La legge federale e quella del Texas che a maggio ha di fatto reso impossibile l’interruzione di gravidanza
Il 18 maggio scorso il governatore Repubblicano dello Stato del Texas, Greg Abbott, ha firmato una misura che proibisce di abortire dopo la sesta settimana di gravidanza, e che si applica anche in caso di stupro o incesto. La legge, nota come Heartbeat Act, è entrata in vigore il primo settembre e impone di portare a termine ogni gravidanza che abbia raggiunto lo stadio in cui, attraverso un’ecografia transvaginale, sia possibile avvertire il battito del cuore (heartbeat) del feto, il che avviene appunto intorno alle sei settimane. L’unica eccezione ammessa è il caso in cui la gestazione metta in pericolo la vita della madre (1). Se si tiene conto che per accorgersi di essere incinta servono almeno quattro settimane (necessarie per completare un ciclo mestruale), che per prenotare un’ecografia negli USA serve una settimana come minimo e altrettanto per fissare l’intervento di interruzione di gravidanza, si capisce come questa legge possa di fatto impedire alle donne del Texas il diritto di aborto, diritto che gli Stati Uniti riconoscono a livello federale dal 1973.
La nuova norma, e in ciò è unica nel suo genere, dispone inoltre che siano i privati cittadini (e non il sistema penale) a far rispettare il divieto, stabilendo che ogni cittadino texano può intentare una causa civile a chiunque “esegua o faciliti un aborto illegale”, ottenendo, in caso di vittoria, almeno 10.000 dollari per “danni” (statutory damages) e il rimborso delle spese legali.
La promulgazione della nuova legge ha causato l’indignazione del presidente Biden (peraltro cattolico) e di altri importanti esponenti democratici, e ha rapidamente coinvolto tutti e tre i rami del governo in una battaglia costituzionale che in molti pensavano si fosse risolta quasi cinquant’anni fa. Biden ha denunciato gli “impatti devastanti” della legge, mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi si è scagliata contro quello che ha definito un “sistema di vigilanti che riscuotono taglie”. Tuttavia la Corte Suprema degli Stati Uniti (a maggioranza Repubblicana dalla morte di Ruth Baden Ginsburg, avvenuta alla fine della presidenza Trump), a cui una coalizione di gruppi pro-aborto guidata dal Center for Reproductive Rights aveva chiesto di bloccare lo Heartbeat Act in via emergenziale, si è pronunciata a favore del Texas (2). Nelle sue motivazioni la Corte ha sostenuto che il problema in discussione non fosse quello della costituzionalità della legge, ma se esistessero le condizioni di emergenza per sospenderne l’attuazione, e secondo la Corte queste condizioni non esistevano: “Sebbene la Corte rigetti oggi la richiesta di sospensione, essa sottolinea che ciò non può essere interpretato come un’opinione a favore della costituzionalità della legge in esame. Ma, anche se la Corte non affronta (oggi) il problema della costituzionalità di questa legge, essa si riserva il diritto di farlo senza indugi qualora la questione le venga (in futuro) presentata adeguatamente”. Un’affermazione un po’ pilatesca che può suonare sia da invito che da avvertimento.
Dunque oggi in Texas una donna ha circa due settimane per accorgersi di essere incinta, confermare la gravidanza con un test, prendere una decisione su cosa fare del suo futuro ed eventualmente fissare l’intervento di interruzione di gravidanza. Secondo la dottoressa Jennifer Villavicencio dell’American College of Obstetricians and Gynecologists (l’associazione di categoria dei professionisti in ginecologia e ostetricia), “molte donne possono non prestare attenzione alla data dei loro periodi mestruali o possono avere cicli irregolari. È estremamente possibile e molto frequente che si raggiunga la sesta settimana di gestazione senza sapere di essere incinta”. Inoltre, aggiunge la dottoressa, il battito delle prime settimane non è un vero e proprio battito cardiaco: “È un’attività elettrica del cuore, ma le valvole cardiache non si sono ancora formate”. Le valvole cardiache sono quattro e si aprono e chiudono a ogni battito in maniera coordinata, facendo in modo che il flusso di sangue si muova in una sola direzione attraverso il cuore, prevenendone il reflusso. Senza le valvole, in altri termini, il cuore non è in grado di esercitare la sua funzione: pompare il sangue. Di conseguenza l’espressione “battito cardiaco fetale” in questo caso non è accurata scientificamente, poiché il termine ‘feto’ non è usato nella letteratura medica fino alla fine della decima settimana di gravidanza, e prima di allora il termine standard è ‘embrione’. Infine, la presenza del battito rilevato dall’ecografia a quattro settimane non garantisce in alcun modo che il feto sia in buona salute e tanto meno che sia in grado di svilupparsi (3).
