Modello, sfida, mezzo di controllo e cultura del consumo
Pascal Ory, uno dei più rinomati storici francesi in tema di storia culturale e storia del fascismo in Francia, ha scritto un libro sul governo del Fronte popolare tra il ‘36 e il ‘38, dedicando almeno un capitolo alla sua politica sportiva e definendola una risposta democratica alla sfida dei regimi fascisti. Una risposta senza passo militare o passo dell’oca, ma che dimostra come le politiche sportive, in particolare quelle del fascismo, siano centrali per capire la storia europea dello sport tra le due guerre. Esiste infatti una vera sfida degli stadi, come c’è una sfida diplomatica e militare, e definirei lo sport fascista l’idealtipo dello sport autoritario e totalitario.
Per questo non si può tracciare la storia dello sport in Francia e in Europa senza mettere al centro la politica sportiva del regime fascista. Prima di tutto, la politica sportiva del regime significa la fine della società civile dello sport, ossia dello sport come è stato concepito dall’inizio del Novecento sul modello inglese: un’armata di volontari, di persone che si riuniscono in associazioni e non chiedono nulla allo Stato, volendo essere indipendenti. In realtà questo principio è applicato in modi diversi nel continente: in Italia come in Francia, per esempio, durante la belle époque, gli sportivi vogliono ricevere il sostegno in denaro dello Stato. Ma in ogni caso, lo sport è espressione di una società civile.
In secondo luogo, con la prima politica sportiva statale il regime fascista dà l’avvio all’entrata dello Stato nello sport. Si vedrà che è un po’ più complicato, perché i francesi, per esempio, hanno iniziato una diplomazia sportiva già dopo la prima guerra mondiale, ma è comunque la prima volta che lo Stato dà importanti mezzi allo sport e inizia una politica di costruzione di stabilimenti sportivi; un atteggiamento che sarà seguito con particolare attenzione dai regimi democratici, in particolare di Francia, Belgio e Svizzera.
Terzo punto, questa politica significa anche un cambiamento del concetto di internazionalismo sportivo, nato con de Coubertin e l’organizzazione dei primi Giochi olimpici dell’era moderna nel 1896 ad Atene. Fino a quel momento l’internazionalismo sportivo ha come scopo la fratellanza tra i popoli, la pace – anche se c’è un aspetto meno idilliaco, che è l’idea di voler costruire una gerarchia tra i popoli –; il fascismo lo trasforma in ambizione di vittoria, vincere è tutto, e in più mescola i simboli nazionali con quelli dell’ideologia fascista.
Un altro aspetto di questo idealtipo è la volontà, che a dire il vero si può trovare anche nella democrazia, di sedurre le masse e creare consenso tramite lo sport spettacolo e la stampa, la radio, l’informazione scritta, i cinegiornali dell’Istituto Luce. Da questo punto di vista è necessario praticare un esercizio di storicizzazione del fascismo, perché questa spettacolarizzazione dello sport si trova anche in Francia, nella Spagna prima della guerra civile e in Inghilterra. L’ultimo punto, e anche in questo caso il regime fascista non ha l’esclusiva, è l’uso dello sport come metodo di controllo ed esclusione. Proverò a illustrare tutti questi aspetti suddividendo l’analisi in tre parti: la prima dedicata alle origini dello sport fascista, poi vedremo come questa politica è allo stesso tempo un modello e una sfida per l’Europa sportiva, e infine proverò a evidenziarne le contraddizioni e le forme di controllo e persecuzione.
