Italia, competitività e salari: i dati scomodi che gli analisti tacciono per far quadrare le loro ricette economiche
Agosto è il mese più difficile per l’informazione nostrana. Con il campionato di calcio e la politica in vacanza diventa difficile riempire le pagine con qualcosa che assomigli al giornalismo che piace alla gente. Molti media, o almeno quelli considerati ‘seri’, puntano allora sull’approfondimento (d’estate abbiamo tempo perfino per pensare), con conseguenze spesso interessanti, in un senso o nell’altro. Capita dunque che Il Sole 24ore pubblichi un commento dal titolo Ma l’Unione non sa essere competitiva a firma di Hans-Werner Sinn (1), che è un piccolo capolavoro nel descrivere l’aria che tira sulle strategie di gestione dell’economia europea, e italiana in particolare.
L’autore non è uno qualunque: nel 2013 il Frankfurter Allgemeine Zeitung lo ha messo al primo posto nella lista degli economisti tedeschi con la maggiore influenza politica. Classe 1948, Sinn insegna Economia e finanza pubblica all’Università di Monaco, ma è conosciuto soprattutto come presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica), il più importante think tank tedesco sui temi di politica economica, che, fra le altre cose, pubblica mensilmente l’indice di fiducia delle imprese. L’articolo parte con un’affermazione forte: “L’Italia vive una terza ricaduta recessiva ma non ci è arrivata da sola. È il fallimento dei politici italiani sul fronte della competitività ma è un fallimento generalizzato in Europa. Quando è scoppiata la crisi finanziaria nell’ultimo trimestre del 2007, il Pil italiano è precipitato del 7%, si è rialzato del 3%, è risceso del 5%, risalito di un misero 0,1% e, nella seconda metà di quest’anno, si è contratto di nuovo, stavolta dello 0,3%. Negli ultimi sette anni la contrazione complessiva del Pil è stata del 9%. Inoltre, la produzione industriale è precipitata di un inquietante 24%. Se il Pil italiano è riuscito a mantenersi costante è stato solo grazie alla sua inflazione tenacemente persistente”.
Quel che Sinn sostiene nel criptico linguaggio dell’economista è semplicemente che la contrazione italiana degli scambi in beni e servizi – cioè la recessione – è stata in questi anni mascherata dalla crescita dei prezzi, cioè dall’inflazione. Dal momento che il Pil è la somma del valore di tutti i beni e servizi scambiati in un Paese in un dato periodo di tempo, esso può mantenersi costante anche quando le quantità prodotte e vendute scendono, a patto che i loro prezzi salgano: per esempio un Pil pari a 100 può riferirsi ugualmente a 100 unità di beni che valgono 1, oppure a 50 unità che valgono 2, oppure a 25 unità che valgono 4. Se questi valori fotografassero la situazione economica di un Paese in tre anni successivi, dovremmo concludere che, nonostante il Pil sia rimasto invariato, gli scambi in quel Paese si sono ridotti a un quarto del livello iniziale, mentre i prezzi di beni e servizi sono aumentati del 400%.
L’articolo continua: “La disoccupazione complessiva è salita al 12% mentre il tasso di giovani che non vanno a scuola è salito al 44% (questo dato non ci è chiaro, ma immaginiamo si riferisca alla percentuale dei giovani non occupati fuori dal sistema scolastico, n.d.a.)”. L’Italia si troverebbe dunque nel peggiore degli scenari possibili, quello della stagflazione, in cui crescono sia l’inflazione che la disoccupazione.
Nella teoria economica keynesiana, a uno scenario recessivo (in cui aumenta la disoccupazione e diminuiscono i salari) si combina per definizione una diminuzione dell’inflazione: dal momento che la gente ha meno soldi da spendere, i prezzi dei beni devono diminuire perché diminuiscono i consumi. Ma nella realtà non sempre questo accade, per varie ragioni: shock esterni, vischiosità di prezzi e salari (cioè la loro incapacità di adeguarsi velocemente ai cambiamenti nel livello della domanda e offerta di beni), oppure la presenza di mercati non concorrenziali nei settori delle materie prime e dell’energia.
In ogni caso, la stagflazione è la situazione da cui è più difficile uscire con le manovre classiche di politica economica: con quelle espansive (cioè aumentando la spesa pubblica e la liquidità immessa nel sistema), perché peggiorano il problema dell’inflazione; con quelle restrittive (riduzione della spesa pubblica e della liquidità a disposizione del sistema), perché peggiorano la recessione economica.