Secondo le strutture sanitarie che praticano l’aborto in Texas, l’85% delle pazienti sono incinte da più di sei settimane e si vedrebbero negare oggi il diritto a interrompere la gravidanza. Fra queste, la nuova legge creerà ostacoli insormontabili per le fasce più vulnerabili: le adolescenti, che spesso non si rendono conto di essere incinte fino a gravidanza inoltrata e che hanno comunque bisogno del permesso di un genitore o di un tutore per accedere alle procedure abortive (ogni anno in Texas rimangono incinte circa 35.000 donne di età inferiore ai vent’anni) (4); le persone a basso reddito, che non possono permettersi il costo della procedura; le donne di colore, che rappresentano circa il 70% di tutte coloro che fanno ricorso all’aborto in Texas (dati del 2019); e le immigrate senza documenti, che non possono muoversi liberamente sul territorio.
Tuttavia ciò che rende davvero mostruosa la legge texana è il sistema di implementazione, basato sulle denunce dei privati, in una sorta di caccia alle streghe abortiste e ai loro aiutanti malvagi, col risultato che chiunque sia coinvolto nell’interruzione di gravidanza, anche chi accompagna la donna in ospedale o le organizzazioni no profit che forniscono alle non abbienti il denaro per pagare la procedura, possono essere citati in giudizio per denaro.
L’aborto nella storia e nel mondo
Nel corso dei secoli il diritto difficilmente ha garantito alle donne l’assoluta libertà di disporre del proprio corpo per quanto concerne la gravidanza. Come è comprensibile, il fatto che portare a termine la gestazione sia il fattore indispensabile per la prosecuzione della specie (o della discendenza) ha spinto le istituzioni a limitare in qualche modo il ricorso all’aborto fin dagli albori degli ordinamenti giudiziari. In generale, abbracciando il panorama complessivo dell’evoluzione storica, si può sinteticamente affermare che in tutti gli ordinamenti l’aborto provocato contro la volontà della donna o della sua famiglia è sempre stato colpito a vario titolo con qualche tipo di sanzione (molto diverse per natura e per intensità); al contrario, la punibilità dell’aborto volontario ha seguito una sorta di parabola, a grandi linee, in cui il punto di partenza e quello d’arrivo presentano alcune marcate analogie.
Presso i popoli primitivi, nonostante il culto abbastanza diffuso della fertilità femminile, la pratica dell’aborto (e anche dell’infanticidio), sia come mezzo per limitare l’eccessiva espansione delle famiglie, sia per altre finalità, è ben conosciuta e non sembra che comportasse interventi repressivi della comunità (5). Nell’antichità classica il diritto greco non considera un reato l’aborto volontario (e nemmeno l’abbandono del nato), ma la decisione sul controllo delle nascite passa in mani maschili: l’interruzione di gravidanza deve essere consentita dal capo della famiglia, come pure nel diritto romano (almeno fino ai cambiamenti introdotti dal cristianesimo) in cui l’aborto non viene considerato reato, a patto che venga approvato dal pater familias cui spetta lo ius vitae ac necis sui figli e, fino a buona parte dell’epoca imperiale, il diritto di “esporre” i bambini nati da poco. Il quadro muta radicalmente con il diffondersi delle grandi religioni monoteiste.