Le origini dello sport fascista
Tutti i movimenti, come l’Opera nazionale balilla, per esempio, hanno origine nello sport dell’Ottocento, quando nasce un legame forte tra la ginnastica e l’idea di nazione: è la ginnastica che permette la promozione di una cultura nazionale con le sue qualità e la sua unicità. Accade in Francia: dopo la guerra del 1870 c’è un grande sviluppo del movimento ginnastico, con l’importanza della dimostrazione collettiva e la divisa che si porta con fierezza. E ovviamente la stessa cosa si sviluppa anche in Italia, specialmente durante la prima guerra mondiale, quando la Federazione ginnastica nazionale è diretta da un presidente che dà un orientamento nazionalistico al movimento. Anche se non si deve pensare che queste organizzazioni abbiano particolarmente ispirato il fascismo, perché in Francia i movimenti di ginnastica sono antifascisti, e in Italia esistono anche organizzazioni di stampo cattolico, o le famose società Forti e Liberi di stampo socialista o operaio.
Secondo punto importante è l’esperienza della guerra. Ci sono immagini di propaganda francese che mostrano il fronte occidentale non armato di soldati, blindati ecc. ma di sportivi: è una specie di discorso prodromo che vuole mostrare che lo sport è il migliore strumento per preparare i francesi alla guerra, piuttosto che avvicinarsi con un addestramento militare. C’è anche una metafora, molto utilizzata all’inizio del conflitto, quella del grand match, in francese, in inglese del great game, in italiano della grande partita, che sarebbe ovviamente la guerra. Questo spirito è molto utilizzato dalla stampa sportiva italiana, la quale sarà un sostegno importante per la prima politica sportiva del regime, all’inizio del fascismo. Sulla Gazzetta dello sport, nel periodo dell’interventismo, si può leggere questo famoso editoriale: “Fratelli che avete conosciuto, praticato, amato lo sport, prendete la armi per lo sport più antico e più forte, e più vero: la guerra. E si attende la sterminata falange di manipoli perché lo sport vi ha dato forza fisica, capacità morale, disciplina e tu somma me lo rappresenti”.
La guerra è importante anche perché, soprattutto dopo Caporetto e la ritirata sul Piave, ha permesso di diffondere tra le masse rurali – che sono la gran parte delle armate italiane – lo sport, che la maggioranza degli italiani non conosce – e lo stesso fenomeno si può constatare anche in Francia. C’è poi un processo di standardizzazione, dato che lo sport proposto è il più semplice, il più diffuso e quello meno caro, ossia il calcio. Ecco perché l’Almanacco dello sport ha come copertina un soldato che gioca a calcio, e lo si può anche trovare nei giornali di trincea, che sono chiaramente diffusi per inquadrare i soldati.
Lo sport è anche utilizzato nella propaganda militare in quella che si potrebbe chiamare la ‘brutalizzazione’ prodotta dalla guerra: nei giornali di trincea, per esempio, compaiono immagini di un campionato mondiale di lotta, e molto spesso c’è l’assimilazione tra il calcio al pallone che diventa il calcio al nemico. Ma forse ciò che è più importante sono le forme di inquadramento dei soldati, iniziate durante il conflitto e che, in un certo modo, ispireranno le successive grandi organizzazioni di massa come il dopolavoro, nato nel 1925. Ecco quello che scrive Lando Ferretti, il primo presidente fascista del Coni, in un libro che è una specie di breviario dello sport, nel quale si capisce, in sintesi, lo spirito che il regime vuole imprimere allo sport: in questo libro Ferretti commenta l’opera del cattolico Giovanni Minozzi, creatore delle Case del soldato, che miravano contemporaneamente a fornire momenti ricreativi, a inquadrare moralmente i soldati e a diffondere l’idea di nazione.
Ferretti scrive: “Il disperso di Caporetto divenne allora l’eroe dei trionfi del Piave, del Grappa, di Vittorio Veneto, attraverso l’opera assistenziale svolta nelle Case del soldato, negli spacci cooperativi, con scritti e discorsi di buona propaganda – Ferretti capisce che in questo momento è diventata una specifica propaganda di massa che sarà successivamente utilizzata dal regime – quell’opera tenace, appassionata, ardente di fede italiana svolta principalmente nelle retrovie ma anche sulle prime linee della grande guerra è ora ripresa, continuata, rafforzata di mezzi e di spiriti nuovi dal dopolavoro”. Quindi il conflitto è sicuramente una matrice importante della politica sportiva fascista, e si potrebbe anche aggiungere il culto del pilota o il culto dell’ardito, che è contemporaneamente una specie di soldato tra atleti di alto livello e un soldato di forze speciali.
