Riccardo Macina
Vision, mission e valori, le nuove pratiche per aumentare lo sfruttamento del ‘capitale umano’
Ormai non c’è grande azienda che non dichiari pubblicamente di avere una vision (il suo posizionamento nel mercato) che la ispirerebbe a darsi una mission da perseguire, e di possedere – in quanto azienda – dei valori che sarebbero finalizzati al raggiungimento della propria mission. Un tempo queste iniziative di corporate-branding erano attività di marketing reputazionale adottate da poche imprese e dunque straordinarie, oggi sono considerate necessarie, un must.
Eppure, l’unica effettiva mission di un’azienda non è forse il profitto? Business is business, così ci hanno sempre detto. Mentre i valori appartengono alla sfera umana (individuale e collettiva), quindi si concretizzano nelle svariate attività dell’uomo, dall’ambito politico a quello sociale, ma quali valori può mai rivendicare il capitalismo?
È quindi doveroso chiedersi quali dinamiche di potere si esercitino fattivamente sotto questa narrativa di presunti valori. Partendo dalla consapevolezza che le imprese capitalistiche sono luoghi e processi di sfruttamento della forza lavoro, cercheremo di individuare proprio le dinamiche di sfruttamento sottese a queste pratiche, e di capire come esse possano accelerare a livello globale l’introiezione individuale del modello capitalistico.
Partiamo da esempi concreti. Tra le grandi società più note, alcuni valori aziendali richiamano esplicitamente la sfera del lavoro: “Rapidità, reattivi ai cambiamenti, coraggio, efficienza” (Coca Cola Italia); “Prendere decisioni brillanti in poco tempo” (Amazon Italia); “Gestire il cambiamento, guidare le persone, apprezzare, cercare e sfidare la competizione, performance best-in-class” (FCA Group); “Collaborazione: sfruttare il genio collettivo” (Coca Cola); “Veloce è meglio che lento, Grande non è abbastanza buono” (Google). Altri valori affondano invece nel senso etico delle persone e delle comunità: “Buona cittadinanza: siamo buoni cittadini nelle comunità in cui viviamo e lavoriamo” (American Express); “Impegno verso la comunità, rispetto per le persone” (Pfizer); “Dare alle persone il potere di costruire comunità e rendere il mondo più unito” (Facebook).
Come si è arrivati a tanta sfacciata prosopopea? Partiamo dagli inizi.
Coaching e PNL: come sono nati
Visione, Missione e Valori sono strumenti tipici del coaching e della PNL (Programmazione Neuro Linguistica). Entrambe le discipline sono nate negli anni ’70 nell’ambito di supporto e aiuto alla singola persona, e solo successivamente sono state applicate alla sfera aziendale.
Il coaching può essere definito un metodo di sviluppo individuale finalizzato a raggiungere i propri obiettivi e a migliorare le ‘performance’: partendo dall’osservazione dei comportamenti, si applica un programma di cambiamento che sviluppi appieno le potenzialità. La figura del coach nell’allenamento sportivo è la più nota e rappresentativa, anche perché Timothy Gallwey, considerato uno dei fondatori del coaching, era allenatore di tennis. Il suo libro “The Inner Game of Tennis” del 1974 racconta come i giocatori potessero migliorare le proprie performance lavorando anche sulla realtà interiore (quel “gioco interiore” che ognuno di noi vive dentro di sé) oltre che sulla realtà fisica, materiale (ovvero, allenandosi e perfezionando la tecnica).
La PNL può essere riduttivamente ma onestamente definita un approccio pratico che utilizza tecniche linguistiche per poter ri-programmare gli schemi neurologici degli individui, e quindi modificarne il comportamento. Una programmazione che può essere consapevole e volontaria quando applicata nell’ambito del coaching personale, ma divenire inconsapevole quando utilizzata a scopi manipolatori, in modo non dichiarato, da parte di chi è in condizione di sfruttare a proprio vantaggio l’asimmetria di conoscenza e/o di potere (che è la tipica condizione del rapporto azienda/lavoratori e istituzioni/cittadini).
