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All’origine della seconda Repubblica, l’alleanza tra neofascismo, ‘ndrangheta, massoneria e politica
«… che cosa c’è sotto tutto questo imbroglio?»
«C’è un gruppo di uomini corrotti. Accecati dall’avidità di potere, di danaro. Affaristi italo-americani… Mafia siciliana… Una piovra… che si vuole impadronire dell’Italia».
(dalla fiction televisiva La Piovra2)
Nel momento in cui Bagarella, uomo di Cosa nostra, fonda Sicilia Libera, è a conoscenza della discesa in campo ormai prossima di Silvio Berlusconi. Ma non per questo vuole rinunciare al progetto separatista. Non si fida più dei politici e preferisce un partito in cui Cosa nostra sia direttamente presente; fidarsi equivarrebbe a ripetere di nuovo l’errore commesso da Riina in passato, anche se è vero che i candidati del Polo contattati dalla mafia si sono assunti impegni precisi. Corrono voci incoraggianti su un’ampia convergenza di progetti tra il nuovo partito di Berlusconi e Sicilia Libera, e l’idea di trasformare l’isola in un porto franco è condivisa dagli stessi politici siciliani che aderiscono a Forza Italia. Inoltre, sta prendendo quota una trattativa tra Bossi e Berlusconi per un accordo elettorale tra i cui obiettivi c’è il federalismo. Un parlamentare della Lega nord, questore del Senato, scende al sud e conferma che il nuovo movimento politico, il cui nome sarà Forza Italia, sposa la tesi federalista. Per la mafia significa non abbandonare il progetto separatista da realizzarsi in tempi lunghi, pur risolvendo nell’immediato le questioni più importanti: i pentiti, il 41bis e il reato di associazione mafiosa.
Per raccontare questa alleanza tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, lo scrittore può servirsi di una dichiarazione di Tullio Cannella e ambientare una scena a Palermo, durante l’ultimo comizio del Cavaliere alla Fiera del Mediterraneo. Il leader di Forza Italia promette alla piazza di essere intenzionato a usare i voti presi in Sicilia per colpire la delinquenza; Cannella, presente su incarico di Bagarella, ha un sussulto. Ci penserà in seguito quest’ultimo a tranquillizzarlo: si tratta di frasi obbligate, pronunciate a uso e consumo dell’opinione pubblica, e della stampa in particolare, che lo rimprovera di non parlare mai della mafia. Non c’è da temere, quindi, perché gli impegni assunti con ‘loro’ dal Cavaliere sono “impegni seri”.
Sono trascorsi meno di due anni dal giorno dell’esecuzione di Salvo Lima rivendicata sotto la sigla ‘Falange Armata’. Dal momento, cioè, in cui si apre la stagione stragista e che segna l’inizio del progetto eversivo.
Lima è solo un simbolo abbattuto per decretare la fine dell’alleanza tra Cosa nostra e la Dc, e sta a dimostrare che fino all’ultimo i vertici della mafia siciliana hanno sperato nella possibilità che i loro referenti politici storici avessero ancora l’intenzione di ribaltare la sentenza del maxiprocesso. Non si sono accorti che il voltafaccia del partito è definitivo, dimostrando in questo l’incapacità di valutare l’impatto devastante sulla politica italiana degli ultimi rivolgimenti mondiali: il crollo del muro di Berlino e la caduta dell’impero sovietico. Troppe cose sono sfuggite loro.
Le dichiarazioni rilasciate da Mino Martinazzoli durante il processo Andreotti chiariscono le ragioni che stanno alla base del ‘tradimento’. Nel 1985, durante il suo incarico come ministro della Giustizia, incontra alcune persone. Rappresentanti del governo americano che gli parlano dell’imminenza della fine del comunismo e gli dicono che è ora di ribaltare il tavolo su cui per cinquant’anni i governi italiani hanno giocato con la criminalità organizzata: buona a partire dal primo dopoguerra in chiave anticomunista e nella sua forma di potere armato e punitivo, e da sganciare adesso che non serve più. Molto americano. Il succo del discorso è che, giunta al capolinea la guerra fredda, non ha più senso sopportare i costi sociali causati dalle attività economiche della mafia. Occorre da adesso una politica di contrasto che ponga in cima alle priorità la lotta alla droga. Anche Claudio Martelli, chiamato a deporre nello stesso processo, rilascia dichiarazioni nella medesima direzione. L’Italia deve cominciare a dotarsi di strumenti legislativi atti a incoraggiare il pentitismo.
