoke-on-Trent, poeta, romanziere, critico letterario, giornalista freelance e docente presso l’Università di Reading (dove ebbe modo di stabilire una lunga e felice amicizia con lo scrittore italiano Luigi Meneghello, fondatore in quell’ateneo del Department of Italian Studies), è stato avvicinato agli Angry Young Men ma in realtà era più legato a The Movement, il gruppo di poeti e scrittori di cui faceva parte il già citato Philip Larkin. Il suo primo romanzo, Hurry on Down (1953), offre un quadro divertente ma fortemente critico della società britannica del dopoguerra. Racconta di un giovane laureato di Oxford, di estrazione medio-borghese, Charles Lumley, che vuole vivere al di fuori delle convenzioni sociali e rinuncia alle ottime possibilità di carriera per scoprire la propria identità svolgendo modesti lavori manuali come lavavetri, autista, tuttofare in un ospedale, buttafuori in un locale notturno e persino come spacciatore. Trova infine un lavoro alla radio come scrittore di testi comici.
Nato a Nottingham da una famiglia operaia, Alan Sillitoe (1928-2010) è uno degli scrittori più rappresentativi degli Angry Young Men (molti dei quali originari del nord Inghilterra e delle Midlands dove la classe operaia era l’asse portante della società) che criticavano la monarchia, la BBC, il sistema fondato sui privilegi. I suoi personaggi si oppongono, nei modi che le loro condizioni sociali gli consentono, al sistema che vuole omologare tutto creando una società falsamente in armonia e che finge di avere annullato le disuguaglianze tra le classi.
Pubblica il suo primo romanzo, Saturday Night and Sunday Morning, nel 1958. Arthur Seaton, il protagonista, non vuole farsi ingabbiare in un’esistenza grigia e monotona come è accaduto ai suoi genitori e ai suoi colleghi. Consapevole dei benefici derivanti dalla sua posizione di operaio specializzato, il suo risentimento contro il sistema non ha motivazioni politiche e ideologiche ma solo vagamente esistenziali e la sua insoddisfazione si manifesta più che altro con bevute colossali al pub e critiche feroci contro il governo, l’opposizione, i padroni e gli sfruttatori di ogni risma. Se disponesse di una carica di dinamite, farebbe saltare la fabbrica in cui lavora e si crogiola in questa ‘illusoria esaltazione’ finché non s’imbarca in una pericolosa relazione con una donna sposata e viene ‘messo in riga’ dal marito, un militare. Arthur non si dichiara però sconfitto anche se, riconciliatosi con la sua ragazza, sembra accontentarsi di orizzonti meno ambiziosi.
Questo personaggio sollevò grandi polemiche in Gran Bretagna per la coraggiosa caratterizzazione di Sillitoe che non lo dipinse come un operaio ignorante, volgare e rassegnato ma come un giovane intelligente, rabbioso, politicamente disimpegnato sebbene ferocemente critico. Forse diede fastidio il fatto che fosse impossibile collocarlo ideologicamente. Quando fu girato l’adattamento cinematografico, Sillitoe pretese di scrivere la sceneggiatura per evitare che il protagonista venisse rappresentato come la borghesia voleva vedere il tipico operaio: rozzo e ignorante ma grande lavoratore, di buon cuore ma attento a non farsi manipolare soprattutto da sindacati e comunisti. II suo merito fu di mostrare l’esistenza di una cultura diversa da quella che privilegiava le classi metropolitane e medio-alto borghesi. (Il romanzo fu adattato per lo schermo da Karel Reisz, 1926-2002, nel 1960. Arthur fu interpretato da un sanguigno Albert Finney.)
Nel 1959 Sillitoe pubblica The Loneliness of the Long Distance Runner che dà il titolo all’intera raccolta di racconti (una serie di ritratti di figure tipiche del mondo operaio: un postino con la passione della pesca; una madre lavoratrice che trascura la figlioletta; il fanatico di calcio che aspetta il fine settimana per andare allo stadio). Smith, il protagonista del racconto, è un Borstal Boy (ossia un detenuto in un istituto di correzione minorile) che, secondo gli assistenti sociali, potrebbe essere rieducato a un’esistenza normale attraverso lo sport. Il ragazzo è veloce e resistente sulla lunga distanza, il perfetto maratoneta e accetta di allenarsi e prepararsi alla corsa anche se la sua aspirazione sarebbe di mettere al muro giudici, poliziotti e carcerieri. Quando si rende conto che, vincendo la gara, darebbe implicitamente ragione al sistema che lo ha emarginato, per affermare la propria dignità rallenta la corsa, prende una direzione sbagliata e rinuncia a vincere la maratona per la quale era stato costretto ad allenarsi al fine di dimostrare che il carcere non abbrutisce. (Tony Richardson, 1928-1991, originario dello Yorkshire, dirige nel 1962 l’adattamento cinematografico e Tom Courtenay interpreta la parte di Smith.)