Prosegue Sinn: “L’Italia ha cercato di contrastare la contrazione economica aumentando il debito pubblico (la spesa pubblica, n.d.a.). Grazie agli interventi di salvataggio intergovernativi e della Banca centrale europea per mantenere bassi i tassi di interesse, il debito pubblico italiano è aumentato solo di un terzo dalla fine del 2007 alla primavera del 2014. Il nuovo premier Matteo Renzi dice di voler stimolare la crescita, ma in realtà intende solo accumulare altro debito. È vero, il debito stimola la domanda, ma è un tipo di domanda artificiale ed effimera”.
Secondo l’economista tedesco, insomma, i politici italiani sarebbero stati davvero fortunati in questo periodo di crisi: non solo l’inflazione avrebbe permesso loro di non fare i conti con una conclamata recessione, ma i tassi d’interesse bassi avrebbero garantito il contenimento ‘automatico’ di una spesa pubblica altrimenti fuori controllo.
Conclude Sinn: “La crescita sostenibile potrà essere raggiunta solo se l’economia italiana ritrova la sua competitività e all’interno dell’eurozona c’è solo un modo per farlo: riducendo i prezzi rispetto ai concorrenti dell’eurozona. Ciò che l’Italia è riuscita a fare svalutando la lira deve essere ora emulato attraverso un vero e proprio deprezzamento. L’epoca dei tassi di interesse bassi che è seguita alla decisione di introdurre l’euro, nel 1995, ha creato un’enorme bolla creditizia nei Paesi meridionali dell’eurozona che è perdurata sino alla fine del 2013. In quel lasso di tempo, l’Italia è diventata più cara del 25% (sulla base del suo deflatore Pil) rispetto ai suoi partner commerciali dell’eurozona. […] Rispetto alla Germania, l’Italia è diventata più cara del 42%, un dato esorbitante. Il problema dell’Italia è proprio questo differenziale di prezzo. Il Paese deve correggere questo sbilanciamento attraverso un vero deprezzamento, non c’è altra soluzione. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Alzare i prezzi non è mai un vero problema, abbassarli o farli aumentare più lentamente rispetto a quelli dei Paesi concorrenti è penoso e fa paura”.
Bene, Herr Sinn, conclusione condivisibile: bisogna ritrovare competitività, il che vuol dire rendere i propri prodotti più appetibili rispetto a quelli dei concorrenti. Tuttavia ci sono diversi modi per essere più appetibili: incorporando nei propri prodotti una maggiore qualità con investimenti intelligenti in ricerca e sviluppo, per esempio (quel che ha fatto negli ultimi vent’anni il settore automobilistico tedesco, per citare un caso universalmente noto). L’economista tedesco ritiene invece che l’unica strada possibile per l’Italia (e con qualche ragione, in verità) sia quella di praticare prezzi bassi, perlomeno più bassi di quelli dei partner europei. Citando le storiche manovre di svalutazione della lira, tuttavia, Sinn mostra di non comprendere come esse abbiano sì garantito competitività (alle esportazioni), ma una competitività ‘artificiale’, mascherando quelli che sono invece i veri problemi dell’offerta italiana, e che ora, senza una liretta da svalutare a piacere, sono sotto gli occhi di tutti: incapacità di innovare, di crescere oltre il livello della piccola-media impresa, di creare posti di lavoro, di sfruttare i propri punti di forza, di implementare strategie da grande impresa, e che sono difetti tutti ascrivibili a serie carenze qualitative della nostra classe manageriale (sia pubblica che privata), atrofizzata dall’abitudine a operare in un sistema economico viziato dal clientelismo e dal familismo, dal malaffare e dai cartelli, e da un sistema finanziario ugualmente clientelista e provinciale.
Come è stato infatti possibile che l’Italia dall’avvento dell’euro a oggi sia diventata più cara del 42% rispetto alla Germania? È molto semplice: l’imprenditoria ha fatto cassa, ‘arrotondando’ i prezzi impunemente (sfruttando dove possibile il famoso cambio 1 a 1: 1 euro=1.000 lire invece di 1.936,27) per massimizzare i profitti, sotto lo sguardo distratto, o complice, delle autorità di vigilanza, e ponendo le basi della stagflazione attuale.
Secondo il Comitato contro le speculazioni e per il risparmio (Casper), che riunisce le associazioni Adoc, Codacons, Movimento difesa del cittadino e Unione nazionale consumatori, e che ha condotto un’analisi dell’andamento dei prezzi nei primi dieci anni dell’euro (dal 2001 al 2012), i risultati sono stati “sbalorditivi”. Prendendo in esame un paniere di 100 voci, includendo sia beni che servizi per un arco temporale standard, i rincari “sono sempre a due cifre e raggiungono una media del 53,7%, tenuta alta da prodotti i cui prezzi sono letteralmente schizzati (come il cono gelato, la penna a sfera, il tramezzino al bar, i biscotti, la lavanderia, il caffè o il supplì)”. Vi è poi tutta una serie di beni e servizi che hanno registrato un raddoppio (o quasi) dei prezzi: dalla pizza Margherita ai jeans, dalla giocata minima del Lotto ai pomodori pelati, al biglietto dell’autobus a Milano.