Le ragioni dell’omicidio Lima possono quindi essere rintracciate nella logica della punizione per il tradimento. Ma lo scrittore ha un’altra carta nella manica che gli permette di interpretare la morte del viceré andreottiano sotto un’altra ottica. Una vendetta dovuta a un secondo tradimento, legato proprio al nuovo progetto separatista, e che egli si riserva di mostrare più avanti.
Interessante è, per il momento, soffermarsi su alcune considerazioni legate sia al tema del romanzo che alla trama. La decisione di firmare gli attentati con il nome Falange Armata. Secondo il pentito Salvatore Cancemi, non si tratta di una scelta di Riina e di Santapaola, bensì, di personaggi molto più importanti esterni a Cosa nostra. Un parto di persone dotate di menti raffinatissime, come afferma il giudice Falcone, dopo l’attentato dell’Addaura contro di lui – sventato per un soffio. E, d’altro canto, quanto segue nel romanzo, nonché l’arresto che lo ha reso un oggetto di scambio, dimostrano ampiamente quanto poco contasse Riina, colui che la politica, con i suoi addentellati tra i vari poteri occulti, ha tutto l’interesse a far passare come il ‘capo dei capi’.
La sigla di rivendicazione non è un particolare secondario, al contrario. Apre alcuni rivoli narrativi in grado di spostare il romanzo lungo lo stivale legando il sud al nord, la Sicilia al Friuli, Trapani e Palermo a Pordenone, in una diramazione di complicità e di strategie che affondano nella storia, e che hanno a che fare con la nascita sia della prima che della seconda Repubblica. Massoni, servizi segreti, mafiosi, bombe, politici, uomini legati alle istituzioni… La narrazione mira a delineare un intreccio di responsabilità difficile da restituire nella sua complessità e completezza. Meglio, quindi, procedere con ordine senza inserire per il momento altri salti temporali o spostamenti spaziali.
C’è tuttavia da riflettere: nei giorni in cui lo scrittore scrive, Massimo Ciancimino vuota il sacco sulla trattativa Stato-Mafia, mescolando verità e falsità. Affermazioni pesanti anche riguardo al padre – don Vito, reo di aver reso Palermo una fabbrica di soldi per le imprese degli appalti nelle mani di Riina e di Provenzano. Una dichiarazione su tutte va sottolineata: l’appartenenza del genitore a Gladio. Eccolo il punto d’unione logistico tra meridione e settentrione, su cui lo scrittore farà leva per mostrare la portata del progetto ‘politico’ dei poteri occulti. Due nomi in particolare gli sovvengono – il siciliano Centro Scorpione e il friulano Centro Ariete – e la singolare coincidenza di date che unisce idealmente la fine delle stragi nel ’93 con l’ingresso in scena nel 1994 della nuova figura terroristica di Unabomber, apparentemente avulsa dal contesto narrativo. Ma è ancora troppo presto per introdurre un’energia narrativa di questa portata. Meglio seguire per il momento la trama legata alla costituzione delle Leghe nel sud, pur sapendo che tale legame, la cui importanza il lettore comprenderà più avanti, non può prescindere da quanto sta accadendo nello stesso periodo tra i movimenti leghisti del nord e negli uffici di Publitalia.
Di certo lo scrittore comprende che il suo progetto rischia di realizzarsi in un romanzo fiume. Deve perciò stare sempre attento a non allontanarsi troppo dall’asse principale della storia. E, d’altro canto, i collegamenti tra la presenza di uomini legati a Gladio nella vicenda sono destinati a fare capolino già dalle dichiarazioni di importanti collaboratori di giustizia in forza alla ‘ndrangheta, riguardo a quanto sta accadendo in Calabria, tra il ’91 e il ’93.