In Occidente, secondo le leggi dell’Europa cristiana medievale e moderna, l’aborto volontario costituisce reato, punibile addirittura con la morte qualora il feto sia “animato”, poiché i movimenti all’interno del grembo materno sono considerati la prova non solo della vitalità del feto, ma anche del fatto che esso sia stato dotato dell’anima (6), e con pene minori qualora non lo sia ancora (la common law inglese ritiene invece punibile, e in modo lieve, solo l’aborto di feto animato). Nell’età delle riforme (secoli XVIII e XIX) le legislazioni di tutti i Paesi cristiani mantengono fermo il carattere criminoso dell’aborto volontario senza più fare distinzioni tra le fasi della gravidanza in cui l’aborto interviene (esso è sempre punibile allo stesso modo), ma mitigando il regime sanzionatorio (in genere da 1 a 5 anni di reclusione); fanno eccezione gli Stati Uniti, in cui non viene punita la donna ma quanti l’abbiano aiutata ad abortire. Ovunque l’unica causa legalmente riconosciuta per interrompere una gravidanza è la stretta necessità di salvare la vita della madre (7).
Agli inizi del Novecento l’espandersi del colonialismo con il conseguente dominio occidentale sul globo ha fatto in modo che il trattamento giuridico dell’aborto volontario venisse esportato praticamente in tutti gli ordinamenti (anche in Paesi culturalmente diversissimi come la Cina e il Giappone). Questa generale uniformità di indirizzi si mantiene sostanzialmente stabile per quasi tutto il Novecento, ma le politiche rigorosamente repressive nei confronti dell’aborto vengono accompagnate dal progressivo abbandono delle sanzioni penali, il che per alcuni aspetti riporta il diritto contemporaneo su posizioni che erano state caratteristiche dell’antichità classica. Si è constatato innanzitutto che il divieto penale sospinge inesorabilmente nella clandestinità la procedura di interruzione di gravidanza. Tale condizione di clandestinità comporta pericoli gravi per la salute e per la vita delle gestanti, specie di quelle delle classi povere. Del resto nemmeno nei periodi in cui la punizione era severa, e persino tremenda, il diritto è riuscito a fermare il flusso sempre imponente degli aborti volontari. Così si è ritenuto che forse sarebbe riuscito ad arginarlo l’opera di consultori e di servizi pubblici intesi a persuadere la donna a partorire e ad aiutarla nel mantenimento e l’educazione dei figli. Questa coscienza ha finito col richiedere dunque (obtorto collo) una liberalizzazione, più o meno larga, della legge sull’aborto.
Oggi la maggior parte degli ordinamenti dei Paesi sviluppati considera che la donna possa liberamente scegliere di interrompere la gravidanza nel primo trimestre (con alcune restrizioni nei periodi successivi), oppure, come avviene in Europa, stabilisce che l’aborto possa essere praticato qualora ricorrano talune “indicazioni” o circostanze giustificanti: l’indicazione terapeutica (quando si tratta di tutelare non solo la vita, ma anche, eventualmente, la semplice salute fisica o psichica della donna); l’indicazione eugenica (in caso di malformazione del feto); l’indicazione etica (nei casi di stupro e incesto); e l’indicazione sociale (quando per la donna sarebbe troppo gravoso, per le condizioni economiche o ambientali in cui vive, portare a termine la gravidanza).
Non sfugge che la logica delle “indicazioni” limita decisamente, almeno in teoria, la libertà della donna di abortire: quante sono le donne che hanno davvero una ragione fra quelle contemplate per interrompere la gravidanza rispetto a quelle che, semplicemente, non vogliono diventare madri? E cosa dovrebbe accadere a quante sono rimaste incinte per errore o per leggerezza? Si dovrebbe costringerle a portare avanti la gravidanza? In questi casi il diritto di aborto viene garantito attraverso un’interpretazione “elastica” delle indicazioni (specialmente quella terapeutica – in relazione alla tutela della salute psichica – e quella sociale), da parte di coloro che sono chiamati ad accertare l’esistenza delle circostanze giustificanti. La maggior parte delle donne nei Paesi occidentali che non è disposta a portare a termine la gestazione si trova dunque a dover dipendere dalla disponibilità di qualcuno (medici, assistenti sociali) per disporre liberamente del proprio corpo. Ma ciò non avviene negli Stati Uniti, in cui il famoso diritto di scelta è garantito davvero. O almeno lo era fino a oggi.
L’aborto negli USA
L’aborto volontario rappresenta un nodo in cui si intrecciano filosofia, morale, politica e diritto. Dal punto di vista morale, il problema centrale è come considerare la natura del concepito. Quando un feto diventa una persona? Alla nascita? Quando è in grado di sopravvivere (grazie alla tecnologia medica) fuori dal corpo della madre? O, come crede il legislatore texano, quando esiste il “battito fetale”? Dal momento in cui il feto viene considerato una persona, ovviamente esso merita il rispetto che si attribuisce agli esseri umani già nati, e dovrebbe beneficiare in particolare della tutela giuridica che definisce le situazioni eccezionali in cui è lecito sopprimere un altro essere umano. Nella tradizione occidentale questi casi sono pochissimi: lo stato di necessità, cioè quando il sacrificio sia strettamente indispensabile per salvare, nelle circostanze ineludibili della situazione, un’altra vita umana; la legittima difesa, ove vi sia un aggressore che minaccia ingiustamente la vita altrui o un altro bene di pari o simile rilievo; in caso di guerra, ove si tratta di respingere un’ingiusta aggressione a diritti o interessi collettivi di primaria importanza; e infine il caso (se e nella misura in cui lo si ammette) della pena di morte, ove si infligge quello che si ritiene il male supremo a chi si sia macchiato di delitti atroci. Se si considera pienamente persona anche il concepito non nato, è evidente che la sua volontaria soppressione potrà essere giustificata solo nel primo caso, cioè quando l’aborto sia assolutamente necessario per salvare la vita della madre.
Il problema muta, ma non scompare, risolvendo in modo diverso il nodo filosofico della natura del concepito e del momento in cui il feto acquisisce quella personalità (in senso giuridico) cui si ricollega il dovere di rispettarne la vita. Anche se volessimo aderire alle correnti principali della filosofia laica contemporanea che attribuiscono solo all’essere umano nato e vivente la caratteristica di persona, il problema etico dell’aborto non sarebbe risolto, perché il concepito è una concreta “potenzialità” di un futuro essere umano autocosciente, e rappresenta quindi, in una prospettiva morale, un bene il cui sacrificio non potrebbe ammettersi se non a vantaggio di valori superiori. Sotto questo aspetto, nelle diverse valutazioni morali che ammettono o non ammettono, a seconda delle circostanze, l’aborto, si riflettono, come in uno specchio, le diverse scale di valori di chi è chiamato a giudicare la sua liceità. Per esempio, chi ritiene che la vita di un bimbo affetto da sindrome di Down non sia degna di essere vissuta sarà a favore dell’aborto eugenetico; le famiglie a basso reddito potrebbero ritenere etico abortire, se una bocca da sfamare in più mettesse a rischio la sopravvivenza di tutti; oppure, a livello collettivo, una nazione potrebbe ritenere che l’interesse pubblico di contenere l’espansione demografica debba prevalere sul desiderio di maternità delle singole donne o, all’opposto, che la necessità di nuovi nati debba prevalere sulla loro volontà di abortire.
In questo scenario culturale si inserisce l’ideologia politica dello Stato liberaldemocratico contemporaneo, che attribuisce massima importanza alla libera determinazione della persona nelle sfere della cultura e della vita intima, e considera pertanto da respingere ogni intervento autoritario a favore dell’autodeterminazione individuale, salvo casi marginali in cui l’intervento sia necessario per assicurare la pacifica convivenza tra i cittadini o per salvare valori collettivi assolutamente supremi e urgentissimi.
