L’ethos a stelle strisce nel film Cocaine. La vera storia di White Boy Rick di Yann Demange
“C’era qualcosa, nella storia di un uomo che entra in un bar e fa fuori tutti, che mi interessava molto. Ora lo trovo un gesto commesso da una persona priva di immaginazione e impegno morale. Tuttavia penso, con la società che abbiamo, di poter capire chi commette un gesto simile: a loro modo, compiono una legittima ricerca spirituale, e quello diventa il loro modo per aggiungere un po’ di qualità, un po’ di significato alla loro vita. Sono i prodotti di un mondo condannato”. Così Nick Cave spiegava in un comunicato stampa del 1996 il significato di O’Malley’s Bar, una delle canzoni più riuscite del suo album Murder Ballads, interamente dedicato a omicidi di vario genere (1). Non esiste il ‘mostro’ – il Male incarnato da un singolo individuo in contrasto al Bene di cui sarebbe portatrice e custode una comunità di giusti. Semmai certi episodi, proprio in virtù della loro efferatezza, diventano lo specchio di tutte le contraddizioni alla base di una società essenzialmente violenta – di una violenza spesso latente, ma pronta a scatenarsi in qualsiasi momento, mostrando l’illusorietà delle narrazioni che indicano l’Occidente, Stati Uniti in primis, come il migliore dei mondi possibile. In questo senso, simili accadimenti andrebbero considerati soprattutto in rapporto alla loro carica rivelatrice.
Nick Cave è nato e cresciuto in un Paese, l’Australia, molto simile agli USA per storia e cultura – a prescindere dall’utilizzo originario della ‘terra dei canguri’ in qualità di colonia penale da parte degli inglesi. Entrambi di lingua anglofona, entrambi sorti sulle fondamenta intrise di sangue di un genocidio – degli aborigeni nel primo caso e degli indiani nel secondo. Probabilmente, scrivendo O’Malley’s Bar, il Re Inchiostro aveva bene in mente l’immenso numero di stragi avvenute negli Stati Uniti a opera di qualche folle armato di pistola, fucile o mitragliatore. La più recente è quella consumatasi a Highland Park in Illinois il 4 luglio 2022: sei vittime e trentasei feriti. Ma solo negli ultimi cinque anni si contano almeno ventisei episodi di questo tipo – a partire da quello di Las Vegas nel 2017 in cui l’autore, sparando da una finestra al trentaduesimo piano del Mandalay Bay Hotel, prima di togliersi la vita, uccise sessanta persone tra il pubblico di un concerto country che stava tenendosi sull’arteria più importante della città – un vero e proprio ‘canyon’ ricavato tra due file di edifici enormi e pacchiani, i quali svolgono allo stesso tempo la funzione di alberghi, casinò, ristoranti e strip club.
Perché parliamo di questo per introdurre l’analisi di un film come Cocaine – La vera storia di White Boy Rick (2018) di Yann Demange? La risposta appare in tutta la sua evidenza fin dalla primissima scena di tale lavoro, basato, come suggerisce già il sottotitolo, su fatti realmente accaduti. Sulle note di Cocaine Blues di Johnny Cash, una bambina porta un pacchetto di popcorn alla madre, la quale reca un fucile a tracolla sulla schiena. In breve, capiamo di trovarci a una fiera di armi, dove il quattordicenne Richard Wershe (Richie Merritt), accompagnato dal padre omonimo (Matthew McConaughey), sta contrattando con un uomo per l’acquisto di due kalashnikov…
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