Sillitoe, sulla stessa lunghezza d’onda di registi del Free Cinema come Tony Richardson, Karel Reisz, Lindsay Anderson e di autori teatrali come John Osborne e Arnold Wesker, ha osservato attentamente la società che, pur iniziando a usufruire della cultura popolare e di massa dei 33 giri, dei libri economici tascabili e della televisione, rimane sostanzialmente immutata e fondata sui privilegi delle classi più abbienti. Nel 1944 il Parlamento inglese aveva approvato una legge che consentiva l’accesso agli studi superiori anche ai ceti più poveri attraverso l’assegnazione di borse di studio. Sillitoe denunciò questa ipocrisia nel 1960 con un celebre articolo-manifesto apparso sul Times Literary Supplement (1) che forse avrà ispirato William McIlvanney (proprio in quegli anni studente universitario) nella stesura di The Kiln (1996), la storia di Tom Docherty, figlio di minatori che, primo della sua famiglia, accede all’università.
In Key to the Door (1961), Sillitoe racconta la partenza, dalla grigia contea di Nottingham, di Brian Seaton, fratello di Arthur. Brian diventa un famoso sceneggiatore cinematografico ma non mostra nessuna particolare inclinazione ribelle come il fratello che, invece, ha scelto di rimanere legato ai luoghi e alle persone che aveva sfidato con i suoi atteggiamenti irriverenti. (Nel romanzo del 2001, Birthday, i due fratelli, Brian e Arthur, si incontreranno a una riunione di famiglia e scopriranno di condividere il rimpianto degli anni dell’adolescenza e della gioventù.)
In Raw Material (1972), per riscoprire un proprio percorso in teriore oltre che politico, Sillitoe sente il bisogno di raccontare il mondo operaio nei primi trent’anni del secolo attraverso il ricordo della vita di fatica e sacrifici dei suoi nonni e genitori. Anche qui notiamo un’analogia con McIlvanney che, attraverso il personaggio di Tam Docherty (in Docherty, 1975), racconta alcuni momenti cruciali della storia dei minatori e dei ferrovieri durante i durissimi scioperi del 1926. Anche Raymond Williams, come vedremo più avanti, parla dello stesso periodo nel suo romanzo Border Country.
David Storey (1933), nativo di Wakefield, figlio di un minatore, da giovane era un giocatore professionista di rugby e studente di arte. Il suo romanzo più celebre, This Sporting Life (1960), racconta la vicenda di Arthur, un operaio che trova il successo economico grazie al rugby diventando la stella della squadra locale. Incapace di conquistare l’amore e soprattutto il rispetto della sua padrona di casa, afflitta da una depressione incurabile dopo la morte del marito, Arthur non riesce a trovare un suo equilibrio interiore. Anzi, crolla definitivamente quando la donna muore per un’emorragia cerebrale e si lascia vincere dalla propria natura violenta usando gli incontri di rugby per scaricare la propria disperazione. (La versione cinematografica del 1963 è di uno dei fondatori del Free Cinema, Lindsay Anderson, 1923-1994, e Richard Harris impersonò magistralmente il drammatico personaggio di Arthur.)
In altri suoi romanzi, i personaggi principali sono intellettuali o artisti provenienti da origini modeste alle prese con una profonda crisi d’identità come in Pasmore (1972), che narra della crisi esistenziale di un docente universitario figlio di operai, e in A Temporary Life (1973) dove Colin, ex pugile, diventa insegnante d’arte in una cittadina del nord dell’Inghilterra. In Saville (1976), invece, Storey racconta di un ragazzino in una città mineraria, negli anni ‘50, che non riesce ad accettare, con una riflessione lucida e articolata, la propria impotenza di fronte ai sacrifici e alla povertà dei suoi familiari e manifesta la sua frustrazione con gesti violenti che fanno di lui un emarginato anche tra la gente della propria classe.
(2ª parte) – Leggi la terza parte qui
1) Cfr. Ken Loach e William McIlvanney: testimoni del mondo operaio e dei diseredati britannici, Carmine Mezzacappa, Paginauno n. 43/2015