Le Putte de Choro di Juditha Triumphans
L’immaginario album che recensisco in questo numero si potrebbe intitolare “Sta andando tutto a…”. Completi quindi il lettore con un vocabolo di sua invenzione o con uno adatto alla bisogna il risultato delle recenti elezioni politiche. Io, oggi inveisco a pieni polmoni contro una classe politica fatta di gente abietta e in particolare contro una signora che, a mio avviso, incarna il peggio di questa classe.
Adesso la sparo grossa e paradossale. L’unica speranza, prima che venga eletta Presidente del Consiglio, è che contro di lei giochi il maschilismo fortissimo ancora presente nell’intera nazione e che il suo sogno si infranga contro il pregiudizio che vuole le donne sante e puttane assieme – fatta eccezione ovviamente per mia madre e mia sorella. Se gli italiani trattano Gioggia madre cristiana come gli statunitensi hanno trattato Hillary Clinton e come i francesi Marine Le Pen allora siamo a posto, possiamo ancora salvarci in corner. Contra sta il fatto che non c’è nessun uomo dall’altra parte capace di polarizzare l’elettorato per un motivo non politico e inconfessabile, ma vero: cioè l’essere Gioggia, madre, cristiana, una donna. So che quanto dico farà sicuramente incazzare tutte le donne mie lettrici, ma a mia difesa posso ben dire che ho detto una verità, per quanto paradossale e inconfessabile sia.
Dopodiché faccio notare a tutti i miei lettori come ci sia nella storia un confine contemporaneamente sottilissimo e alto/spesso come il muro tra Usa e Mexico tra il vocabolo ‘puttana’ e il vocabolo ‘putta’. Se è vero come penso che l’etimo comune è il latino putĭdus che vale puzzolente e se è altrettanto vero che nomina sunt consequentia rerum cioè i nomi sono conseguenti alle cose, la meretrice – di qualunque ordine e grado – così come la fanciulla non maritata sono accomunate dal pregiudizio maschilista che le vuole puzzolenti in primis in quanto donne. Con la differenza seguente – che risalta massimamente nella lingua della Serenissima Repubblica di Venezia dal ‘400 in poi –: le puttane sono divise nettamente tra donne libere che scelgono loro con chi stare, coltivando le belle arti sino a livelli sublimi come Veronica Franco e Barbara Strozzi, e vengono chiamate cortigiane oppure putte oneste (dove onesta vuol dire arrivata, di successo); e dall’altra parte le pute de lume, quelle che espongono un lumino alla finestra e dalla finestra si sporgono sul sottostante Ponte delle Tette, per l’appunto.
Quelle che venivano raccolte dai volontari delle congregazioni religiose venivano avviate agli Istituti detti Ospizi oppure Ospitali, nati per prestare assistenza ai pellegrini che andavano in Terra Santa e successivamente evolutisi in istituti specializzati per segmenti specifici di popolazione: l’Ospedale degli Incurabili, inizialmente specializzato in infermi, soprattutto sifilitici, usato in seguito per ricovero ed educazione orfani e orfane; l’Ospedale dei Derelitti ovvero l’Ospedaletto, in funzione dagli anni ‘30 del secolo XV, per infermi, poveri della Terraferma, orfani, vedove, ecc.; più tardo (primi del Seicento), l’Ospedale dei Mendicanti, il popolare San Lazaro dei Mendingoli, che come dice il nome stesso si trasforma da luogo per ammalati, soprattutto di rogna, in imponente istituzione per contenere la popolazione marginale di strada, soprattutto mendicanti in attesa di collocazione caritatevole presso artigiani, oppure come servitori o marinai; infine il Pio Ospedale della Pietà, allo stesso tempo convento, orfanotrofio e conservatorio musicale.
Le putte che vengono ospitate e istruite in questi Ospitali vengono anche selezionate in base alla bellezza. L’equazione è semplice: in una società dove il corpo femminile si vende tout court una fanciulla bella è più facilmente delle altre preda della tentazione demoniaca. Va quindi tenuta ed educata in un luogo a parte e diverso che in questo caso è il Convento delle Citelle (zitelle) alla Giudecca il cui regolamento del 1587 recita: “… in esso si ospitano Vergini da dodici anni sino a disdotto […] sane e belle ed in pericolo di essere precipitate con danno e perdita della salute loro eterna a far vita triste e scelerata o per malizia o sceleratezza dei padri e delle madri o d’altre persone o perché essendo poverissime ma di molta bellezza vengono sollecitate al male”.
Al di là quindi dei conventi femminili, dove vanno a finire le figlie non primogenite di gran parte delle famiglie patrizie, ragazze che non trovano marito o che non scappano a loro rischio e pericolo, esistono gli Ospitali dove alle fanciulle che manifestano da subito inclinazione alla musica viene impartita una severa e straordinaria educazione musicale: da quel momento assumono il nome collettivo di Putte de Choro. Straordinaria perché tra gli insegnanti troviamo i musicisti più famosi dell’epoca, prima di tutti il sublime Antonio Vivaldi, e poi Bertoni, Galuppi, Haase. Le ragazze che entrano a far parte del Conservatorio musicale degli Ospitali ‘conservano’ la loro virtù sessuale (non si sa mai che qualcuno le chieda in moglie) e affinano l’educazione sino a diventare delle virtuose incredibili, che strabiliano tutti i visitatori italiani ed europei (pensiamo a Rousseau) durante le loro esibizioni nelle chiese annesse a ogni Ospitale. Eseguono, per due buoni secoli, musica esclusivamente religiosa e soprattutto sotto la guida di un insegnante uomo.