Se la metafora con la programmazione dei computer (tanto in voga negli anni ’70) oggi si presenta un po’ naive, possiamo rifarci alle neuroscienze, che affermano che i processi cognitivi e decisionali/comportamentali si basano necessariamente su una serie di ‘distorsioni’ (consideriamole scorciatoie che rispondono allo scopo primario del cervello di risparmiare energia) dette “bias cognitivi”. I più noti sono il “bias di conferma” (tendiamo a dare più importanza a tutto ciò che conferma le nostre idee e tralasciare ciò che le nega), il “bias del breve termine” (tendiamo a dare più importanza all’uovo oggi rispetto alla gallina di domani), il “bias di Framing” (il contesto e il modo di esporre un contenuto influenza le decisioni e il significato che gli diamo più di quanto pensiamo) e l’ancor più noto “effetto placebo”. Di bias cognitivi ne sono stati individuati fino a 220, il che fa pensare che anche il modo con cui si analizzano i bias è soggetto ai bias.
L’unico aspetto veramente importante, in realtà, è che questi bias sono applicati da ciascuno di noi in modo inconsapevole e soprattutto sistematico. Entrambe queste caratteristiche rendono i nostri processi neurologici altamente manipolabili, senza che possiamo rendercene conto. La PNL direbbe, appunto, “programmabili”.
Gli approcci pratici della PNL, estranei alla rigorosità scientifica ma dalla quale attingono a piene mani, hanno generato negli anni numerosi strumenti e metodi tra i più vari, volti a guidare i processi mentali nella direzione voluta (obiettivi, risultati, stati mentali, comportamenti ecc.). Uno strumento in particolare è noto come “Livelli logici di Dilts”. Lo stesso Robert Dilts afferma: “Il cervello ha diversi livelli di elaborazione cui corrispondono diversi livelli di pensiero […]. Quando lavoriamo […] per cambiare comportamenti, abbiamo bisogno di prendere in considerazione ciascuno di questi livelli” (1). I livelli possono essere così definiti:
- Ambiente (dove, quando): è il contesto in cui elaboriamo comportamenti, strategie, scelte e ne influenza la qualità;
- Comportamenti (cosa): ciò che facciamo e che determina i risultati che otteniamo;
- Capacità (come): l’insieme delle abilità che pensiamo di avere, il modo in cui prendiamo decisioni;
- Convinzioni e valori (perché): ciò che riteniamo vero e importante definisce una mappa di significati che ci orienta nella realtà;
- Identità (chi): è l’idea che abbiamo di noi stessi, secondo i vari ruoli che ci diamo. L’integrità tra ciò che crediamo vero, e ciò che facciamo;
- Missione (per chi, per cosa): è lo scopo, il contributo, il senso di appartenenza alla collettività.
Da notare che i primi tre livelli si riferiscono alla realtà ‘fisica’, concreta, materiale, e gli ultimi tre alla realtà interiore, in cui si sviluppa quell’“inner game” raccontato da Gallwey.
Coaching e PNL: i limiti
Vale la pena sottolineare che una delle presupposizioni della PNL può essere espressa con la massima: “Cambia te stesso perché non puoi cambiare il mondo”. Ogni cambiamento, ogni risultato, ogni aspettativa sono intesi a livello soggettivo. Il coach insomma non si pone domande di senso sulla portata sociale del proprio agire e del metodo adottato, sul ruolo che il coaching o la PNL hanno nella società: dal suo punto di vista rende il mondo migliore perché aiuta gli individui a ottenere ciò che desiderano. Un approccio che evidentemente induce ad adeguarsi al sistema, non mettendo in discussione lo status quo. Considerando quanto queste tecniche siano diffuse, la loro funzione sociale (intenzionale o meno che sia) è chiara: attraverso il coaching e la PNL sono innumerevoli le persone che affrontano quelli che sono conflitti collettivi e sociali riducendoli (bias di Framing) all’ambito individuale.