Le parole di Pasquale Nucera e di Filippo Barreca alludono a interessi politici convergenti tra sud e nord, e tra il continente e la Sicilia. Sono loro a fare il nome di un importante personaggio in grado di unire con la sua presenza, fatti della storia calabrese (e, per la portata degli eventi, italiana) che risalgono il tempo dall’infuocato biennio ’68/’69 fino alle vicende del progetto eversivo di cui parla il romanzo. Il nome è quello dell’avv. Paolo Romeo.
L’ingresso in scena avviene in un’ennesima riunione che si svolge presso il santuario di Polsi, nel comune di San Luca. L’occasione ‘ufficiale’ in cui si incontrano le gerarchie della ‘ndrangheta; un incontro di facciata, in realtà, assai simile nella sostanza ai teatrini parlamentari della politica. Là come qui, la discussione ufficiale rappresenta una mascherata democratica. Una piattaforma di discussione in cui vengono ‘ratificate’ decisioni e strategie decise altrove, all’interno di un organismo definito ‘la Santa’, cui fanno parte anche elementi appartenenti alla massoneria coperta, ai servizi segreti, esponenti dell’estrema destra e, va da sé, uomini della ‘ndrangheta. Questa specie di Cupola, a quanto risulta dalle dichiarazioni di un suo appartenente, Giuseppe Albanese, nasce nel 1970 come copertura del tentato colpo di Stato divenuto famoso con il nome di ‘Golpe Borghese’. Secondo Nucera, l’alleanza tra massoneria e ‘ndrangheta viene cementata dall’inesauribile impegno di Licio Gelli, il quale chiede l’inserimento di ogni componente della ‘Santa’ nella massoneria, così da garantirsi il controllo delle operazioni.
Sulla presenza in questa scena ambientata a Polsi di due pezzi da novanta come Romeo e Gelli occorre soffermarsi per comprendere la gravità e lo spessore criminale dell’occasione – soprattutto per evidenziarne l’importanza. Un livello di potere talmente alto e indefinibile da permettere al lettore di capire come mai tutte le più importanti inchieste sul potere massonico e i suoi intrecci con altri poteri occulti, in Italia, si siano concluse in un gran chiasso, mille polemiche e infine soffocate con un decreto di archiviazione, quando non con la morte dei protagonisti, come nel caso del giudice Vittorio Occorsio (assassinato nel 1976 da fascisti appartenenti a Ordine nero per bloccare la sua inchiesta sulla P2), di Giovanni Falcone (che indagava, tra le altre cose, sul centro culturale ‘Lo Scontrino’ di Trapani) e di Paolo Borsellino, giunto a sua volta a conoscenza di accordi segreti tra i ‘soliti potenti’ (la trattativa Stato-Mafia). È accaduto anche nel caso dell’inchiesta Phoney Money, dell’inchiesta Cheque to cheque e della più recente inchiesta Why not coordinata da Luigi De Magistris.
Nel 1992, Agostino Cordova apre l’inchiesta Olimpia: un’inquietante discesa nella storia, a partire dai giorni dell’inizio della strategia della tensione, per ricostruire l’origine della rete di alleanze tra poteri occulti. È in quell’epoca che si radica il patto con la massoneria, l’eversione nera e i servizi segreti, fondamentale se si vuole comprendere il salto di qualità della ‘ndrangheta, da allora divenuta l’organizzazione criminale più potente del pianeta. Dal 1968, in Calabria, il neofascismo diventa di casa.
Il marchese Felice Zerbi, l’immancabile Borghese e personaggi come Stefano delle Chiaie, Franco Freda, l’ordinovista (futuro Psdi) Paolo Romeo e varia manovalanza di estrema destra, stringono forti contatti ed elaborano strategie. È proprio Romeo a trovare riparo per Freda, ricercato dallo Stato per la strage di piazza Fontana (e, tra l’altro, accompagnato a Reggio da Zamboni e Saccà, massoni e agenti dei servizi) e che, sempre con Franco Freda, fonda una superloggia con ramificazioni in lungo e in largo per l’Italia, in cui confluiscono uomini della ‘ndrangheta del calibro di Peppe Piromalli e Antonio Nirta.