Terzo punto per capire l’origine e l’eredità utilizzata dal regime è quello che possiamo definire ‘dopoguerra sportivo’. Il dopoguerra è stato infatti immediatamente sportivo per diverse ragioni, forse anche per il bisogno di molti europei di distrazione e divertimento dopo la tragedia del conflitto.
I campionati di calcio conoscono un grande successo negli anni tra il ‘21 e il ‘23, anche se non bisogna dimenticare la ragione politica che vi sta dietro, ossia la volontà di utilizzare lo sport sul piano diplomatico. Come per i Giochi Interalleati, organizzati nel giugno /luglio 1919 a Parigi, ai quali partecipano 1.415 atleti rappresentanti di 19 nazioni, e un grande pubblico in uno stadio che tiene tra le ventimila e le trentamila persone. L’Italia si classifica terza dietro gli Stati Uniti e la Francia, ma forse l’aspetto più importante non è la partecipazione o il pubblico ma il fatto che, ben lontani dall’essere una manifestazione di fraternità tra alleati, i giochi sono pervasi di aggressività e nazionalismo. La partita di rugby tra Francia e Stati Uniti ne dà l’esempio. Così è descritta da un testimone americano: “Quello che si può fare di meglio senza coltello e pistola”.
Senza dimenticare la rivalità tra le due potenze, che vogliono entrambe mostrare di aver vinto la guerra. In questo periodo c’è anche la volontà di ricerca di uno stile nazionale, e l’idea che la nazionale di calcio rappresenti le virtù, il corpo, la maniera di muoversi, la morale di una nazione.
Uno dei primi Paesi ad aver proposto questa interpretazione è la Spagna, che si classifica terza al torneo di calcio di Anversa nel 1920. I giornalisti spagnoli descrivono il modo di giocare della propria squadra come la “furia spagnola”, un’espressione che richiama la famosa ‘furia francese’, quindi un gioco aggressivo, virile, perché deve dimostrare che se anche gli spagnoli non hanno fatto la guerra, sono lo stesso degli uomini. Questa passione si mostra anche durante l’inaugurazione dello stadio Wembley a Londra nel 1923, una specie di catastrofe che termina con 60 feriti e che viene descritta un feu terreur, un episodio che evidenzia il potere di suggestione, di attrazione del calcio, la necessità di controllare le folle e quanto le stesse folle possano essere utilizzate come mezzo di propaganda.
D’altra parte Psicologia delle folle, il famoso saggio di Gustave Le Bon, è del 1895 e Mussolini l’aveva letto con attenzione: chi sa dominare le folle può prendere il potere, scriveva Le Bon. In questo dopoguerra si manifesta un inizio di violenze sportive, anche in Francia, ed è un problema importante da gestire all’inizio del regime fascista. C’è una violenza diffusa sui terreni di calcio, in particolare nel nord Italia, in piccoli centri ma anche a Torino, e questo è ciò che scrive Paese Sportivo, periodico torinese, nel luglio 1925, per la finale di campionato tra il Bologna e il Genoa: “Le squadre non bastano più, ci vogliono i fiancheggiatori i quali operano per tribune o nei posti popolari, allo scopo di mettere i fiancheggiatori avversi in condizioni di inferiorità e così preparare l’atmosfera più adatta alla vittoria dei propri colori”. Un testo decisamente molto attuale, se si pensa agli ultras di oggi. La partita termina in parità, e i sosteni – tori del Genoa e del Bologna si trovano alla stazione di Porta Nuova; ecco cosa racconta Paese Sera: “Nella stazione di Porta Nuova sono avvenuti alcuni incidenti alla partenza dei due treni speciali, uno per Genova e uno per Bologna. Tra le schiere di supporter genoani e bolognesi vennero scambiate invettive e ingiurie e vennero sparati alcuni colpi di rivoltella, e pare che un supporter genoano sia rimasto ferito piuttosto gravemente”. I supporter del Bologna sono vicini agli squadristi e al fascio locale, quindi il problema del tifo violento è qualcosa che il regime deve regolare, ma lo fa in modo dubbio. Dopo questo incidente infatti, viene varata una legge che prevede che ogni partita debba essere autorizzata dal prefetto, ma per tutti gli anni Trenta persiste un’atmosfera di regionalismo e campanilismo molto forte, che il regime utilizza, attraverso il federale locale, come sostegno alla squadra locale di calcio, in una politica decisamente ambivalente.