Un esempio concreto: se una persona con problemi nell’ambiente di lavoro (legati a conflittualità con la proprietà per la sua ‘efficienza’, disponibilità di tempo, straordinari ecc.) si rivolgesse a un coach – invece che a un sindacato – riceverebbe il suggerimento di ‘lavorare’ sulle proprie capacità e potenzialità per cambiare il proprio comportamento in modo ‘efficace’.
Ma efficace rispetto a cosa? Ufficialmente si dichiara che l’obiettivo è il benessere del soggetto, ma l’idea di efficacia che guida il processo di coaching sostiene e si inserisce nella logica dominante, quella capitalistica.
In questo senso, coaching e PNL facilitano l’introiezione volontaria dei principi di regolazione della società di mercato in cui viviamo, che possiamo sintetizzare in: accettare la competizione totale come dato di fatto ineludibile; responsabilizzare se stessi (logica individuale) per l’impoverimento economico, sociale e culturale che la politica neoliberista porta alle nostre vite; accrescere e ‘capitalizzare’ senza limiti le proprie competenze personali (le famigerate skill) e venderle nel mercato del lavoro in un’ottica di empowerment che porta al darwinismo sociale. È questo il bias più scomodo da riconoscere: credersi dei premiati cittadini responsabili ogni volta che pieghiamo la nostra esistenza alla razionalità di mercato – che umanamente parlando, è pura follia.
Coaching e PNL applicati alle aziende
È facile quindi comprendere che l’apertura del coaching al mondo aziendale era uno sbocco inevitabile. A compierlo è stato John Whitmore, che dopo aver appreso il coaching direttamente dal fondatore, nel 1986 avvia una collaborazione con McKinsey (azienda di consulenza manageriale che già si avvaleva di percorsi di coaching) finalizzata al miglioramento delle prestazioni attraverso la ‘liberazione’ (o si potrebbe dire: lo sfruttamento) del potenziale personale dei propri manager. Da questa collaborazione, Whitmore elabora un metodo denominato “GROW” che sdogana il coaching aziendale a livello generale e globale, facendo successivamente seguire una infinità di modelli, tra cui anche quelli basati sulla PNL.
È importante notare che nonostante per le aziende siano stati elaborati modelli specifici, i principi del coaching e gli strumenti della PNL utilizzati sono gli stessi già elaborati per le persone: il coaching dunque aiuta le aziende a raggiungere i propri obiettivi, a ottenere ciò che desiderano. Nello stesso modo in cui aiuterebbe una persona in carne e ossa. Verrebbe da dire che l’artificio linguistico della locuzione “persona giuridica” è stato fatto proprio dai coach, senza alcuna possibilità – né volontà – di rendersene conto. E gli effetti distorsivi di questo bias sono evidenti, a volerli vedere.
Per esempio, è certamente possibile immaginare un’azienda come una qualsiasi realtà sociale di una certa complessità, analizzabile attraverso i Livelli logici di Dilts di base relativi alla realtà ‘fisica’: ogni impresa ha un suo ambiente (uffici, fabbricati e ovunque i lavoratori esercitino il lavoro: centri commerciali, strade e persino le nostre case, da quando c’è il lavoro domiciliare o lo smart working), nel quale si attuano certi comportamenti (le attività lavorative), attraverso specifiche capacità (i processi aziendali in generale e quelli decisionali in particolare, la trasmissione delle conoscenze ecc.); ma ci vuole una buona dose di errori cognitivi per ritenere che un’azienda abbia delle convinzioni e dei valori, delle identità e delle missioni che non siano l’unico chiodo fisso per il quale esercita il suo ruolo nella società capitalistica: fare soldi, anzi fare business (sempre più soldi, sempre più velocemente).
Dall’alto: il metodo top-down
Per un’azienda, promuovere un cambiamento partendo dai manager è sicuramente l’approccio più facile, visto che i manager sono strapagati anche perché sono inclini a recepire il mandato dei propri vertici come fosse un ordine. E in effetti, sin dall’inizio e per molto tempo, le iniziative di coaching sui valori aziendali sono state ‘calate dall’alto’ (“top-down”), gerarchicamente dalla direzione verso i sottoposti.
In questo caso la dirigenza decide i valori aziendali che successivamente vengono comunicati ai dipendenti (via email, meeting, eventi aziendali, poster affissi nei luoghi comuni, siti internet, pubblicità ecc.), con un invito più o meno esplicito a ‘farli propri’. Un invito che può prendere varie forme: si associa un’esperienza positiva (evento, gadget, formazione smart…), oppure i valori sono fatti oggetto di domande in un questionario aziendale, o ancora diventano la base su cui vengono modulate le valutazioni annuali degli stessi lavoratori.
Obiettivi principali sono impostare una mentalità aziendale (che impropriamente viene chiamata “cultura aziendale”), uniformare i processi decisionali e standardizzare la circolazione delle idee, così da aumentare la produttività. Visione, missione e valori sono utili anche per un’impresa che affronti una decisione o un cambiamento importante: fusioni/acquisizioni, apertura di nuovi mercati, implementazione di nuove tecnologie ecc.
Se l’azienda chiaramente ne beneficia – d’altra parte è ‘lei’ il ‘soggetto’ della pratica di coaching – il lavoratore paga sempre un bilancio negativo: lo si induce infatti a introiettare ‘valori’ a lui estranei, al fine di facilitare l’attivazione di quei programmi comportamentali e cognitivi desiderati dall’impresa. Poco importa che questi programmi comportamentali siano, proprio come i relativi valori, estranei alla soggettività della persona.
È un processo manipolatorio blindato, perché avviene senza alcun dibattito all’interno dell’azienda, nella totale disattenzione dei sindacati – quando ci sono – e delle discipline psicologiche. Nessuna realtà è interessata a fornire ai lavoratori uno strumento per renderli consapevoli della manipolazione di cui sono oggetto, per quanto molto già farebbe una capacità critica basata su un bagaglio culturale personale, oggi però sempre più mancante. L’asimmetria delle informazioni e delle competenze è mantenuta saldamente nelle mani dei vertici dell’azienda. Significativo anche il fatto che questi valori aziendali cambino in continuazione, con una frequenza che nulla ha a che fare con il significato stesso della parola ‘valori’: a ogni turnover, l’impresa può ingegnerizzare sempre più e sempre meglio le manipolazioni linguistiche, e così facendo aumentare lo sfruttamento del cosiddetto ‘capitale umano’.
Al centro di questa fiera della manipolazione linguistica, al lavoratore non resta che sperimentare per l’ennesima volta, in un ulteriore modo, la sua condizione di subalternità (lavorare è necessario alla sopravvivenza), che lo spinge ad assecondare le richieste dell’azienda: sa che non può tirarsene fuori, pur avendo chiaro che si tratti di una forzatura, imbarazzante per quanto priva di ogni verità, anche parziale. In questo modol’identità personale del lavoratore non viene solo manipolata, ma potenzialmente minata nelle fondamenta.
Questo processo di coaching aziendale top-down genera comunque, in parte, sempre resistenze, istintive o più o meno consapevoli che siano, e a ogni processo l’impresa cerca di affabulare con sempre maggiore efficacia. Esprimere in narrativa è un ingrediente fondamentale della manipolazione linguistica: e dunque visioni, missioni e valori raccontano una versione grandiosa e positiva dell’azienda, che riconosce meriti, competenze, duro lavoro e apre le porte a coloro che diventano tutt’uno con la società, che si votano alla causa della produttività, qualcosa di cui andare orgogliosi, un’opportunità per realizzarsi. E non solo come singoli ma insieme ai colleghi. Identificarsi con il proprio lavoro (‘sono’ un impiegato e non ‘faccio’ l’impiegato). E confondere la realizzazione umana di se stessi – difficile da trovare nel lavoro in una società capitalistica – con la realizzazione nel lavoro. I propri obiettivi con quelli dell’azienda.