È a questo livello che si prendono le decisioni, consegnate alla ‘ufficialità’ in quel di Polsi.
Tornando all’avvocato Paolo Romeo, la sua presenza alla riunione lo rende simbolo di una costante italiana, ovvero l’immancabile presenza dell’eversione nera nei momenti di crisi della politica. Gli anni Settanta non sono lontani e nell’immaginario degli italiani, quel decennio si è impresso con il marchio del terrorismo rosso, offuscando la componente terroristica di Stato, cui il neofascismo ha dato un notevole contributo muovendosi in prima linea. Una forma di oblio talmente potente che ancora oggi, quando si parla di anni di piombo, inevitabilmente si parla di brigatismo.
Ogni tanto, a distanza di trent’anni viene chiesta l’estradizione di qualche protagonista dell’epoca, vengono arrestati tre o quattro scoppiati appartenenti a centri sociali accusati di volere riformare le Br, qualche petardo esplode contro la vetrina di un’agenzia interinale, una busta con pallottola arriva al ministro, e così la memoria stuprata degli italiani rimane concentrata su un pericolo costante legato al fantasma comunista.
Un cadavere sepolto dalla storia, sconfitto socialmente, ma tenuto sempre in caldo e pronto all’uso. Salvo poi tacere, all’insegna del laissez faire, sull’avanzare di movimenti politici d’estrema destra come Forza nuova, su ‘eserciti’ di naziskin presenti in tutta Italia e negare addirittura, con il silenzio dei media, l’esistenza di un movimento carsico eversivo di estrema destra sempre pronto all’uso, come è accaduto nel 1992 durante quei giorni di pesantissima crisi politica. È di questa gente che il potere economico (nascosto nel magma delle logge massoniche), dal 1921 a oggi, si serve per lanciare la reazione.
Ecco perché questa ambientata a Polsi è una scena impegnativa. Fondamentale per quanto accade in seguito. Serve a rendere chiaro che questa Storia (con la esse maiuscola) è anche e soprattutto storia del ritorno in grande di componenti fasciste al governo. Allo scrittore viene in mente una frase scritta da Luigi Pintor l’indomani della vittoria berlusconiana del ’94; vale a dire il giorno del compimento di una parte importante del progetto eversivo: ‘So anche che la genesi dei fascismi è storiograficamente controversa, e che definire fascista Berlusconi non è scientifico. Ma la politica è anche fiuto, e ci sono odori inconfondibili, specie quando se n’è fatta esperienza’.
Si era in giorni troppo vicini ai fatti delle stragi perché Pintor potesse comprendere appieno quanto questo ritorno fosse il risultato di un programma steso a tavolino, e per farsi un’idea di quali poteri vi fossero in gioco, e fino a che punto il disegno avesse a che fare con la realizzazione di un terminale che fosse un federalismo all’italiana. Certamente, ha avuto fiuto. Nella scena di Polsi si coglie il senso più profondo del simulacro politico cui è stato dato l’appellativo ridondante di seconda Repubblica.
Incontriamo un’altra figura centrale degli anni Settanta: Stefano Delle Chiaie. Dopo questa riunione, elementi di Avanguardia nazionale ed ex ordinovisti cominciano a distribuirsi in maniera calibrata, come una metastasi. Alcuni entrano a fare parte della Lega nord, della Liga Veneta e di realtà a queste affini, mentre altri si inseriscono nelle leghe sudiste.
Il quadro tuttavia rischia di rimanere incompleto se non viene puntato il faro anche su un’altra figura, un colletto bianco che, in un italiano con inflessione meridionale e accento americano, espone il piano eversivo. È Giovanni Di Stefano e viene da Milano.
Si tratta di un uomodi punta, un mediatore importante legato alla mafia siciliana e calabrese, amico di Milosevic e del criminale di guerra Zeljko Raznatovic, al secolo conosciuto come comandante Arkan. È lui che gestisce il traffico di scorie radioattive a livello internazionale e che si occupa di rifornire armi militari ai Paesi sotto embargo tra i quali la Libia. Prende la parola e annuncia grandi sconvolgimenti imminenti e suggerisce l’opportunità di una pacificazione tra le cosche calabresi, perché le famiglie americane siciliane hanno in mente un progetto: la creazione di un movimento politico che Di Giovanni definisce “partito degli amici”. Subito dopo, Francesco Nirta, boss calabrese, spiega il particolare momento storico: occorre conquistare il potere politico, abbandonare i vecchi referenti, ormai impossibilitati a garantire i loro interessi in Parlamento.
Naturalmente Gelli non si limita a legare tra loro mafia siciliana e calabrese. Nello stesso periodo intesse rapporti con la Sacra Corona Unita per ottenere appoggi per i movimenti leghisti meridionali, con una preferenza particolare per la Lega Meridionale, fondata da Egidio Lanari – avvocato della P2 e di Vito Ciancimino – proponendo in cambio un interessamento per la revisione di alcuni processi a carico di esponenti della criminalità organizzata pugliese. L’accordo si fa e la trama si infittisce.
Lima viene abbattuto da Cosa nostra il 12 marzo del 1992. Otto giorni prima, il 4, Elio Ciolini, un personaggio di difficile collocazione, legato ad ambienti massonici, eversivi e con agganci tra i servizi segreti, indirizza dalla propria cella un inquietante biglietto al giudice istruttore presso il tribunale di Bologna. Indica anche un titolo sopra il testo: “Nuova strategia tensione in Italia – periodo: marzo-luglio 1992”.
Nuova strategia tensione in Italia – periodo: marzo-luglio 1992
Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico PSI, PCI, DC sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica.
Tutto questo è stato deciso a Zagabria Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra europea e in Italia è inteso ad un nuovo ordine “generale” con i relativi vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti.
La “storia” si ripete dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti.
Ritornano come l’araba fenice.
Elio Ciolini, 4 marzo 1992
Il messaggio appare poco più di un discorso strampalato di difficile decodificazione. Come ogni ‘vaticinio’ anche questo può essere compreso a fatti compiuti. A ciò va aggiunto che Ciolini, lungi dall’essere Nostradamus o un novello Cassandra, è un antico frequentatore di carceri. L’incontro con le sue stravaganze risale ai tempi della scoperta della lista P2 nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi. Un elenco di nomi in cui figurano così tanti appartenenti ai servizi segreti, da rendere opportuna una bonifica al loro interno. La contromossa dei piduisti non si fa attendere, e con la collaborazione dei servizi stranieri tentano di delegittimare il Sismi e il Sisde. È qui che compare lo stravagante personaggio, e lo fa con quello che per lui evidentemente è un classico: attraverso un messaggio dal carcere svizzero in cui si ritrova recluso per aver raggirato una ricca americana – sotto le mentite spoglie di un agente segreto israeliano – per sottrarle un milione di franchi. Promette importanti rivelazioni sui mandanti della strage di Bologna e sull’esistenza di una super-loggia P2 a Montecarlo, di cui farebbero parte personaggi importanti della finanza e della politica. Tutte storie, com’è naturale, al fine di sollevare una cortina fumogena a copertura di Gelli e soci e indurre, in cambio della propria collaborazione, i servizi segreti a tirarlo fuori di galera pagando una cauzione di settanta milioni di lire.
Se questo è il precedente, non sorprende che il giudice attribuisca uno scarso rilievo alle sue parole. Per cui le ignora. Ma questa volta Elio Ciolini non mente.
* questo articolo trae spunto dalla Richiesta di archiviazione del Procedimento penale n. 2566/98 denominato ‘Sistemi criminali’, tribunale di Palermo; il virgolettato contenuto nel testo è preso dal suddetto decreto di archiviazione
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Nel 1990 il centro-sud assiste al diffondersi di movimenti leghisti. Pochi mesi dopo, i partitini federalisti del nord confluiscono nella Lega Nord di Bossi e Miglio. E mentre prende vita il progetto federalista, tornano alla ribalta due vecchie conoscenze: Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie