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All’inizio degli anni Novanta, la Lega Lombarda diventa Lega Nord e si afferma come nuova forza politica. Tra stragi, Tangentopoli e guerra dei Balcani, nasce anche un nuovo potere, di cui la Lega diventa riferimento ideologico
All’inizio degli anni Novanta, caduta con il muro ogni prospettiva di alternativa sociale ed economica, i capitalisti italiani comprendono che (finalmente) sono crollati i presupposti politici che rendono necessaria la presenza parlamentare di un pensiero di sinistra.
Comprendono, inoltre, che sta crescendo il peso ‘politico’ di una fascia sociale di piccoli e medi lavoratori autonomi arricchitisi nell’ultimo decennio. Si tratta di una nuova tipologia di elettore: un ceto medio agguerrito disposto a tutto pur di conservare la posizione conquistata e che sarebbe stupido e pericoloso privare di una valvola di sfogo in Parlamento.
Nel 1992 la Lega Nord sembra essere matura per assolvere questo compito. Da un anno ha abbandonato l’originario nome Lega Lombarda e rinnovato il guardaroba politico. Tra le sue fila compaiono personaggi nuovi, alcuni dei quali, come Gianfranco Miglio, prendono la ribalta, mentre altri, come Gianmario Ferramonti, si muovono nell’ombra in cerca di finanziamenti e di alleanze segrete tra le istituzioni pubbliche e il mondo dell’economia.
Accanto al potere economico, altri poteri forti e occulti dal ponte di comando manovrano verso un attracco di emergenza sulle coste della seconda Repubblica, e anch’essi individuano in Bossi l’uomo chiave attraverso cui consegnare alla popolazione, bisognosa di figure politiche nuove a cui aggrapparsi, il mantra politico d’inizio secolo; l’ennesimo ismo stipato nell’onnivoro immaginario degli italiani: Federalismo!
Come per magia, la metamorfosi della Lega Nord coincide con un sensibile aumento della sua visibilità mediatica. In televisione la voce roca del Senatur comincia a inveire contro i meridionali parassiti, lo Stato assistenzialista e la cultura impregnata di meridionalismo, appellandosi al sempreverde motto Roma ladrona, e centra il bersaglio. La formula piace, conquista la pancia di un gran numero di elettori. Nella sua veste di novità, di partito di rottura e senza scheletri nell’armadio, la Lega Nord è utile al nuovo Ordine per due ragioni. Ha le caratteristiche ottimali per farsi carico del voto di protesta, inevitabilmente espresso dal malcontento di fronte alla pioggia di avvisi di garanzia caduta sui leader dei partiti popolari storici; e, nel contempo, propone una politica economica di continuità in un’ottica reazionaria.
Il problema immigrazione diventa, attraverso i portavoce leghisti, il punto di scontro etico della nuova politica sociale e cancella dall’ordine del discorso il vero conflitto sociale. Il fulcro su cui viene costruito il grande inganno ideologico è la nuova figura dell’extracomunitario. A un tempo ricercato dalle imprese come forza lavoro a basso prezzo e mostrato ai cittadini come un pericolo per la sicurezza e per l’identità cristiana, il suo sfruttamento teorico diventa la leva con cui i lumbard riescono a spostare da verticale a orizzontale l’asse del conflitto di classe. E così, dal giorno alla notte, il conflitto storico tra padrone e lavoratore – più che mai vivo in questa congiuntura storica – viene disinnescato, per trasformarsi in uno scontro tra gli ultimi, ovvero tra lavoratore del settore privato e lavoratore del pubblico, e tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri.
Il tema razzista, mascherato da emergenza sicurezza, diventa un asso pigliatutto. Le sue forti implicazioni economiche richiamano alla superficie ataviche paure nel nuovo ceto medio emergente, diventando la pedana di salto con cui la Lega si appropria del concetto cardine dell’impianto ideologico capitalista: la difesa della proprietà privata, ovvero: del valore dei valori. In un’epoca in cui, secondo logica, la scomparsa dell’ideologia comunista dovrebbe rendere scontata la sua sacralità, Bossi, Maroni, Calderoli, riescono nell’impresa, a forza di slogan brutali, di rimettere la proprietà privata sotto attacco e di imporre se stessi come soluzione politica in difesa dell’interesse più immediato del piccolo e medio lavoratore autonomo del Nord: che si tratti della casetta acquistata con i sudati risparmi e insidiata dei delinquenti extracomunitari (1), dell’azienda attaccata dalla prepotenza della globalizzazione economica, o dello Stato che espropria il nord dei suoi guadagni per ridistribuirli ai lavativi meridionali e alla mafia.