Dal basso: il metodo bottom-up
Una seconda modalità di diffusione dei valori aziendali, che ha il pregio di riuscire maggiormente a neutralizzare le eventuali resistenze dei lavoratori all’introiezione di visioni e comportamenti, è quella definita “bottom-up”, ovvero dal basso. Vediamo un esempio pratico.
Inizialmente l’azienda coinvolge un gruppo di dipendenti, sufficientemente ampio numericamente e rappresentativo (tutti i livelli e le aree aziendali): è il gruppo “pilota” chiamato a definire i valori dell’azienda che permettono di realizzarne la missione, in armonia con la visione. Tipicamente, per essere efficaci, è meglio che tali valori si contino sulle dita di una mano. Ipotizziamo che ne vengano definiti quattro.
Questi quattro valori vengono poi proposti a un secondo gruppo “guida”: tutti i rappresentanti di un’area (per esempio: il reparto commerciale a riferimento nazionale di una corporation). A questo gruppo viene chiesto di definire, per ogni valore aziendale, un certo numero di “principi chiave” che ispirino determinati comportamenti. Se ogni valore ha sei principi chiave, abbiamo 24 comportamenti da definire. Che non sono decisamente pochi, e iniziano a essere cognitivamente ingestibili.
Ma non basta, perché ci si può sbizzarrire ulteriormente: i comportamenti dei lavoratori possono essere declinati in vari modi: “graduati” (una, due, tre stelline) rispetto alla misura in cui realizzano i valori (poco, in modo adeguato, al massimo); “rispecchiati” rispetto ai comportamenti che si attendono dai loro manager (per ogni comportamento che l’azienda si attende dal lavoratore, c’è un corrispondente comportamento che il lavoratore si aspetta dal manager a cui è gerarchicamente sottoposto).
Quindi questi 24 comportamenti possono svilupparsi fino a 72 comportamenti “graduati” e a 144 comportamenti “rispecchiati”. Evidentemente l’intelligibilità del processo non è al centro dell’attenzione della dirigenza e nemmeno del coach. Anzi: l’ingestibilità cognitiva è chiaramente uno degli ingredienti principali del processo.
Solo a questo punto si può coinvolge veramente il “bottom” dell’azienda, ovvero tutti i dipendenti, e i 144 comportamenti del gruppo “guida” vengono mostrati come esempio a tutte le aree nazionali dell’impresa, chiedendo a ciascuna di partire dai valori e dai principi chiave dati per declinare la propria griglia di comportamenti. Ogni area infatti persegue obiettivi operativi differenti, attraverso modalità operative specifiche, dunque appare ‘logico’ che per realizzare lo stesso valore si operino distinzioni.
Tutto questo processo viene presentato al lavoratore come uno spunto per riflettere sulle proprie attività lavorative, partendo da valori questa volta ammantati – rispetto al metodo top-down – di una ‘verità’ condivisa: cosa significano per te questi valori? Come li metti in pratica, personalmente, nel gruppo, con il tuo responsabile? Il lavoratore è invitato a porsi domande di questo tipo, e a discuterle con i colleghi durante meeting organizzati al fine di compilare la propria griglia di comportamenti; una discussione che viene richiesta “sincera”, in un “dovere” di mettersi a nudo.
È evidente che la presunta spontaneità del processo bottom-up è una farsa. Anche ammesso che valori aziendali individuati dal basso anziché dall’alto possano avere maggior senso – che non hanno – la provenienza dal basso è fittizia, nella misura in cui tali valori devono essere inquadrati dalla vision e dalla mission, due narrazioni definite sempre dalla dirigenza. Più realisticamente si può intravedere una teatralizzazione del processo, che pirandellianamente rende tutti spettatori e attori allo stesso momento, anche se il canovaccio e la regia sono saldamente in mano al management.