Modello e sfida per l’Europa sportiva
La politica sportiva fascista può essere definita un modello, perché vi si ispirano anche regimi democratici, e una sfida, quella degli stadi, che precederà quella delle armi. All’estero è quindi seguita con una certa ammirazione e un po’ di timore. I giornalisti sportivi hanno subito aderito al governo Mussolini, appena qualche settimana dopo la marcia su Roma. Secondo il saggista Felice Fabrizio, che ha scritto la prima storia dello sport fascista in Italia, molta influenza ha avuto il complesso di inferiorità dei giornalisti sportivi, che li ha portati a dare un immediato consenso a un capo di governo che finalmente non disprezzava lo sport, come gli uomini politici che lo avevano preceduto, e quindi a poter sperare di vedersi riconosciuto un diverso statuto professionale. I fatti dimostrano in breve tempo che le speranze nutrite erano fondate: nel marzo 1923 il ministro dell’Istruzione pubblica Giovani Gentile annuncia infatti la creazione dell’Ente nazionale per l’Educazione fisica, che sarà la prima pietra verso la politica sportiva del regime.
Certamente il fascismo è il primo a politicizzare lo sport in Europa, ma anche nelle democrazie c’è questo interesse da parte dei governi. In Francia la ragione principale è che lo sport permette di dimostrare che il Paese non è stato distrutto dalla prima guerra mondiale, che c’è ancora una giovinezza francese, che questa grande potenza non è stata segnata dal conflitto. Nasce in questo periodo la tradizione, importata dall’Inghilterra, secondo la quale il presidente della Repubblica consegna la Coppa di Francia e saluta i giocatori prima della partita. È chiaro che in questo gesto c’è anche una componente ideologica, perché la Coppa di Francia è forse la competizione più popolare, forse più del campionato, perché è la simbolizzazione del principio meritocratico della Repubblica, dei valori francesi; nella Coppa di Francia la piccola società può battere la grande società professionistica, perché i giocatori sono valorosi, lavorano molto, sono
seri ecc.
La politica sportiva del regime è prima di tutto una politica edilizia, ed è per questo che è importante agli occhi degli altri Paesi. Tra il ‘27 e il ‘34 il fascismo mette in opera una vasta campagna di costruzione di stadi e terreni sportivi, di due tipi: il campo littorio, con spogliatoi, una pista per l’atletica leggera e un campo da calcio, che è il modello standardizzato per la fatica di massa, allo scopo di fare degli italiani una nazione sportiva; e i grandi stadi, nella periferia delle grandi città, per esempio lo stadio Berta a Firenze, dedicato al ‘martirio’ del fascismo, e lo stadio Mussolini a Torino. Sono stadi moderni, costruiti con tecniche all’avanguardia, con uno stile architettonico che si può definire futurista, e che sono fonte di ispirazione molto importante all’estero. Influenzano infatti lo stadio di Berlino dei giochi olimpici, gli stadi-velodromi di Marsiglia e Bordeaux. Anche i campi littori orientano gli altri Paesi, perché rispondono a una domanda presente in tutta Europa, quella di stadi di piccole dimensioni e piscine; si trovano molti esempi nella periferia di Parigi, municipi di sinistra, radicali, socialisti e anche comunisti iniziano a costruire questo tipo di stabilimento.