A conti fatti, l’improvvisa visibilità garantita ai leghisti sembrerebbe essere l’ennesima formula autoprogressista con cui il potere si cambia le maschere politiche per vestirne di nuove in difesa dei vecchi Shylock italiani. Il nuovo travestimento si chiama, appunto, federalismo.
Completato il quadro sociale, politico ed economico che fa da sfondo al romanzo, giunge il momento per lo scrittore di ordinare le idee in punti fermi, di focalizzare alcune coincidenze e creare logiche connessioni tra le date. Inserisce in corsivo una scaletta in aggiunta agli appunti scritti in precedenza: la Lega Nord diventa una forza con cui fare i conti nel 1992; l’Italia, come quasi tutti i Paesi Europei, vive un periodo di grande stravolgimento; la questione federalista, dalla nascita della seconda Repubblica, inizia a occupare, con una costanza e una trasversalità sospetta, il discorso politico; il federalismo è molto gradito anche alla mafia, alla massoneria collusa con la criminalità organizzata, ai capitani d’industria; piace anche alla Fondazione Agnelli, la quale promuove l’ipotesi della divisione dell’Italia in tre macroregioni – ordini e messaggi partono e arrivano per vie neanche troppo indirette; l’11 e il 12 giugno 1992, a Torino, convegno per discutere di soluzioni procedurali e istituzionali per l’autonomia della macroregione Padania, al fine di valorizzare le risorse economiche; tra i relatori, l’ideologo Gianfranco Miglio; è giunto il momento di cambiare tutto per cambiare nulla? Forse è l’unica strada rimasta per tenere inalterati i giochi di potere con la globalizzazione alle porte.
Secondo lo scrittore, quest’ultimo elemento è il centro del romanzo. Ma come fare a restituire al lettore, nella sua complessità, il contesto politico di questa metamorfosi?
Dunque…
… il progetto prende il via in maniera violenta ed eclatante, il 23 maggio, con l’esplosione di Capaci in cui perdono la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta. Facendo un salto indietro, il 19 marzo, sette giorni dopo l’omicidio di Lima, un’agenzia giornalistica che si occupa di politica, economia e finanza, pubblica un lungo articolo che inizia così:
“Il presidente del Consiglio dei ministri, intervistato dal quotidiano di Scalfari, ha fatto riferimento a una possibile articolazione del terrorismo, nazionale e internazionale, come esecutore-regista dell’eccidio di Salvo Lima. Resta tuttavia indeterminata la sua matrice e la strategia complessiva che ne regolerebbero la presenza nella società italiana e i suoi princìpi d’azione. Una possibile teorizzazione e comparazione, benché astratta, degli elementi distintivi delle varie eversioni, che dilaniano il territorio del Vecchio Continente, indurrebbe a ricondurre il delitto dell’uomo politico siciliano all’interno di una logica separatista e autonomista, anche se mai esplicitamente dichiarata, al contrario di quanto avviene per l’Ira dell’Irlanda del Nord.
“L’atipicità, per così dire, del caso italiano si configura nel fatto che la Mafia siciliana, in particolare avrebbe, fin d’ora, il ‘controllo militare’ del territorio, unito a imponenti canali di autofinanziamento, che hanno soltanto un pallido riscontro con alcune situazioni fortemente compromesse con l’America latina. Per divenire essa stessa Stato le risulta, quindi, sufficiente conquistare l’autonomia amministrativa e regolamentare, al fine di costruirsi come nuovo paradiso fiscale del Mediterraneo, portando alle estreme conseguenze le tecniche di ‘offshore’ e di traffico commerciale (stavolta non più illegale), diretto a sfidare i dazi e le difese doganali dei Paesi confinanti. […] Infatti, l’attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari comporta, come effetto immediato, sia la frammentazione del consenso (aspetto, quest’ultimo, destinato a offrire ben altri margini di manovra al condizionamento e alla penetrazione mafiosa dell’elettorato attivo), sia un inasprimento del meccanismo di tradizione Nord-Sud.
“Quest’ultimo aspetto fa riferimento al processo di ‘feedback’, secondo il quale all’aumento della pressione criminale nel Sud corrisponde una contro-reazione della società civile che tende a prendere le distanze dalla situazione meridionale, apparentemente incontrollabile. […] Paradossalmente, il federalismo del Nord avrebbe tutto l’interesse a lasciar sviluppare un’analoga forma organizzativa al Sud, lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di traffici e impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo, responsabili della compressione del reddito derivabile dalla diversificazione degli impieghi del capitale disponibile”.
Secondo l’autore, quindi, contro i processi di globalizzazione nessun potere centrale è in grado di proporsi come unico elemento di dominio. Lo Stato, concepito come unitario, non è dunque più in grado di proteggere gli Shylock italiani. Cosa invece possibile nel caso di una forte suddivisione territoriale. L’articolo è l’ennesima denuncia cifrata di un progetto criminale in corso d’opera. Coltelli che volano al buio. L’attività parlamentare è bloccata. La politica stenta a trovare un accordo sul successore di Cossiga al Quirinale. La Dc è preda di un equilibrio di forze tra le sue varie correnti interne, il Psi è bersagliato dagli avvisi di garanzia, la società civile è in subbuglio…
Secondo la medesima agenzia stampa (22 maggio 1992) questi sono i presupposti storici per una soluzione violenta e così far passare le candidature istituzionali di Spadolini e Scalfaro:
“Manca ancora, perché passi in modo indolore questa candidatura del ‘partito trasversale’, qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti, cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno – come ai tempi di Moro – a giustificazione di un voto d’emergenza, non potrebbero accettare d’autolegittimarsi. Per fortuna, le brigate rosse e nere sono roba da museo. E, comunque, i poteri dello Stato hanno accumulato esperienza e dimostrato professionalità”.
Il giorno dopo il ‘bel botto’ arriva e Scalfaro viene eletto in fretta e furia. Il direttore responsabile di questa divinatoria agenzia di stampa è Ugo Dell’Amico, figlio di Lando, direttore politico nonché fondatore dell’agenzia giornalistica, in passato militante dell’estrema destra, molto vicino al principe Valerio Junio Borghese e coinvolto nelle indagini sulla strage di piazza Fontana, a causa delle quali è stato arrestato nel 1974.
Lando Dell’Amico, interrogato dalla DIA, pur dichiarando di non sapere chi abbia scritto il primo articolo, indica nell’onorevole Vittorio Sbardella – leader della Dc laziale, vicino a Salvo Lima e appartenente alla corrente andreottiana – l’autore del secondo.
Forte di stare vivendo nel futuro rispetto a quegli anni, lo scrittore sorride. Le ultime due frasi dell’articolo ascritto a Sbardella sono una profezia azzeccata a metà. Il brigatismo rosso, più che roba da museo è un abito conservato in naftalina, come dimostrano gli omicidi dei due giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi (1999 e 2002) e i misteri che ancora li circondano (2). Azzeccato, invece, il riferimento alle brigate nere come roba da museo. Non più in trincea, ma sul ponte di comando ad assistere ai botti. E oggi, nel 2010, imprenditori in affari con ‘ndrangheta, servizi segreti e politica: davvero i poteri dello Stato si sono perfezionati se, diciassette anni dopo, ancora non si conosce un solo nome dei golpisti del ’92/93.
Colpisce il riferimento all’alleanza del terrorismo nazionale e internazionale formulato dall’allora presidente del Consiglio Andreotti. Nelle sue ricerche, come appuntato in precedenza (3), lo scrittore ha accumulato abbastanza documentazione da poter scrivere un giallone internazionale. Decide di tentare questa ipotesi partendo dal 1990 quando la Commissione stragi, indagando sulla bomba esplosa nel 1972 a Peteano, scopre dei collegamenti tra una Gladio jugoslava e i fascisti ustascia croati e giuliani. A tal proposito, Andreotti, chiamato a rispondere dell’esistenza dell’esercito segreto denominato Gladio, consegna un elenco di iscritti, buona parte dei quali residenti in Veneto e in Friuli e appartenenti all’ufficio R del Sismi. Quest’ultimo è il ponte di collegamento tra l’organizzazione e le attività di destabilizzazione della parte orientale dell’Europa fino alla zona Mediorientale. Alcune testimonianze raccolte sempre dalla Commissione parlano della presenza di civili albanesi addestrati in Italia. Il che lascia intendere l’esistenza di una struttura equivalente in Albania, gestita dalla Cia e dai servizi segreti italiani. Lo smantellamento di Gladio è ormai una strada obbligata, ma è difficile credere che ciò possa avvenire davvero. È più logico pensare che i servizi segreti sacrifichino parte della vecchia organizzazione – la cui esistenza è ormai cosa nota – allo scopo di nascondere le operazioni in corso d’opera.
Nel 1992 viene alla luce un tunnel sulla linea di confine tra Jugoslavia e Albania, attraverso cui i terroristi albanesi possono entrare e uscire dal loro Paese. Un articolo apparso sul Piccolo di Trieste parla della presenza di istruttori italiani nei campi di addestramento per ribelli albanesi e kossovari. Proprio in quel periodo scoppia nei Balcani una guerra che, oltre a ricostruire la cartina geografica dell’Europa e creare nuove prospettive politiche, apre nuove rotte e nuovi mercati in cui le varie mafie prontamente organizzano ricchi transiti di droga, di valuta e di armi provenienti dalla Russia.
Per lo scrittore è il momento di portare all’incasso un tema narrativo aperto nella prima parte del romanzo (4): le dichiarazioni di Massimo Ciancimino secondo cui il padre Vito, l’ex sindaco di Palermo ai tempi del sacco, militava nell’organizzazione militare segreta Gladio.
Questo spostamento della narrazione nel nord-est dell’Europa offre diverse prospettive alla fiction. Tanto più che in questo contesto di guerra si consolidano alleanze come quella tra Cosa nostra e le milizie croate fasciste; un elemento utile ai fini della trama, dato che l’esplosivo Sentex usato per Falcone e Borsellino è dello stesso tipo inviato dalla Croazia alle cosche palermitane. È qui che entrano in scena: Gladio e i suoi due centri di addestramento, Scorpione (Trapani) e Ariete (Udine); alcuni strani personaggi, finanziatori dei movimenti nazionalisti russi, sloveni, croati, italiani…; e grappoli di neofascisti che si infiltrano nei partitini separatisti del nord per poi confluire nella Lega Nord.
Lo scrittore si ferma a riflettere, scartabella tra gli appunti finché trova un fogliettino. Sopra, alcuni appunti scritti a mano: 2004 – condanna per bancarotta fraudolenta per la costruzione di un villaggio vacanza sul golfo di Umago, in Croazia. Condannati uomini della Lega Nord. Ipotizzati reati a seguito del fallimento della società Euroservice srl, una specie di immobiliare che finanziava un’altra società: la Ceit. Secondo un deputato dell’Udeur, ex deputato leghista milanese, compito della Ceit era ‘drenare denaro’ per conto della Lega. Indagini patrimoniali identificano alcuni leghisti come soci occulti.
E, poco sotto, un paio di domande: c’entra con inchieste Phoney Money e Cheque to Cheque – sui finanziamenti internazionali alla Lega? E con i rapporti tra fascisti croati, nazionalisti sloveni e i piccoli movimenti indipendentisti del nord-est italiano, in seguito confluiti nella Lega Nord?
* questo articolo trae spunto dalla Richiesta di archiviazione del Procedimento penale n. 2566/98 denominato ‘Sistemi criminali’, tribunale di Palermo; il virgolettato contenuto nel testo – salvo diversa indicazione nelle note a margine – è tratto dal suddetto decreto di archiviazione
(1) Le ronde smascherano l’inutilità del Pd, Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 14/2009
(2) Cfr. Piombo Rosso, Giorgio Galli, Baldini Castoldi Dalai
(3) Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 2/5), Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 17/2010
(4) Ibidem
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Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 1/5), Walter G. Pozzi
Il federalismo, un’idea nata dall’incontro d’interessi tra mafia, massoneria coperta, industria e politica, in concomitanza con le stragi del ’92 e ’93
Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 2/5), Walter G. Pozzi
La rinascita dell’eversione nera
All’origine della seconda Repubblica, l’alleanza tra neofascismo, ‘ndrangheta, massoneria e politica
Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 3/5), Walter G. Pozzi
Un nuovo Ordine criminale
Le stragi del ’92/93 nei messaggi di Elio Ciolini: Cosa nostra, P2, servizi segreti e neofascisti uniti nell’obiettivo comune di un nuovo Ordine economico e politico
Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 4/5), Walter G. Pozzi
Strategia della tensione e origini della Lega Nord
All’inizio degli anni Novanta, la Lega Lombarda diventa Lega Nord e si afferma come nuova forza politica. Tra stragi, Tangentopoli e guerra dei Balcani, nasce anche un nuovo potere, di cui la Lega diventa riferimento ideologico
Il romanzo mai scritto sugli anni Novanta (parte 5/5), Walter G. Pozzi
Fallimento delle Leghe del sud e appoggio a Forza Italia
Nel 1990 il centro-sud assiste al diffondersi di movimenti leghisti. Pochi mesi dopo, i partitini federalisti del nord confluiscono nella Lega Nord di Bossi e Miglio. E mentre prende vita il progetto federalista, tornano alla ribalta due vecchie conoscenze: Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie