di Giuseppe Ciarallo |
L’emigrazione degli italiani nel Novecento, speranza e dramma di migliaia di famiglie, ricordata e rivisitata attraverso lo sguardo di artisti italiani, in un viaggio fra Storia, musica, letteratura e fumetti
Qualche tempo fa, in concomitanza con la promulgazione nel nostro Paese delle ultime leggi razziali che equiparano tout court la clandestinità alla delinquenza, trasformandola in un reato da punire con la galera e l‘espulsione, e con il dilagare di un pericoloso sentimento di xenofobia, ebbe una certa diffusione nella rete l’estratto di una relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, datata ottobre 1912, sul tema specifico dell‘immigrazione italiana.
In quelle poche righe i nostri connazionali, che fin dall‘Ottocento attraversano l’oceano per sfuggire la fame e la miseria, sono descritti né più né meno che con i termini sprezzanti oggi utilizzati per insultare la dignità e l’umanità di quelle persone che tentano di raggiungere, spesso senza riuscirci, il suolo del ricco e democratico Occidente con gli stessi sentimenti e le stesse attese dei nostri antenati. “Piccoli di statura e di pelle scura” vengono definiti, “e poco amanti dell‘acqua e della pulizia, dunque maleodoranti. Vivono in baracche o in appartamenti sovraffollati” continua la nota, “parlano lingue incomprensibili e utilizzano i loro bambini per chiedere l’elemosina, e i loro vecchi invocano pietà con toni lamentosi e petulanti. Sono violenti e dediti al furto e in più di un’occasione hanno perpetrato stupri nei confronti di donne locali”. A ben vedere, gli odierni razzisti non hanno nemmeno fatto lo sforzo di inventarsi qualcosa di nuovo e al passo coi tempi, non facendo altro che riprendere pari pari i concetti e i termini usati dai loro degni predecessori.
A onta dei nostri attuali seguaci del Carroccio, nei petti dei quali batte un cuore orgogliosamente celtico nella convinzione della superiorità delle nordiche genti dello Stivale, la relazione del Congresso concludeva suggerendo alla popolazione autoctona di optare per il meno peggio e dunque di “privilegiare i veneti e i lombardi, più tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare”.
Sollecitato dalle tante analogie e trovando conferma del fatto che la difficoltà di accettazione del diverso è un vizio antico quanto l’uomo e ben radicato a qualsiasi latitudine, sono andato a fare una ricerca sul sito della Ellis Island Foundation (1), dove sono annotati gli arrivi degli emigranti provenienti da tutto il mondo, compresi i nomi delle navi che li hanno portati sul suolo americano. Ellis Island, come tutti sanno è l’isoletta al largo di New York, famosa per ospitare la Statua della Libertà e per essere stata il luogo in cui attraccavano le navi della disperazione e dove gli emigranti venivano tenuti in quarantena dopo essere stati scrupolosamente schedati (da qui la ricchezza e la precisione dell’archivio della Fondazione).
Sono così venuto a sapere che tra i nostri poveri connazionali non mancavano i Berlusconi, i Bossi (tale Umberto, di anni 18, da Fossano, il 12 dicembre 1909 sbarcava da La Lorraine salpata dal porto di Le Havre), c’erano i Maroni (Roberto, 44 anni, giunto negli USA sul piroscafo Giuseppe Verdi partito da Genova) e i La Russa (Ignazio, di 19 anni, da Collesano – Sicily – arrivato il 27 settembre 1913 con la nave America salpata da Palermo). E che dire dei tanti Calderoli, Gasparri, Borghezio, Salvini e Gentilini?
È più che legittimo pensare che i suddetti disperati fossero gli antenati dei nostri politici attuali, i quali usano per i migranti di oggi le stesse vergognose parole utilizzate dall’amministrazione USA nei confronti degli italiani. Parole che allora servirono, come servono oggi, a creare un clima di paura e dunque di rifiuto nei confronti dell’altro, del diverso. Come si può non avere terrore di qualcuno che viene dipinto, con scientifica metodicità, “losco, violento, sporco, maleodorante, dedito allo stupro, al ladrocinio, allo spaccio di droga e all’assassinio”?
Forse potremmo, o meglio, dovremmo vedere la questione con un occhio diverso, visto che i nostri progenitori sono stati costretti a passare attraverso le stesse forche caudine. E a tal proposito mi sembrano quanto mai appropriate le parole che un autentico poeta, Gianmaria Testa, ha scritto e cantato in Ritals, brano tratto dal suo disco Da questa parte del mare (2), un lavoro che, per usare un termine non più in voga, è un concept album interamente dedicato ai migranti di ogni epoca e terra.
Eppure lo sapevamo anche noi / l’odore delle stive / l’amaro del partire /
lo sapevamo anche noi / e una lingua da disimparare / e un’altra da imparare in fretta /
prima della bicicletta / lo sapevamo anche noi / e la nebbia di fiato alle vetrine /
il tiepido del pane / e l’onta di un rifiuto / lo sapevamo anche noi / questo guardare muto.
E sapevamo la pazienza / di chi non si può fermare / e la santa carità / del santo regalare /
lo sapevamo anche noi / il colore dell’offesa / e un abitare magro e magro /
che non diventa casa / e la nebbia di fiato alle vetrine / e il tiepido del pane /
e l’onta del rifiuto / lo sapevamo anche noi / questo guardare muto.
Sì, perché al pari di un qualsiasi disperato che lascia la propria terra per raccogliere le briciole cadute dalla ricca tavola imbandita di un Occidente indecente per inutili consumi ed eccesso di sprechi, anche gli italiani emigravano per sfuggire alla povertà, alla disoccupazione, al bisogno, e questo senza andare troppo lontano nel tempo.
“La commissione parlamentare sulla miseria, del 1951, accertò spesso condizioni di vita contadina non dissimili da quelle descritte dal rapporto Jacini di settanta anni prima. Si pensi solo che quattro milioni di persone, cioè una su sei, non consumava mai, neppure una volta l’anno, carne zucchero e vino. Un bracciante polesano, pagato 11.000 lire al mese, doveva lavorare undici ore per comperare una dozzina di uova” (3).
Le società opulente usano dunque come cavallo di battaglia il tema della sicurezza dei cittadini, e lo fanno agitando lo spauracchio di un’incontrollabile invasione di barbari intenzionati a scacciarci dalle nostre case, portarci via le nostre donne (evidentemente viste non come soggetto ma come semplice appendice del maschio guerriero resistente) e il nostro lavoro, a far scomparire la nostra millenaria cultura (come se nel frattempo non ci avesse già pensato qualcun altro a sostituire materia grigia con tette culi e cotillons). Paradosso nel paradosso, i governi occidentali non rispondono al problema con interventi tesi all’estensione di una giustizia sociale che sia sempre più diffusa, che offra una possibilità reale di vita a qualsiasi cittadino, ma inaspriscono le pene e inventano di sana pianta reati, come quello di clandestinità, che vanno a cozzare contro qualsiasi regola giuridica esistente oltre che con il più semplice buon senso.
Sì, perché senza andare a scomodare giuristi e sociologi, credo sia lecito pensare che se un essere umano viene vessato, maltrattato, e gli vengono negati i più elementari diritti, egli tenderà naturalmente a incattivirsi, a perdere quel senso civico che non riconosce in chi lo maltratta e, alla prima occasione, a vendicarsi.
C’è una riga, una sola riga della lunga canzone Luna Persa del cantautore genovese Max Manfredi (4), che ha provocato in me un processo di identificazione e una rabbia dura, cattiva, come se mi trovassi io stesso nella situazione del protagonista. Quella riga recita la preoccupazione di un padre al cospetto di una figlia febbricitante: “No che non c’è acqua calda. Cristo, hai la fronte che scotta!”.
Ecco, mi piacerebbe che tutti, paladini dell’inflessibilità per primi, provassero a calarsi nei panni scomodi di un genitore impotente di fronte alla malattia di un figlio, che si vede negati, per meri motivi burocratici e amministrativi, diritti basilari come quelli alla cura e alla salute (e dunque alla vita, diritto questo che oggi sembra riconosciuto solo a feti ed embrioni). «Non hai i documenti in regola, tuo figlio non ha diritto di essere curato e, nel caso, salvato », come è accaduto nell’aprile del 2010 alla piccola Rachel, bimba nigeriana di 13 mesi, deceduta in seguito al rifiuto di ricovero, per un permesso di soggiorno scaduto, da parte dell’Ospedale di Cernusco sul Naviglio, nel cuore della civilissima Padania.
Beh!, di fronte a ingiustizie del genere penso che non possano bastare tutte le ronde padane, le squadre speciali di Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, NOCS, RIS, NAS e quant’altro a mettere in sicurezza un territorio e ad arginare la rabbia, la disperazione e la conseguente violenza destinata a germogliare da una gestione cieca e inadeguata del ‘problema’ immigrazione da parte dei nostri stolti governanti, la cui soluzione non può prescindere da un atteggiamento di accoglienza, solidarietà, giustizia sociale, riconoscimento di diritti.
Gian Antonio Stella, noto giornalista del Corriere della Sera e appassionato studioso del fenomeno dell’emigrazione italiana, nel recital L’orda (5), a canti della tradizione magistralmente interpretati da Gualtiero Bertelli e dalla sua Compagnia delle acque, alterna suoi interventi, impreziositi da splendidi filmati d’epoca, riguardo ai drammi, alla disperazione e alla violenza dell’abbandono delle proprie case, subiti nel tempo dai nostri connazionali in cerca di migliori condizioni di vita in terre lontane.
Nel corso dello spettacolo, Stella fa una proposta molto interessante, e cioè che le storie dei nostri emigranti diventino materia di studio nelle scuole, diffondendo tra gli studenti di ogni età il racconto e le testimonianze di chi ha vissuto la triste esperienza del distacco dalle persone, dalle cose e dai luoghi amati. Il giornalista auspica che la Storia insegnata smetta di essere il freddo elenco di nomi, date, battaglie e grandi condottieri che conosciamo, per diventare una materia viva che sia il resoconto di atti ed eventi che hanno cambiato, a volte tragicamente, l’esistenza di uomini senza nome, modificando, come lo spostamento di milioni di esseri umani da un luogo all’altro del globo ha fatto, l’economia, la geografia, i comportamenti e la vita dell’intera umanità.
Cosa sanno i nostri giovani (oggi in gran parte razzisti per ignoranza o per induzione mediatica) del naufragio del vapore Sirio del 1906, nel quale morirono 500 nostri connazionali? O del piroscafo Utopia (un nome un programma, per chi sognava una nuova vita dall’altra parte dell’oceano), inabissatosi nel 1891 al largo del porto di Gibilterra, 576 i morti, per lo più donne e bambini?
Forse i nostri ragazzi guarderebbero con occhi diversi gli affondamenti delle carrette del mare al largo delle nostre coste o i cosiddetti respingimenti, eufemistico termine per indicare una pura e semplice condanna a morte per i disperati occupanti del natante. E sicuramente con sguardo diverso gli studenti analizzerebbero i tragici fatti di Rosarno, la vergognosa ‘caccia al negro’, se venissero a sapere di fatti atrocemente simili, dove i cacciatori erano ‘gli altri’ e le vittime gli italiani.
Aigues Mortes, Francia, 1893: accusati di rubare il lavoro ai residenti, vengono trucidati numerosi italiani (9 secondo gli atti giudiziari, più di una cinquantina secondo i testimoni e la stampa). Senza dimenticare i linciaggi di New Orleans del 1891, il pogrom anti-italiano di Zurigo nel 1896, l’agguato di Goeschenen del 1875 in cui vennero ammazzati a fucilate 4 italiani e feriti altri 10, o il terrificante massacro di Calumet, Michigan, dove la vigilia di Natale del 1913, in pieno sciopero dei minatori, gli sgherri dei padroni delle miniere serrarono le porte di un edificio nel quale stavano festeggiando le famiglie dei lavoratori, lanciando un falso allarme d’incendio. Nella calca morirono 76 persone, quasi tutti bambini.
Per non parlare delle tragedie nelle fabbriche (camiceria Triangle Waist Company di New York, 1911, 146 operaie arse vive) o nelle miniere (Monongah, West Virginia, 1907, quasi 1.000 vittime tra uomini e bambini impiegati nelle viscere della terra; Marcinelle, Belgio, 1956, 262 vittime tra cui 136 italiani).
È bene che si sappia, fin dai banchi di scuola, che quegli uomini, ma forse sarebbe più corretto definirli semplicemente ‘braccia’, erano spesso considerati come mera merce di scambio tra governi, come molto freddamente (e chiaramente) illustra la nota verbale 42/8447/8 dell’accordo firmato a Roma il 15 marzo 1946 tra il nostro ministro degli Affari Esteri e il rappresentante belga: “Per ogni scaglione di 1.000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2.500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000; tonn. 3.500 mensili, se la produzione sarà compresa tra 1.750.000 e 2.000.000 tonn.; 5.000 mensili, se la produzione sarà superiore a 2.000.000 tonn.” (6).
Ma tornando al clima di intolleranza nei confronti dei nostri connazionali, negli Stati Uniti c’era qualcosa di peggio che essere italiani, e cioè essere italiani e al contempo socialisti, o addirittura anarchici. Il connubio di questi elementi era una sorta di paranoica fissazione per le autorità e scatenava una furia brutale nelle forze dell’ordine che vedevano in ciò una seria minaccia per la realizzazione della mitica e mitizzata way of life americana. In questa fase storica si consuma la tragedia di un operaio pugliese e di un pescivendolo piemontese, entrambi anarchici, accusati di rapina e omicidio sulla base di testimonianze vaghe e contraddittorie, quando non addirittura improbabili, comunque influenzate dalla Corte nell’ambito di quel contesto di odio feroce nei confronti degli immigrati italiani in generale e dei ‘sovversivi’ in particolare.
I loro nomi: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Significativa e a tratti commovente l’arringa finale di Vanzetti, con la quale l’anarchico italiano inchioda alle proprie responsabilità l’intero sistema giudiziario americano, individuando con estrema lucidità le radici profonde all’origine del dramma che ha colpito lui e il suo compagno. Memorabile poi, l’interpretazione di Gian Maria Volonté nel film del 1971 (7) che ripercorre le vicende di Nick & Bart, come ormai in tutto il mondo vengono chiamati Sacco e Vanzetti, diventati ben presto simbolo della lotta contro l’ingiustizia sociale ed emblema del riscatto di quel proletariato che a ogni latitudine reclama la loro liberazione.
«Ho da dire che sono innocente» dice Gian Maria Volonté nei panni di Vanzetti, nella riduzione cinematografica della famosa arringa difensiva dell’anarchico piemontese. «In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato, non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto. Primo fra tutti: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. E se c’è una ragione per la quale sono qui è questa, e nessun’altra. Una frase, una frase signor Katzmann, mi torna sempre alla mente: “Lei signor Vanzetti, è venuto qui nel paese di Bengodi per arricchire”. Una frase che mi dà allegria. Io non ho mai pensato di arricchire. Non è questa la ragione per cui sto soffrendo e pagando. Sto soffrendo e pagando per colpe che effettivamente ho commesso. Sto soffrendo e pagando perché sono anarchico. E me sun anarchic! Perché sono italiano… e io sono italiano. Ma sono così convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto. Nicola Sacco… il mio compagno Nicola! Sì, può darsi che a parlare io vada meglio di lui. Ma quante volte, quante volte, guardandolo, pensando a lui, a quest’uomo che voi giudicate ladro e assassino, e che ammazzerete… Quando le sue ossa signor Thayer non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome, il nome di Nicola Sacco, sarà ancora vivo nel cuore della gente. (Rivolgendosi a Sacco) Noi dobbiamo ringraziarli. Senza di loro noi saremmo morti come due poveri sfruttati. (Tornando a rivolgersi alla giuria) Un buon calzolaio, un bravo pescivendolo, e mai in tutta la nostra vita avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini. Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati!»
E quando Vanzetti dice “sto soffrendo e pagando per colpe che effettivamente ho commesso, per essere anarchico e italiano”, lo fa a ragion veduta. Non a caso il giudice Webster Thayer seraficamente appunta tra le motivazioni della condanna: “Quest’uomo, benché possa anche non aver commesso il delitto di cui è accusato, tuttavia è moralmente colpevole, poiché è un nemico delle nostre istituzioni” (8).
In un’intervista il regista del film, Giuliano Montaldo, racconta che la scena dell’autodifesa conclusiva dovette essere girata svariate volte in quanto in più di un’occasione, un figurante che interpretava il ruolo di un poliziotto alle spalle dell’imputato, fu sorpreso a piangere (cosa ovviamente inverosimile e fuori luogo nel contesto) tanto era il pathos che Gian Maria Volonté riusciva a creare.
Comunque, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti al termine di un calvario nelle prigioni americane durato sette anni, vennero giustiziati “mediante sedia elettrica“ il 23 agosto 1927 nel carcere di Charlestown, nei pressi di Dedham.
Magra consolazione la tardiva riabilitazione dei due, proclamata nel 1977 dal senatore democratico del Massachusetts, Michael Dukakis, anch’egli figlio di emigranti greci, che qualche anno dopo, nel 1988, sarà in corsa nientemeno che per la presidenza degli Stati Uniti per poi finire, dopo la sconfitta elettorale a opera di George Bush Senior, nel più completo dimenticatoio.
Ma ci sono altri modi di guardare al dramma della partenza, del distacco, del ‘salto nel buio’ che l’emigrazione implica. È possibile scrivere un romanzo senza vergare una sola parola, una
sola lettera?, mi sono chiesto facendo scorrere le pagine de L’Approdo, la meravigliosa opera grafica di Shaun Tan (9), artista australiano di origini malesi.
La risposta è stata un convinto enetto: sì! Perché la sequenza di illustrazioni che compongono lo straordinario mosaico, raccontano come e meglio di centomila parole le emozioni, le paure, gli attimi di scoramento e quelli di speranza, le resurrezioni e i baratri con i quali inevitabilmente deve fare i conti chi è costretto al nomadismo forzato, alla continua fuga. L’autore ha lavorato per quattro lunghi anni a quest’opera, concependo la narrazione secondo il flusso di un’infinità di stupende illustrazioni che compongono una sorta di album fotografico della sofferenza e della nostalgia. Più che al cospetto delle pagine di un libro, sembra di assistere a un film nel quale ogni singolo fotogramma, rigorosamente disegnato in simil virato seppia, racconta con precisione e umano coinvolgimento gli innumerevoli meccanismi che scattano in un individuo costretto a lasciare il certo della propria esistenza, fatta di affetti e abitudini consolidate, per l’ignoto di un futuro tutto da scoprire, e che per esperienza atavica sa essere un sentiero costellato da mille ostacoli.
Ma indipendentemente dalla tematica trattata e dalla notevole capacità narrativa dell’autore, L’Approdo è anche un piccolo miracolo editoriale, di quelli che si verificano molto sporadicamente, perché ogni singola illustrazione, dalla più piccola, delle dimensioni di un francobollo, a quella grande quanto due intere pagine, è una vera e propria opera d’arte; un libro del genere dovrebbe avere una diffusione di gran lunga maggiore, in funzione propedeutica, soprattutto in un Paese come il nostro, caratterizzato da una memoria sempre più corta e da una spropositata e ingiustificata alta considerazione di sé. Sono convinto che non esista un popolo migliore di un altro – è una banale generalizzazione, questa – nonostante alcuni pretendano di essere stati predestinati a una superiorità derivante nientemeno che da un mandato divino; noi italiani, però, dopo aver perso da tempo il diritto di fregiarci dell’appellativo di “popolo di santi, poeti e navigatori“, in seguito ai fatti di Rosarno, ai numerosi episodi che farebbero morire di vergogna anche il più acceso adepto del Ku Klux Klan (vedi l’operazione White Christmas del comune bresciano di Coccaglio) e alle leggi razziste promulgate in nome di ‘irrinunciabili’ radici cristiane difese a spada tratta dai pagani adoratori del dio Po, non possiamo più pretendere di essere ancora identificati con quella sedicente locuzione, spacciata in giro per il mondo come carattere di un’intera nazione, che ipocritamente recita: Italiani, brava gente.
(1)http://www.ellisisland.org
(2)Il bellissimo disco di Gianmaria Testa, Da questa parte del mare, pubblicato nel 2006, contiene undici brani, tutti aventi come denominatore comune il bisogno di vita di chi parte verso l’ignoto e la dignità negata al migrante, con brani altamente poetici e commoventi come Seminatori di grano, Rrock, Tela di ragno e Ritals
(3)Sogni e fagotti. Immagini, parole e canti degli emigranti italiani, Maria Rosaria Ostuni e Gian Antonio Stella, Rizzoli, 2005; la relazione finale dell’inchiesta parlamentare sulle condizioni della classe agricola in Italia (1880), guidata da Stefano Jacini, rilevava che “nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell’Italia meridionale, e perfino in alcune provincie fra le meglio coltivate dell’alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame”
(4)Il brano dà anche il titolo al CD di Max Manfredi, Ala Bianca edizioni, 2008
(5)Il viaggio più lungo. L’odissea dei migranti italiani, Gian Antonio Stella, Rizzoli, 2010; dizionario dell’emigrazione italiana con allegato il DVD dello spettacolo teatrale L’orda
(6)Cit. Sogni e fagotti
(7)Sacco e Vanzetti (film Italia, 1971), regia di Giuliano Montaldo, interpreti: Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciolla, Rosanna Fratello, Sergio Fantoni
(8)Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Louis Adamic, Bepress, 2010
(9) L’Approdo (titolo originale The Arrival) Shaun Tan, Elliot, 2008