Anche se c’è una differenza: negli anni Venti e Trenta, in Francia, sono le giunte comunali a iniziare questa politica, non lo Stato, come accade in Italia. Solo nel 1936 il governo del Fronte popolare, per rispondere alla pressione della stampa francese, che descrive con favore la politica sportiva fascista, lancia la prima politica sportiva nazionale. Questa influenza si può sentire anche nel Regno Unito. Già nel ‘35 viene creato il Central council for Creative physical training, allo scopo di incoraggiare e promuovere le organizzazioni e le attività sportive, in particolare presso le scuole, per migliorare la forma fisica della nazione. Questa disposizione viene completata nel ‘37 con il Pphysical training and recreation Act, una legge che vuole facilitare l’accesso allo sport e all’educazione fisica da parte dei giovani attraverso sovvenzioni agli enti locali per la costruzione di piscine e terreni di gioco, del tutto simili ai campi littori; l’intento è quello di lottare contro l’impatto della crisi e la seduzione del modello fascista.
Secondo elemento importante è quella che si potrebbe definire una politica estera sportiva, che si traduce in una sovversione dell’internazionalismo sportivo. Si è prima richiamata l’opera di de Coubertin, che nel 1894 a Parigi, durante il congresso che ristabilisce i giochi olimpici, dichiara: “Il ristabilimento dei giochi olimpici su una base moderna e con cognizioni adattate alle necessità della vita moderna metterebbe in presenza ogni quatto anni i rappresentanti delle nazioni del mondo, e si può credere che queste lotte pacifiche e cortesi costituiscono i migliori degli internazionalismi, così lo sport deve contribuire alla pace”. Nel 1920 il ministero degli Affari esteri francese crea un servizio di propaganda che si chiama Servizio delle opere francesi all’estero; si tratta di diffondere gli autori e la cultura francesi attraverso una rete di centri culturali, con sezioni che si occupano anche di turismo e sport. In aggiunta, dal ‘20 fino al ‘25 il Comitato francese olimpico viene fortemente sovvenzionato, per supportare anche la creazione di club sportivi all’estero. È grazie a questa rete di diplomazia che la Francia riesce a strappare all’Italia l’organizzazione dei giochi olimpici del 1924.
C’è anche una forte politicizzazione dello sport. Ecco come Ferretti definisce i giochi nel ‘28: “Le olimpiadi, rassegna quadriennale delle stirpi, sono di questa grandezza, cioè della patria. Tendiamo perciò a far sì che nella prossima olimpiade di Amsterdam l’Italia abbia il posto che ormai le spetta per opera del fascismo nel mondo” – nel dopoguerra, per inciso, si verifica una sorta di complicità, o di volontà di non vedere, questa forma di politicizzazione, atteggiamento che pone la questione della continuità di questi legami tra dirigenti sportivi; nel 1954 Jules Rimet così descrive il generale Vaccaro, presidente della Federazione italiana del calcio: “Non dobbiamo giudicare nel generale Vaccaro il personaggio politico, ma lo sportivo ci appartiene. Abbiamo il diritto di dire che è stato per l’associazione italiana un presidente prestigioso, e tutti quelli che sono stati nella federazione con lui devono dare la testimonianza della loro simpatia”.
Un altro elemento importante è la questione del consenso del consumo sportivo. L’esempio più immediato è quello di Primo Carnera che ha giocato, come altri atleti, volenti o nolenti, la sua parte nella conversione ideologica dello sport. Carnera è stato il primo italiano vincitore della categoria dei persi massimi nel 1933, ma è stato prima di tutto una creazione del manager francese Léon See. Carnera è un immigrato dal Friuli e viene ingaggiato da Paul Journée, allenatore al servizio di Léon See, perché è un colosso immenso, e Journée pensa che si possa fare di questo lottatore un grande boxer. All’inizio la figura di Carnera è quella del buon gigante, non è un pugile con molta scienza ma è un personaggio simpatico, al punto che lo si può trovare in réclame pubblicitarie francesi nel ‘32.
