I valori progressisti come strumento di branding delle imprese, il “radicalismo sociale” e il “radicalismo economico”
Il 7 luglio dello scorso anno un gruppo di giornalisti, scrittori e docenti universitari (e fra loro alcune delle più celebrate menti del dibattito civile americano, fra cui Noam Chomsky) ha pubblicato su Harper’s Magazine un documento condiviso dal titolo A letter on justice and open dibate (“Una lettera sulla giustizia e la libertà di dibattito”) (1) che ha fatto molto discutere. La lettera parla di una dinamica esplosa sulla scena pubblica americana solo in tempi recenti, ma i cui effetti – secondo i firmatari – rischiano di paralizzare l’esercizio del libero pensiero. Le istituzioni culturali statunitensi stanno in effetti affrontando un momento di dura prova.
Le proteste per la giustizia razziale di Black Lives Matter e in generale dei movimenti che chiedono una maggiore uguaglianza e inclusione sociale sono riuscite a ottenere grandi risultati (per esempio la riforma dei Corpi di polizia), ma hanno anche “intensificato una nuova serie di atteggiamenti morali e di impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme sulla libertà di espressione e di tolleranza delle differenze in favore del conformismo ideologico”. Il libero scambio di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, sta diventando ogni giorno più ristretto, sostituito, secondo i firmatari, dall’intolleranza verso i punti di vista opposti, il facile ricorso alla pubblica gogna e all’ostracismo, e la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in un’accecante certezza morale.
“I redattori vengono licenziati per aver pubblicato pezzi controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti viene impedito di scrivere su certi argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere di letteratura in classe; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico sottoposto a revisione paritaria; e i capi delle organizzazioni vengono estromessi per quelli che a volte sono solo errori maldestri. Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che può essere detto senza la minaccia di rappresaglie”.
La lettera si riferisce alla cosiddetta cancel culture, un termine che deriva dallo slang afroamericano e si è diffuso su Black Twitter (2) per significare la decisione personale, talvolta seria, talvolta scherzosa, di ritirare il supporto dato in precedenza a una persona o a una causa. Intorno al 2015, il movimento femminista #MeToo ha fatto sua questa forma di protesta e l’ha utilizzata nella sua battaglia contro i predatori sessuali, come Harvey Weinstein o Robert Kelly. Da allora, la cancel culture è vista, soprattutto in prospettiva liberal, come lo strumento ideale per dar voce alle minoranze (le donne, i singoli gruppi razziali, i movimenti lgbt, ecc.), che possono, attraverso l’enorme cassa di risonanza del web, denunciare abusi e chiedere a coloro che detengono ricchezza, potere e privilegi di assumersi finalmente le proprie responsabilità e rimediare alle ingiustizie. Come scriveva l’opinionista nera Danielle Butler nel 2018: “What people do when they invoke dog whistles like ‘cancel culture’ is illustrate their discomfort with the kinds of people who now have a voice and their audacity to direct it towards figures with more visibility and power” (3). Purtroppo, i social media sono passati molto velocemente dal chiedere responsabilità (accountability) a pretendere che i cattivi (reali o immaginari) vengano puniti per le loro colpe (anche d’opinione) immediatamente, in modo esemplare e senza contraddittorio.
Ligaya Mishan del New York Times (4) spiega che l’azione di denuncia iniziale è deflagrata in una vasta gamma di interventi on e off line (dalle minacce allo stalking, dall’ostilità all’intimidazione, per arrivare in qualche caso addirittura alle lesioni personali) portati avanti nei confronti di individui percepiti come “tossici” (cioè il cui pensiero o comportamento viene ritenuto pericoloso da una determinata comunità di individui), con l’obiettivo di convincere il presunto reo a fare ammenda e a “non peccare più”, oppure a essere permanentemente bannato dai circoli sociali. La cancel culture, in altre parole, si è trasformata in una moderna caccia alle streghe.
Il 28 maggio dello scorso anno, David Shor, un analista politico, ha avuto l’idea di pubblicare via Twitter una considerazione. Era passato poco tempo dalla morte di George Floyd, e accanto a pacifiche proteste di massa si erano verificati molti saccheggi e altri atti vandalici sia a Minneapolis che altrove. Shor, citando una ricerca del politologo di Princeton Omar Wasow, ha suggerito che la reazione dell’elettorato moderato a questi gesti violenti avrebbe potuto aiutare la rielezione di Trump (5). Ari Trujillo Wesler, la fondatrice di OpenField, una app di propaganda democratica, lo ha subito accusato in una serie di tweet di essere “anti-nero”. Il giorno seguente Shor si è scusato per il tweet (e perché mai?, ci chiediamo) e tuttavia poco dopo è stato licenziato. Shor ha firmato un accordo di non divulgazione che gli impedisce di parlare liberamente della vicenda, e Civis, la società per cui lavorava, non intende commentare, ma la consecutio temporum degli avvenimenti non lascia spazio a dubbi (6).
Emmanul Cafferty è un uomo alto, calmo e muscoloso, sulla quarantina, nato e cresciuto in una comunità operaia multirazziale a sud di San Diego, e lavorava come autista per la San Diego Gas & Electric Company. Alla fine di una giornata di lavoro del giugno 2020 stava guidando verso casa sul suo camioncino, con un braccio fuori dal finestrino, quando una macchina l’ha pericolosamente superato a un incrocio. Al semaforo successivo il guidatore lo ha aspettato e ha iniziato a insultarlo facendogli il gesto che significa “ok” e fotografandolo con lo smartphone, al che Cafferty, perplesso, gli ha ricambiato il gesto e se ne è andato sperando di togliersi dai guai (7).
Due ore dopo Cafferty è stato chiamato dal suo capo: gli è stato comunicato che qualcuno aveva postato su Twitter delle foto che lo ritraevano alla guida del furgone della società mentre faceva il gesto dell’“ok” alla telecamera, un gesto che, secondo il misterioso delatore, era “tipico dei suprematisti bianchi” (8), e dozzine di persone stavano chiamando la società per chiedere le sue dimissioni. Alla fine della telefonata il malcapitato si è ritrovato sospeso senza stipendio e il lunedì successivo è stato licenziato in tronco. Tuttavia sarebbe stato perlomeno strano che Cafferty simpatizzasse per la supremazia bianca: le sue origini sono al 75% latine (lo sono sia la madre che la nonna paterna), non si è mai interessato di politica (non è nemmeno iscritto al registro elettorale) e la San Diego Gas & Electric Company, a cui ha fatto causa, non è riuscita a presentare in tribunale alcun precedente razzista che lo riguardi. Eppure, il suo impiego non gli è stato ancora restituito.
Isabel Fall ha pubblicato nel 2020 sulla rivista Clarkesworld un racconto intitolato I Sexually Identify as an Attack Helicopter (“Mi identifico sessualmente in un elicottero d’attacco”), che parla della disforia di genere, cioè del malessere che si sperimenta quando non ci si riconosce nel proprio sesso biologico. Il racconto ha fatto infuriare molti lettori: la Fall è stata accusata di transfobia, è stata molestata, i suoi dati personali sono stati pubblicati online ed è stata bannata dai social media. Peccato che Isabel Fall fosse lo pseudonimo usato da una scrittrice trans per raccontare la sua lotta personale alla disforia di genere, e che la vicenda l’abbia obbligata a rivelare la sua vera identità e a fare outing per difendersi dalle accuse (9).
Niel Golightly, 62 anni, il capo delle comunicazioni della compagnia aerea Boeing, si è dimesso il 2 luglio del 2020 con una lettera di scuse per un articolo che aveva pubblicato nel 1987, quando era un giovane ufficiale di Marina. In quest’articolo, Golightly si schierava contro la presenza delle donne nell’esercito americano. Un dipendente molto zelante ha portato all’attenzione dei vertici della società il vecchio pezzo (peraltro scritto in un periodo in cui l’argomento era culturalmente molto controverso, anche da parte femminile), chiedendo la testa del dirigente. Dopo l’omicidio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis nel mese di maggio, l’amministratore delegato della Boeing, David Calhoun, aveva dichiarato che l’azienda non avrebbe tollerato “bigottismi di qualsiasi tipo” e che la società avrebbe “raddoppiato la determinazione per eliminare comportamenti che violano i nostri valori e feriscono i nostri colleghi”.
“L’articolo che ho scritto – e che conteneva opinioni che ho successivamente cambiato – è una lettura dolorosa. Dolorosa perché [queste opinioni] sono sbagliate. Dolorosa perché sono offensive per le donne” afferma Golightly nella lettera di dimissioni, pubblicata sul New York Times (10). Sempre Golightly ha dichiarato in un’intervista successiva che le opinioni che ha espresso quando era un giovane pilota non rappresentano in alcun modo ciò in cui crede oggi, e che le persone dovrebbero avere spazio per maturare e cambiare le loro idee man mano che le loro carriere progrediscono senza essere giudicati per ciò che pensavano decenni fa. Del resto, quante opinioni degli americani del 1987 reggerebbero a un esame secondo gli standard di oggi?
Gli esempi possibili di cancel culture sono tantissimi, e il boicottaggio non si ferma a persone che vivono nel presente, ma si estende a personaggi storici, libri, opere d’arte, in uno sforzo a tutto tondo di riscrivere la storia: le statue di George Washington e Thomas Jefferson vengono divelte o imbrattate perché i due Padri Fondatori possedevano schiavi, libri contro la discriminazione razziale come Huckleberry Finn di Tom Sawyer e How to Kill a Mockbird (Il buio oltre la siepe) di Harper Lee vengono tolti dalla lista dei libri di scuola perché contengono la “n word”(nigger), il film Via col vento (vincitore di nove premi Oscar) è stato rimosso dalla piattaforma HBO perché giudicato razzista, e così via, in un trionfo di mob justice sempre meno condivisibile.
Loretta Ross, 67 anni, è davvero una figura improbabile contro cui ingaggiare una guerra culturale. Professoressa allo Smith College (i suoi corsi sono Supremazia bianca nell’era di Trump e Giustizia riproduttiva), Ross è una femminista nera radicale che lavora per i diritti civili da quarant’anni ed è una dei firmatari della lettera di denuncia su Harper’s Magazine, per la quale lei stessa è stata called out. “C’è una tale ironia nell’essere chiamata fuori per aver chiamato fuori la cultura del call-out”, ha detto. “È stato davvero esilarante” (11). A suo parere, cancel culture significa che “le persone cercano di espellere chiunque non sia perfettamente d’accordo con loro, piuttosto che rimanere concentrate su coloro che traggono profitto dalla discriminazione e dall’ingiustizia”.
Mantenere il focus sulle piccole violazioni individuali del contratto sociale non aiuta gli invisibili, le minoranze, l’inclusione sociale. La teoria dei criminologi George L. Kelling e James Q. Wilson (che postulava come la repressione dei crimini minori avrebbe impedito quelli più grandi) (12) messa in pratica dalla polizia USA negli anni Ottanta non ha ridotto il tasso di criminalità, ma ha condotto alla piaga dello stop-and-frisk: la gente comune, innocente e il più delle volte di colore, viene costantemente trattata come sospetta, e di conseguenza viene fermata, perquisita e interrogata senza alcuna vera ragione. E non è nemmeno un fenomeno nuovo, a dire il vero. In una conversazione del 1972 con Michel Foucault, il filosofo francese Benny Lévy (che allora utilizzava il nom de guerre di Pierre Victor) sottolineava l’ingiustizia profonda fra il trattamento riservato, alla fine della seconda guerra mondiale, a “quelle giovani donne la cui testa fu rasata perché erano andate a letto con i tedeschi”, mentre un gran numero di coloro che avevano collaborato attivamente con i nazisti (industriali, politici, intellettuali) rimanevano impuniti: “Così al nemico fu permesso di sfruttare a suo favore questi atti di giustizia popolare: e non parliamo del vecchio nemico – le forze di occupazione naziste – […] ma del nuovo nemico, la borghesia francese” (13).
“Nonostante gli ingegneri libidici del capitale rivendichino l’egualitarismo dei social media… questi sono allo stato attuale un territorio nemico, dedicato alla riproduzione del capitale” ha scritto il critico culturale britannico Mark Fisher nel suo saggio del 2013 Exiting the Vampire’s Castle (14), che ha profetizzato la cancel culture attuale. Twitter non è l’equivalente digitale della pubblica piazza, per quanto venga propagandato come tale. Pensiamo che sia uno spazio aperto perché non paghiamo l’ingresso, dimenticando che è un’impresa commerciale, impegnata ad ammassarci al suo interno, in cui siamo clienti ma anche lavoratori a costo zero costantemente impegnati a rendere la piattaforma sempre più preziosa. E la prima legge del Castello dei Vampiri (CDV) è individualizzare e privatizzare tutto: “Mentre in teoria sostiene di essere a favore della critica strutturale, in pratica il CDV non si concentra mai su nulla se non sul comportamento individuale. […] L’attuale classe dirigente propaga ideologie di individualismo, mentre tende ad agire come una classe. Il Castello dei Vampiri fa l’opposto: a parole gli importa solo di ‘solidarietà’ e ‘collettività’, mentre agisce sempre come se le categorie individualiste imposte dal potere reggessero davvero”.
Secondo Fisher, una sinistra che non ha la classe al suo centro può essere solo un gruppo di pressione liberale, a maggior ragione oggi che i valori progressisti sono diventati un potente strumento di branding. L’editorialista del New York Times Ross Douthat, in riferimento a quelle aziende che usano il sostegno a cause considerate di sinistra come uno strumento di marketing, ha coniato il termine woke capitalism. Invece di riformare le proprie politiche e strategie, queste aziende gravitano verso segnali a basso costo e alta risonanza. Scrive Helen Lewis su The Atlantic (15): “Coloro che detengono il potere all’interno delle istituzioni amano gesti progressisti vistosi, come pubblicare sui social media post solenni e monocromatici che deplorano il razzismo; nominare la loro prima donna nel consiglio di amministrazione; licenziare impiegati di basso livello stigmatizzati dalle community online; perché ciò li aiuta a preservare il proprio potere. A quelli che stanno in cima, invece, sproporzionatamente bianchi, maschi, ricchi e altamente istruiti, non viene chiesto di rinunciare a nulla”. In altri termini, la cancel culture, dipinta come lo strumento a lungo atteso dalle minoranze per far finalmente sentire la propria voce, è in realtà una dimostrazione dell’indisponibilità delle istituzioni a tollerare qualsiasi controversia. Lewes lo definisce attivismo sintetico: fa sentire i membri dei social media pieni di entusiasmo, buoni sentimenti e impegno sociale quando in effetti costoro non cambiano una virgola del mondo reale.
Negli Stati Uniti, il diversity training (la formazione alla diversità) vale 8 miliardi di dollari all’anno, secondo Iris Bohnet, professore di Politica pubblica alla Kennedy School di Harvard. Eppure, dopo aver analizzato i programmi di ricerca condotti sia negli Stati Uniti che in Paesi in una situazione di post-conflitto come il Ruanda, ha concluso: “Purtroppo non ho trovato un solo studio che abbia rilevato che il diversity training porti effettivamente a una maggiore diversità”. Ma le aziende adorano questi strumenti, prodotti da un approccio concettuale che considera il pregiudizio come un difetto morale degli individui piuttosto che un prodotto dei sistemi, e che pertanto incoraggia il pentimento personale, piuttosto che la riforma istituzionale. Perché aumentare i salari a minoranze e donne, quando si può far seguire ai dipendenti un seminario?
Ciò che è vitale comprendere, secondo Lewis, è la differenza fra radicalismo economico e radicalismo sociale, che potrebbe essere descritta, con un linguaggio più simile a quello di Fisher, come la differenza tra identità e classe. In sintesi, tutto ciò che non altera la struttura di classe o la distribuzione del reddito è socialmente radicale, mentre tutto ciò che costa realmente potere o denaro alla classe dominante è economicamente radicale. La parità di salario è economicamente radicale, mentre assumere un amministratore delegato donna o appartenente a una minoranza è socialmente radicale. Cambiare il nome di un edificio in un’università è socialmente radicale, mentre aumentare del 5% la quota di ammissioni destinate ai neri ed eliminare il sistema delle “ammissioni ereditate” (16) sarebbe economicamente radicale. Il capitale ha sottomesso la working class organizzata distruggendo la coscienza di classe, soggiogando ferocemente i sindacati e convincendo i lavoratori a identificarsi con i loro interessi individuali invece che con gli interessi della classe cui appartengono. Per mantenere lo status quo cosa c’è di meglio di una ‘sinistra’ che sostituisce la politica di classe con un individualismo moraleggiante e che, lungi dal costruire solidarietà, diffonde paura e insicurezza?
La cancel culture, invece di aiutare le classi deboli a ottenere giustizia sociale e condizioni di vita più accettabili, mira a dividerci gli uni dagli altri, illudendoci di contare qualcosa quando in effetti abbiamo sempre meno potere. Jodi Dean, teorica politica e professore di Scienze Politiche allo Smith College di New York, ha isolato una nuova entità che ha definito capitalismo comunicativo (17). Il capitalismo comunicativo consiste nella fusione fra democrazia e capitalismo in un’unica formazione neoliberista, realizzata sul web, che sovverte gli impulsi democratici delle masse incoraggiando l’espressione emotiva rispetto al discorso logico. Secondo Dean, da un lato le nostre pratiche quotidiane di ricerca, collegamento e comunicazione online intensificano la nostra dipendenza dalle reti di informazione cruciali per il dominio finanziario e aziendale del neoliberalismo. Dall’altro, il capitalismo comunicativo cattura i nostri interventi politici, formattandoli come contributi di intrattenimento, in un processo che li svuota di ogni efficacia, ma fa sentire noi protagonisti e coinvolti. Divide et impera: il motto è sempre quello.
1)https://harpers.org/a-letter-on-justice-and-open-debate/
2) Black Twitter è una community del social network Twitter in gran parte costituita da utenti afroamericani, la cui attività è incentrata su questioni di interesse per la comunità nera
3) https://www.vox.com/22384308/cancel-culture-free-speech-accountability-debate
4) https://www.nytimes.com/2020/12/03/t-magazine/cancel-culture-history.html
5) https://www.vox.com/2020/7/29/21340308/david-shor-omar-wasow-speech
6) https://nymag.com/intelligencer/2020/07/david-shor-cancel-culture-2020-election-theory-polls.html
7) https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/06/stop-firing-innocent/613615/
8) Il simbolo “ok” rappresenta per la supremazia bianca le lettere WP, che sono le iniziali di White Power
10) https://www.nytimes.com/2020/07/08/business/boeing-resignation-niel-golightly.html
11) https://www.nytimes.com/2020/11/19/style/loretta-ross-smith-college-cancel-culture.html
12) https://www.theatlantic.com/magazine/archive/1982/03/broken-windows/304465/
13) https://www.nytimes.com/2020/12/03/t-magazine/cancel-culture-history.html
14) https://www.opendemocracy.net/en/opendemocracyuk/exiting-vampire-castle/
16) Il sistema delle “ammissioni ereditate” è il meccanismo per cui nelle famiglie più ricche l’ammissione a una data università è garantita di padre in figlio