Altro aspetto evidente è che l’efficacia di questo lavoro non è certo nei contenuti. Abbiamo già fatto notare l’impossibilità di una elaborazione cognitiva di centinaia di comportamenti differenti, ma soprattutto è chiaro a (quasi) tutte le persone coinvolte, ma altrettanto taciuto, che nessuno crede in questo processo (come viene svolto, perché viene fatto, la stessa esistenza dei valori aziendali). Eppure ciascun lavoratore deve tenerne conto, sa di dover performare quantomeno una simulazione credibile. In PNL si parla di sperimentare il “come se”: immagina di pensare e di agire “come se” questi valori fossero veramente tuoi e vedi cosa ne consegue. Il punto è che non è affatto una pratica ingenua e priva di conseguenze perché è applicata in un contesto manipolatorio, che per sua natura apre le porte della ‘realtà interiore’ a nuovi bias di cui il lavoratore non sente il bisogno, ma che l’azienda ha sistematicamente preparato.
Da dentro
In “Sicurezza, territorio, popolazione”, testo che riunisce il Corso 1977/ 1978 di Michel Foucault al Collège de France, l’intellettuale francese analizza una pratica del potere pastorale finalizzata a produrre un “discorso di verità” legato all’obbedienza.
Il potere pastorale ha per oggetto la condotta (da cui il termine leadership, dall’inglese lead, condurre) degli uomini. È un’arte di governo, afferma Foucault, i cui tratti salienti sono in rapporto con tre aspetti: la salvezza, la legge, la verità. Il pastore conduce verso la salvezza, prescrive la legge, insegna la verità. Assoggettando ogni individuo “a una trama di obbedienze incondizionate [il pastore] gli inculca la verità di un dogma nel momento in cui gli estorce il segreto della sua verità interiore”. Il coaching aziendale impone i valori aziendali (“inculca la verità di un dogma”) ai lavoratori, chiedendo loro di esercitare una pubblica e condivisa riflessione personale e sincera (“estorce il segreto della sua verità interiore”). L’esame di coscienza richiesto non mira a portare la persona a una padronanza di sé ma a riferire al pastore ciò che si è fatto, creando così un rapporto di dipendenza gerarchico: tramite l’esame di coscienza si viene a formare un discorso di verità su se stessi, lo si estrae e produce, e con esso si stabilisce un legame con chi lo dirige. La verità interiore diviene la base del rapporto di obbedienza su cui viene costruita l’economia dei meriti e dei demeriti: il sapere diventa potere.
“Il potere pastorale produce una modalità di individualizzazione che non solo non passa attraverso l’affermazione dell’io, ma implica la sua distruzione” continua Foucault: davanti a valori aziendali presentati come positivi (collaborazione, efficienza, rispetto…), “la propria volontà è come tale malvagia”, nel momento in cui il lavoratore pone resistenza a farli propri. Le procedure stesse, individualizzate, instaurano pratiche di governo, costituendo soggetti assoggettati – attraverso l’obbedienza – e soggettivizzati – estraendo da ciascuno la verità che gli viene imposta.
Da fuori
La funzione del pastorato (ma potremmo dire: la missione), per Foucault, è “farsi carico degli uomini individualmente e collettivamente per tutto il corso della loro vita e in ogni momento della loro esistenza”. Le mission aziendali, soprattutto quelle delle maggiori multinazionali, entrano nell’immaginario collettivo: se al loro apparire erano votate a qualità, correttezza, rispetto e concetti similari, oggi sono il green, l’antirazzismo e la gender equality a essere tradotti in vision, mission e valori e, con una non nascosta pretesa di moralizzazione della società, pervadono ogni angolo dello spazio pubblico, tanto che qualche azienda si dà esplicitamente l’obiettivo di cambiare il mondo: “Bring the World Closer Together” è la mission di Facebook nelle parole di Mark Zuckerberg. Il paradosso è compiuto: l’impresa capitalistica, amorale per sua natura (“business is business”), si pone come vertice di una moralizzazione cosmopolita, guida di un’umanità postmoderna orfana di grandi narrazioni e dunque priva di una meta collettiva.
1) Robert B. Dilts, I livelli di pensiero. Come lavorare in profondità con la PNL per arricchire l’esperienza della vita, Alessio Roberti Editore, 2003