Poi il pugile cambia Paese e cambia immagine. Diventa, come ha mostrato Daniele Marchesini nel suo bel libro Carnera, il simbolo della rivoluzione antropologica realizzata dal regime. In un momento in cui la taglia media degli italiani è di un metro e 60 centimetri, e in cui molti giovani sono riformati alla leva, Carnera diventa non solo un simbolo di questa rivoluzione, ma anche un personaggio dello star system, dell’industria del consenso e del divertimento. Quindi Carnera è interessante perché mostra due aspetti della politica del regime: è aggressivo – è quello può dare un pugno ai fucili degli avversari del campo democratico – ma è contemporaneamente simbolo di una cultura del consumo che si diffonde anche sotto il fascismo.
Carnera è solo una parte di questa cultura e della costruzione del consenso. Lo sport invade infatti la stampa italiana, per esempio La stampa di Torino, diretta all’inizio degli anni Trenta da Curzio Malaparte, entra nel cinema e nella letteratura per i giovani, e nelle réclame pubblicitarie, come nel caso di quella del Cinzano, che recitava: dopo lo sport bevete un Cinzano. È però difficile trovare una specificità italiana, perché il calcio è una cultura europea e il fatto di mescolare consumo e sport è una cosa che si trova in Francia, in Italia, in Germania prima dell’arrivo al potere di Hitler.
Mezzo di controllo e persecuzione
Come abbiamo già accennato, la nascita di una politica sportiva significa la fine della società civile dello sport. Nel 1925 Lando Ferretti è nominato presidente del Coni; è un fascista, certo perbene – se esistono fascisti perbene – chiamato a dirigere questo ente per conto del regime. La stessa creazione dell’Opera nazionale del dopolavoro, che la storica americana Victoria de Grazia ha definito un mezzo di standardizzazione del tempo libero, è anche un mezzo per controllare lo sport dilettanti. Nel ‘26 viene istituita l’Opera nazionale balilla e nel ‘28 c’è la promulgazione della Carta dello sport. Il Coni passa sotto il diretto controllo del partito – il segretario del partito nazionale fascista diventa di diritto il presidente del Coni – e i presidenti delle diverse federazioni sportive vengono nominati e non più eletti – perfino per la federazioni degli scacchi.
Questa presa di controllo delle società sportive può essere osservata a tutti i livelli. A Torino, per esempio, tutte le società di stampo operaio o socialista vengono sciolte o prese in mano da fascisti – la società sport del Lingotto diventa il gruppo sportivo Dresda, dedicato al ‘martirio’ del fascismo. Anche una società come la Juventus subisce questa politicizzazione e questa dinamica totalitaria: nel ‘22 aveva costruito il proprio campo, il campo Marsiglia, ma nel 1935, su invito del podestà e del segretario federale di Torino, si trasferisce nello stadio Mussolini. Dopo la morte di Edoardo Agnelli, la famiglia non si interessa più alla società sportiva e la Juventus inizia a sentire la mancanza di denaro, subendo l’influenza del federale a tal punto che il nuovo presidente Emilio de la Forest sceglie, sempre su invito del federale, di cambiare la struttura della società, per farne una società di massa e popolare, aperta a tutti gli sport, e non più aristocratica.
Viene istituito anche una sorta di mecenatismo imposto agli industriali, che viene denunciato solo dopo la caduta di Mussolini nel settembre ‘43. Il quotidiano La Stampa scrive: “Il federale convocava gli industriali e i commercianti di forti possibilità finanziarie e li convinceva, anche se erano riluttanti, ad accettare la presidenza della società da salvare. Il sistema aveva vantaggi immediati e svantaggi a non lunga scadenza, e spesso gli improvvisati dirigenti non aspettavano che l’occasione propizia per svignarsela, cercando in vario tempo di recuperare la maggior parte dei denari dovuti sborsare per forza”.