E sono raddoppiati anche “il balzello da pagare al parcheggiatore abusivo e la mancia al ristorante”, aggiunge il Comitato. Evidentemente questo sistema dopato ha funzionato finché l’occupazione e il credito al consumo finanziato dalle banche hanno tenuto, cioè fino allo scoppio della crisi nel 2007, poi il giocattolo si è rotto. Stagflazione, dunque, e per uscirne bisogna far scendere i prezzi. Ma come?
Questa è la domanda centrale, e qui si capisce come mai l’intervento di Sinn abbia trovato spazio sul quotidiano di Confindustria: “Anche se i sindacati di un Paese permettessero una politica del genere attraverso una moderazione salariale, i debitori si troverebbero in difficoltà, perché avrebbero preso in prestito presumendo che l’inflazione si sarebbe mantenuta alta. Molte aziende e molte famiglie andrebbero in bancarotta. Visto che la disinflazione o la deflazione porta a una valle di lacrime prima che la competitività aumenti, c’è ragione di dubitare che i politici neoeletti, con il loro orientamento a breve termine, siano capaci di mantenere la rotta”. Eccolo qui il mantra degli industriali nostrani e non solo, la ricetta contro tutte le crisi: abbassare i salari! I prezzi salgono troppo, secondo Herr Sinn, non perché in Italia abbiamo un ceto dirigente straccione, ma perché paghiamo troppo operai e impiegati: diminuiamo i salari, i prezzi diminuiranno, la competitività aumenterà e la domanda ricomincerà a salire. Ma è proprio così?
Ci spiace svegliare il grand’uomo tedesco dal suo sogno, ma purtroppo l’unico prezzo che è salito e sale meno dell’inflazione in Italia è quello della manodopera. Anche prima della crisi, cioè fino al 2007, i dati sui confronti internazionali confermavano l’esistenza di una questione salariale tutta italiana in cui le retribuzioni nette (a parità di potere d’acquisto) risultavano inferiori di 12 punti rispetto a quelle spagnole, di 29 punti rispetto a quelle francesi, di ben 43 punti rispetto alle tedesche, di 56 punti rispetto ai salari dei lavoratori degli Stati Uniti, fino ad arrivare a meno della metà di quelle dei lavoratori inglesi (dati Ires-Cgil). Più in dettaglio, tra il 1993 e il 2007 le retribuzioni italiane sono cresciute del 4% (appena 750 euro) contro la crescita reale delle retribuzioni lorde dei lavoratori spagnoli del 10% (1.700 euro), dei lavoratori tedeschi (4.000 euro) e americani (3.400 euro) del 13%, dei francesi del 23% (4.000 euro) e degli inglesi del 29% (8.300 euro).
Mario Vavassori, fondatore e amministratore delegato di Od&M, una società che dal 2000 al 2012 ha raccolto ed elaborato i dati relativi a quasi due milioni di profili retributivi italiani, ha dichiarato all’Eco di Bergamo che “un operaio nel 2002 percepiva 18.000 euro lordi, nel 2012 ne percepiva 22.500, ma l’incremento è stato interamente azzerato dall’aumento dei prezzi. Lo stesso vale per gli impiegati: il loro stipendio è cresciuto del 22%, ma l’inflazione ha eroso il corrispettivo” (2). Nel 2013 il potere d’acquisto dei salari secondo l’Istat è calato ancora del 1,1%, e questo nonostante il reddito disponibile sia salito, in valori correnti, dello 0,3%. Insomma: anche se il livello dei prezzi è aumentato pochissimo (il tasso di inflazione medio è stato del 1,2%), è stato più che abbastanza per erodere quel poco di respiro che le buste paga avevano conquistato.
Ma secondo altri osservatori la situazione sarebbe ben peggiore, perché la valutazione dell’andamento del potere d’acquisto dipende da come si calcola il valore dell’inflazione, e molti ritengono che il paniere Istat la sottovaluti. Così il Codacons afferma che dal gennaio 2002 al gennaio 2012 la perdita del potere d’acquisto per il ceto medio è stata addirittura pari al 39,7%: in 10 anni una famiglia di quattro persone ha subito una stangata, per aumento dei prezzi, rincari delle tariffe, manovre economiche, caro-affitti, caro-carburanti ecc. di circa 10.850 euro.
Abbassare i redditi avrebbe poi in Italia davvero l’effetto di far scendere i prezzi? Se quando i prezzi salgono i redditi rimangono invariati o scendono addirittura, come capita, perché dovremmo prendere per buona la tesi che fra i due esista una correlazione positiva? Perché non pensare di agire su altri fattori per diminuire il prezzo dei prodotti italiani e recuperare competitività?
In economia il prezzo di un bene varia al variare sia della domanda che dell’offerta: il che significa che causare una contrazione della domanda non è l’unico modo per far scendere i prezzi. Prezzi, domanda e offerta sono intrinsecamente collegati: in generale a un aumento della domanda corrisponde un aumento del prezzo, mentre viceversa a un aumento dell’offerta corrisponde una diminuzione di prezzo. I fattori che influenzano la domanda di un bene sono: il prezzo del bene considerato; il prezzo dei beni complementari e succedanei; il reddito del consumatore; le aspettative soggettive dei consumatori; il costo del denaro; l’elasticità o la rigidità della domanda; e i bisogni del consumatore.
Non è necessario analizzare nel dettaglio questi fattori, ma in sintesi possiamo affermare che la domanda di un bene aumenta al diminuire del prezzo di quel bene; che aumenta all’aumentare del prezzo dei prodotti sostitutivi; che aumenta all’aumentare del reddito; che aumenta se la fiducia dei consumatori migliora; e che aumenta se il costo del denaro diminuisce (perché comprare a credito è più conveniente).
Invece fra le determinanti dell’offerta troviamo: i costi di produzione (fra cui materie prime e manodopera); la tecnologia; il costo del denaro; il prezzo; e le politiche governative. Il costo del lavoro non è dunque l’unico fattore su cui un imprenditore può agire per diminuire i prezzi: può recuperare efficienza con una politica oculata degli acquisti di materie prime, per esempio, o nel lungo periodo con investimenti mirati in tecnologia, oppure i governi possono mettere in atto politiche di sostegno alle imprese, e così via.
Tuttavia, perché la diminuzione di prezzo si verifichi bisogna che le imprese mantengano costante o abbassino il loro livello di profitto unitario. In questo senso, prezzi e profitti sono inversamente correlati: al scendere dei costi, o in presenza di politiche di sostegno, se i prezzi scendono i profitti unitari non devono aumentare, o almeno non in modo proporzionale. Al contrario, in un’ottica di massimizzazione dei profitti, il prezzo può benissimo non scendere, o addirittura salire, anche in uno scenario di costi calanti, ed è quello che capita il più delle volte nei Paesi capitalistici.
Tanto più se la curva di domanda di un bene è rigida, cioè se i consumatori ritengono quel bene necessario, e non sono disposti a diminuirne il consumo anche se i prezzi salgono o il loro reddito scende. È il caso tipico dei prodotti che danno dipendenza, come per esempio l’alcool o le sigarette, e infatti le politiche fiscali dei governi sfruttano questo meccanismo per ottenere gettiti (o extra-gettiti) facilmente prevedibili. Ma anche la domanda di energia è rigida (benzina, riscaldamento), quella per i farmaci e le cure mediche, quella dei prodotti della cura della persona, perfino quella del caffè o del cappuccino al bar (chi ci rinuncia?), e si sta rivelando tale anche quella per la tecnologia di utilità individuale (smartphone, pc, televisione ecc.): la società dei consumi in effetti aspira a trasformare ogni desiderio in una necessità, e ogni curva di domanda in una domanda rigida. In questi casi, far scendere i prezzi alle imprese non conviene, perché il profitto unitario diminuisce, e quello complessivo non aumenta tanto da giustificare la manovra sul prezzo.
Se Sinn si aspetta che un’ulteriore riduzione dei salari in Italia causerebbe uno shock tale da far abbassare i prezzi, ha fatto male i suoi conti, o non è mai stato nel Belpaese. I nostri imprenditori continueranno a piangere nei talk show sulle loro avverse sorti, chiederanno e otterranno i soliti aiuti dallo Stato (cassa integrazione e incentivi), e nel frattempo, invece di investire (con la crisi, come si fa?!), continueranno a esportare i loro ricchi capitali all’estero.
In compenso, una nuova contrazione dei redditi manderebbe di certo in tilt le già provate finanze pubbliche e il sistema del welfare, e precipiterebbe nella povertà milioni di connazionali, certo i meno colpevoli dell’attuale status quo. Ma che dire, Herr Sinn, alle purghe ci siamo abituati.
(1) Cfr. Hans-Werner Sinn, Ma l’Unione non sa essere competitiva, Il Sole 24ore, 22 agosto 2014
(2) “Stipendi, il potere d’acquisto ha perso fino al 10 per cento”, L’Eco di Bergamo, 12 giugno 2013