Ed è proprio in queste considerazioni politiche la ratio più profonda di Roe v. Wade (8), la sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato la libertà costituzionale della donna di abortire nei primi due trimestri della gravidanza: una sentenza storica, che non ha preteso di risolvere il problema filosofico della natura del feto né di avanzare suggerimenti circa la moralità di qualsiasi tipo di aborto, ma che si è limitata a circoscrivere l’ambito di intervento dello Stato – è sulla base di questa distinzione tra diritto e moralità che un membro cattolico della Corte Suprema dell’epoca come il giudice William Joseph Brennan Jr., in dissenso con la dottrina della Chiesa, ha votato a favore della sentenza. La decisione riguarda il caso di Norma McCorvey – identificata nella causa con lo pseudonimo di Jane Roe – che nel 1969, a soli ventuno anni, rimase incinta del suo terzo figlio.
La donna voleva abortire, ma viveva in Texas, dove l’aborto era illegale. Gli amici le consigliarono di affermare di essere stata violentata da un gruppo di uomini di colore per ottenere un aborto legale, ma a causa della mancanza di prove lo schema non ebbe successo, e la stessa McCorvey in seguito ammise che si trattava di una montatura (9). La donna tentò allora di abortire clandestinamente, ma la clinica che le era stata indicata era stata chiusa dalle autorità. Il suo medico, Richard Lane, la indirizzò presso Henry McCluskey, un avvocato di Dallas specializzato in adozioni, ma Norma dichiarò di essere interessata soltanto a un aborto. Alla fine incontrò Sarah Weddington e Linda Coffee, due avvocati che cercavano donne incinte che volessero interrompere la gravidanza per fare causa allo Stato e modificare la legislazione sull’aborto. Queste intentarono per suo conto una causa presso la Corte federale degli Stati Uniti contro il procuratore distrettuale locale, Henry Wade, sostenendo che le leggi sull’aborto del Texas erano incostituzionali, e vinsero.
La sentenza, contro cui Wade ricorse in appello, approdò alla Corte Suprema degli Stati Uniti la quale, nel gennaio del 1973, con una decisione di 7 a 2, stabilì che scegliere di abortire riguarda la vita privata di una donna, e come tale questa decisione è protetta dal diritto alla privacy fissato dal Quattordicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. La Corte ha tuttavia chiarito che il diritto alla privacy non può essere assoluto, e che devono prendersi nella giusta considerazione sia il diritto alla salute della donna che gli interessi della vita prenatale.
Il problema è stato risolto regolando l’aborto in modo diverso sulla base dei trimestri di gravidanza: durante il primo trimestre, le donne sono del tutto libere di decidere di abortire, e i governi statali non possono porre nessuna limitazione alla volontà individuale; durante il secondo trimestre, i governi possono limitare il diritto di aborto sulla base di ragionevoli motivazioni sanitarie; mentre durante il terzo trimestre gli aborti possono essere proibiti del tutto, purché le leggi statali contengano eccezioni per preservare la vita o la salute della madre. La Corte Suprema classifica inoltre il diritto di scelta come “fondamentale”, il che comporta che i tribunali chiamati a pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi sull’aborto eventualmente contestate debbano applicare lo standard dello “strict scrutiny” nelle loro valutazioni (10). La Corte stabilisce tuttavia che i medici e il personale paramedico, anche di ospedali pubblici, non possono essere obbligati per legge a effettuare aborti a meno che la gestante non sia in pericolo di vita (11).
La sentenza destò scandalo in gran parte della cittadinanza statunitense e di fatto spaccò l’elettorato in “abortisti” e “antiabortisti” (facenti riferimento a grandi linee al partito Democratico i primi, a quello Repubblicano i secondi), e generò un livello di conflittualità sull’argomento che si è prolungato, o addirittura inasprito (si pensi agli atti terroristici contro le cliniche che praticano aborti), fino ai giorni nostri. Nel 1992 la Corte Suprema ha rivisitato e modificato parzialmente le decisioni legali di Roe con la sentenza Planned Parenthood v. Casey, riaffermando che il diritto di una donna di scegliere di abortire è costituzionalmente protetto, ma abbandonando il quadro dei trimestri in favore di uno standard basato sulla vitalità del feto, e annullando il requisito dello strict scrutiny in caso di revisione giudiziaria. Se l’abbandono dei trimestri in favore della vitalità fetale tiene conto dei progressi medici e tecnologici in campo ginecologico (uno su tutti l’ecografia come controllo di routine), l’abbandono dello strict scrutiny apre effettivamente la porta a possibili scenari revisionisti della norma, ovviamente in senso limitativo.
L’attacco all’aborto
Il Texas non è il primo Stato americano ad aver approvato una Heartbeat Bill. Ha cominciato il Nord Dakota nel 2013, ma nel 2015 la legge è stata dichiarata incostituzionale secondo il precedente stabilito da Roe v. Wade. Nel 2018 undici Stati hanno proposto disegni di legge sul battito cardiaco, approvati nel corso del 2019, fra cui Ohio, Georgia, Louisiana, Missouri, Alabama, Kentucky, South Carolina e Texas (la cosiddetta Bible Belt), mentre Utah e Arkansas hanno votato per limitare l’ammissibilità della procedura di interruzione alla metà del secondo trimestre. A eccezione di quella del Texas, a oggi tutte queste leggi sono bloccate da cause legali.
Secondo il Guttmacher Institute (un’organizzazione di ricerca pro-choice fondata nel 1968 il cui scopo è lo studio, l’educazione e la promozione della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi) “i politici statali stanno testando i limiti di ciò che la nuova maggioranza della Corte Suprema degli Stati Uniti potrebbe permettere e stanno gettando le basi per il giorno in cui le protezioni costituzionali federali per l’aborto saranno indebolite o eliminate completamente” (12). Tra l’altro la formulazione della norma texana, stabilendo che siano i privati cittadini e non il governo a far rispettare la legge, pare avere un punto di forza aggiuntivo: come scrive il Texas Tribune, “i sostenitori del disegno di legge sperano che questa nuova clausola impedisca le cause legali contro la norma, poiché senza funzionari statali che facciano rispettare il divieto, non ci sarà nessuno che i gruppi per i diritti delle donne possano portare in tribunale” (13).
1) Cfr. https://capitol.texas.gov/tlodocs/87R/billtext/pdf/HB01515I.PDF
2) Cfr. https://www.supremecourt.gov/opinions/20pdf/21a24_8759.pdf
4) Cfr. https://worldpopulationreview.com/state-rankings/teen-pregnancy-rates-by-state
5) D.Visca, Il sesso infecondo. Contraccezione, aborto, infanticidio nelle società tradizionali, Roma 1977
6) Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, Q. 118, artt. 1-3
7) J.Van der Tak, Abortion, fertility and changing legislation, Lexington, 1974
8) Cfr. https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/410/113
9) Cfr. McCorvey, Won by Love, Thomas Nelson Publishers, 1997
10) Negli Stati Uniti lo strict scrutiny è lo standard di revisione giudiziaria più rigoroso. Per soddisfarlo, il legislatore deve dimostrare di aver approvato la legge che viene contestata per promuovere un “interesse governativo impellente” e che la legge sia stata disegnata proprio per raggiungere quell’interesse, cfr. https://www.law.cornell.edu/wex/strict_scrutiny#:~:text=To%20pass%20strict%20scrutiny%2C%20the,the%20constitutionality%20of%20governmental%20discrimination
11) Questo diritto del medico all’obiezione di coscienza è presente in tutte le leggi liberalizzatrici in vigore negli ordinamenti dei Paesi occidentali
13) Cfr. https://www.texastribune.org/2021/05/18/texas-heartbeat-bill-abortions-law/