Non avviene diversamente in Germania. Dal gennaio ‘33 il Führer è impegnato nella politica sportiva e nel ‘38 le federazioni tedesche perdono l’autonomia, venendo integrate nella Federazione nazionalsocialista degli esercizi fisici interfederali, ente direttamente sotto il controllo del partito nazista. Anche in Francia, durante il regime di Vichy, lo sport viene messo sotto controllo. Nel dicembre del 1940 viene promulgata la Carta dello sport, che fonda la dottrina sportiva del regime su tre principi: unità, autorità e disciplina. Parole che potrebbero essere riprese dal regime fascista. Anche qui le federazioni devono essere autorizzate dal Commissario generale dello sport, e i loro presidenti sono nominati direttamente dal commissario stesso. È la fine della democrazia sportiva.
In questa costruzione dell’uomo nuovo sportivo vi sono tuttavia contraddizioni che si possono trovare sia in Italia, che in Francia che in Germania. Ci sono infatti sport che non sono idonei, in particolare in Italia c’è il ciclismo, molto popolare, eppure Mussolini non è mai andato a una tappa del Giro. Per lui il ciclismo mostra un’Italia del passato, con strade non asfaltate, un sud desolato, quindi non è certo lo sport fascista. L’atletica leggera, il nuoto e il rugby sono sport fascisti. I primi due perché necessari al soldato, l’ultimo perché è uno sport di combattimento. La palla ovale è anche lo sport delle élite fasciste, ed è molto importante in Italia, Germania – basti pensare che la Federazione Fira (Federazione internazionale del rugby amatoriale) riunisce persone che hanno convergenze ideologiche, e una delle lingue ufficiali è il tedesco – e Francia, dove il rugby è presentato come lo sport per la giovinezza di Vichy.
La contraddizione sta nel fatto che per gli italiani, i francesi e anche i tedeschi, lo sport del dopolavoro sono le bocce: 200.000 praticanti in Italia. Ma non si può certo dire che le bocce siano uno sport fascista! Infine, un rapido accenno all’aspetto della persecuzione e quello della resistenza. Si può dire che c’è una convergenza tra i tre regimi perché progressivamente, brutalmente in Germania e progressivamente in Italia e in Francia, lo sport diventa anche un mezzo per escludere coloro che non devono fare parte del movimento sportivo, cioè i socialisti, i comunisti, poi in Italia i cattolici, e ovviamente gli ebrei. C’è anche un modo di praticare l’esclusione nelle colonie, e in questo senso l’Italia non è sola, nella volontà di assegnare ai calciatori indigeni il ruolo di coloro che non sanno giocare se non a piedi nudi, con brutalità. Ci sono poi attacchi dell’Italia alla Francia per il primo giocatore francese nero nella nazionale di calcio, e quando nel 1938 la squadra va Napoli per giocare si scatena una fortissima indignazione nella stampa italiana.
In tutto questo ci sono anche alcuni individui che scelgono di dire no, in Italia, in Germania e Francia, dove viene anche creato un movimento di resistenza sportivo che protesta contro la deportazione degli sportivi ebrei. In conclusione, la storia del fascismo sportivo non è solo italiana ma è europea. Quindi non si può capire la storia dello sport in Europa senza tracciare il percorso delle influenze, e la si deve rileggere anche in questa prospettiva; da qui deriva la permanenza di certi dirigenti nel dopoguerra, e il fatto che nei tre Paesi la maggior parte degli sportivi non abbia mai fatto un esame di coscienza.
*Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Tra le sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010, pubblicato in Italia dalle Edizioni Paginauno, Storia del calcio, 2016