Antonio Vivaldi stringe un legame del tutto particolare con le sue putte, talmente intenso che è lui stesso a comperare loro gli strumenti, spesso non facilmente reperibili, come il fagotto, sino alle corde e alla pece per gli archi, le chiavi metalliche per i fiati. I maligni dicono che la sperimentazione e le prove prolungate sono cosa facile, visto che le ragazze non vengono pagate se non in minima quantità e direttamente dall’Ospitale. Vero è invece che le putte avrebbero ben poca possibilità di fare cose diverse dal cucire, cucinare o ricamare, attività tipiche delle monache di clausura. La musica offre loro una finestra di possibile emancipazione. Se raggiungono posizioni di rilievo nel coro, o tra le soliste dei vari strumenti, hanno il privilegio di uno stipendio giornaliero più elevato, la possibilità di dare lezioni private a caro prezzo e il nome stampato sui libretti di presentazione dei loro concerti, il che le fa conoscere di persona.
Quest’ultima evenienza offre loro una possibilità di fuoriuscita dal convento che è ambitissima: possono cioè diventare le pupille di una famiglia patrizia e perciò avere il permesso d’uscita per recarsi ai ricevimenti estivi nelle ville e magari trovarsi un buon partito. Oltre a questo, godono in via privata dei regali che le potenti e ricche famiglie fanno loro, in termini di vestiario e gioielli. Ma ci sono anche parecchi casi documentati in cui la relazione con un singolo nobile che fino a quel momento ha fatto da ‘sponsor’ cambia di segno. E qui abbiamo la testimonianza disinteressata e quindi decisamente veritiera di Pierre-Ange Goudar, spia e baro professionista, equivalente francese di Casanova, di cui è amico e complice. Parlando delle putte ci dice: “Bisognava però che i nobili veneziani che erano loro governatori le guardassero più da vicino, poiché l’organista di questi conservatori che dirigeva l’orchestra, si trovò gravida, con grande scandalo di quelle che ancora non lo erano state”.
A parte gli aneddoti, rimane comunque vera la storia delle misconosciute protagoniste della scene musicale veneziana ed europea, cioè le Putte de Choro. Per loro, ed espressamente per loro, Antonio Vivaldi compone quello che a oggi è l’unico oratorio da lui scritto che ci è pervenuto. In occasione della riconquista veneziana di Candia nella settima guerra contro i turchi (1714-1718), sfruttando un soggetto biblico che vede Juditha (Venezia) debellare Oloferne (i turchi), nel 1716 Vivaldi scrive la Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie (RV 644). Tutte le undici parti, sia maschili che femminili, vengono interpretate dalle ragazze del Pio Ospedale della Pietà e molte arie comprendono parti solistiche affidate a strumenti inediti come il fagotto, il flauto dolce, l’oboe, il clarinetto, la viola d’amore, il mandolino.
A me è capitata la fortuna di trovare sulla mia strada questa splendida edizione del mio caro Jordi Savall, sublime solista di viola da gamba e direttore de La Capella Reial de Catalunya e Le Concert des Nations, una delle orchestre barocche più duttili e sensibili del mondo. Savall lavora sulla parte concertante esattamente come ebbe a fare Vivaldi mettendo in evidenza timbri diversi e inusitati (per esempio il salmoé, precursore del clarinetto), bilanciando alla perfezione i volumi tra voci soliste e gli strumenti e dando invece rilievo al canto quando sceglie di tirare indietro gli archi come le viole; orchestra alla perfezione i tempi dell’entrata in scena del coro e delle soliste. Savall non ha voluto fare il filologo a tutti i costi, inserendo anche degli uomini nel suo ensemble, come quel Manfredo Kraemer alla viola d’amore che viene fatta cantare in modo struggente in arie come Quanto magis generosa (supplica a Oloferne).
Le interpreti femminili sono tutte di altissimo livello e sorprendentemente anche le arie loro affidate brillano per omogeneità e bellezza in alto: Marianne Beate Kielland (Juditha), mezzo soprano naturale assai versatile, Marina di Liso (Oloferne) che ben bilancia al maschile la sua controparte senza mai sprecare una sola nota; Rachel Redmond, soprano (Vagaus, luogotenente) ha il compito di far brillare il secondo ruolo per importanza dell’Opera, che era destinato al primo soprano del Pio Ospedale della Pietà e ci riesce benissimo, qualunque sia la combinazione di strumenti che l’accompagna, come nel concitato e breve O servi volate dove ha dietro ben quattro tiorbe.
Il tutto viene, per la vostra e la mia felicità, ripreso dal vivo il 15 ottobre 2019 alla Cité de la Musique di Parigi. Savall e le sue si confermano ai vertici assoluti dell’interpretazione barocca, esaltando con voci e strumenti tutti i colori concepiti dalla fantasia incontenibile di Antonio Vivaldi per le sue Putte de Choro.