Imprenditoria e lavoro sociale, una crisi strutturale
Incontro-dibattito sul libro La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici a cura di Renato Curcio (Quaderni di ricerca sociale, Sensibili alle foglie) presso Piano terra (Milano), 22 febbraio 2015
Quello che è stato definito ‘stato sociale’ è in crisi. Il welfare si è rivelato essere una serie di politiche illusorie portate avanti negli anni Settanta e Ottanta, che hanno dato vita e origine a un’imprenditoria che poi è stata chiamata in vario modo: imprenditoria sociale, comunità di accoglienza ecc. Percorsi in parte contro-istituzionali, e in parte di supplenza alla mancanza di attenzione verso i problemi di grandi fasce sociali all’interno di questo Paese. C’è stata un’imprenditoria di lucro, di rapina, di mistificazione e di copertura politica – Milano la conosce bene: il governatore di un tempo si è fatto strada a partire dalle imprese messe in piedi in quegli anni – che dietro un volto sociale nascondeva un’attività semplicemente lucrosa; c’era poi un’imprenditoria che possiamo definire ‘religiosa’, che partiva da una cultura della carità, del sostegno alle fasce deboli, cose encomiabili e dignitose ma che tuttavia, in uno Stato laico, lasciano il tempo che trovano e anche insoddisfazione in quella parte di cittadinanza che, pur rispettando tutti i punti di vista religiosi, è interessata al diritto alla parità dei cittadini e non a logiche sussidiarie, di aiuto, di sostegno; abbiamo avuto, infine, un’imprenditoria con caratteristiche più laiche: è stata minoritaria, molto piccola, tuttavia è esistita.
È nata da persone che in genere venivano dalla militanza politica e dai centri sociali, dallo scontento rispetto al sistema, che hanno messo in piedi coraggiosi esperimenti di presenza all’interno dei territori più disastrati di questo Paese. Negli anni ’70/80 sono quindi nate alcune imprese che hanno elaborato un’idea di autosufficienza, di autonomia, di possibilità di intervento sul territorio sociale senza fare né richieste né collette.
Tutto questo però è il passato. Un passato remoto, vista la velocità a cui corre oggi la società.
Il presente è un terremoto sociale che dagli anni Novanta ha investito tutta la realtà europea, quella italiana in maniera vigorosa, e ha mandato all’aria questo ‘castello’. L’orizzonte che veniva chiamato ‘stato sociale’ dagli economisti e dai sociologi si è rivelato essere una ‘baracca’, all’interno della quale alcuni mangiavano nelle greppie più fornite di fieno – gli opportunisti trafficanti della vita sociale – altri cercavano in qualche modo di sopravvivere. È questa la fascia di imprenditoria dell’ambito sociale, ma un’impresa non si regge senza che ci siano dei lavoratori; ed è proprio in questo momento di dissesto che hanno iniziato a manifestarsi, soprattutto in città come Torino, Milano e Genova, delle avvisaglie estremamente pericolose.
Le istituzioni forti – la magistratura, il carcere, una serie di istituzioni che fanno la politica sociale, direttamente o indirettamente, la costruiscono e ne definiscono i confini – hanno cominciato a pretendere precise prestazioni da parte delle imprese sociali, e di conseguenza anche da parte dei loro lavoratori. Facciamo un esempio: se fino a un certo momento una grossa comunità come poteva essere quella di don Gallo a Genova, che viveva dal basso e raccoglieva gente dalla strada, poteva attuare una determinata politica nei confronti delle persone che facevano uso di sostanze, fondata sul principio della libertà di queste stesse persone di stare o non stare in comunità, da un certo punto in poi questo approccio non è stato più possibile. Progressivamente sono stati sistematicamente posti una serie di vincoli a queste imprese: attraverso i sostegni, la possibilità di prendere persone dal carcere, si è iniziato a vincolare ogni cosa a precise prestazioni: ti do una persona in affidamento, ma stai attento perché alla sera non deve uscire. Ora: in una comunità aperta, dove non ci sono sbarre, questo che cosa significa? O riconverti la tua comunità in un carcere, non lo dici, lo mascheri, ma lo fai, oppure alla prima trasgressione vieni considerato poco affidabile dalle istituzioni, e quindi perdi la possibilità di mantenerti in piedi, perdi le entrate economiche.
Questo insieme di spinte e controspinte, ricatti istituzionali, ha comportato una ristrutturazione poderosa nel campo dell’imprenditoria sociale: i gruppi più cinici si sono adeguati e si sono resi disponibili a trasformarsi in un carcere e a definirlo ‘comunità’. A fare, in pratica, una cosa e a chiamarla diversamente, con il nome che le istituzioni gradiscono di più. È chiaro che molti lavoratori, all’interno di questa situazione, si sono trovati dentro a una morsa: se vuoi continuare a lavorare qui diventi il testimone fedele della correttezza dell’operazione istituzionale che stiamo compiendo, se non ti va bene puoi sempre andartene.
È ovvio che oggi questo non è un problema che riguarda solo i lavoratori sociali, ma l’intero ambito lavorativo: è la ristrutturazione del mondo del lavoro, che funziona sul principio di prestazione e fidelizzazione dei lavoratori all’impresa, attraverso un sistema di ricatti molto complicato e molto mediato. Nell’ambito che stiamo analizzando, questa modalità sta producendo la nuova cornice dentro la quale si svolge quello che si chiama, con una parola misteriosa, ‘lavoro sociale’. Misteriosa perché francamente penso che bisognerebbe essere molto espliciti su questo: oggi la definizione di lavoro sociale non ha alcun significato, nel senso che il mondo precedente non c’è più e il mondo nuovo non c’è ancora.
Siamo quindi dentro una situazione in cui chi opera in questo terreno ha un problema estremamente serio di definizione di due piani della propria vita: la definizione identitaria di sé come lavoratore – non di sé come persona – e la definizione delle imprese sociali in cui lavora. Quindi: chi sei come lavoratore, che categoria di lavoro sei – è importante, perché non c’è lavoro senza definizione categoriale e senza definizione categoriale non c’è diritto – questa categoria in questo Paese che spazio sociale ha, quali caratteristiche ne definiscono i contorni? E: le imprese sociali in cui lavori, chi sono veramente, chi le autorizza a essere quello che sono, in che rapporto stanno con le politiche dello Stato che si sta riformulando e ristrutturando a passi veloci?
Tutte le storie raccontate nel cantiere dai diversi lavoratori sociali sono certamente storie di sofferenza, ma sono soprattutto storie di smarrimento: a un certo punto ognuno di loro si trova a dover scegliere il luogo in cui lavora – anche se fino a un certo punto, perché è il luogo in cui lavora che lo sceglie – e questa scelta è vincolata a un sistema di prestazioni fondate sostanzialmente sul ricatto lavorativo; e quando parlo di ricatto lavorativo non mi riferisco a categorie morali o etiche, ma a dispositivi sociali precisi e molto stretti.
Facciamo un esempio: a una comunità che lavora con persone che hanno problemi di droga viene dato in affidamento un ragazzo che si suppone abbia fatto uso o abuso di sostanze. Dopo pochi giorni però si scopre che questa persona non ha fatto né uso né abuso di droga ma è uno spacciatore, che viene consegnato alla comunità semplicemente perché il carcere se ne vuole sbarazzare – perché è un rompiscatole, perché in carcere crea troppi problemi. La comunità ovviamente sottolinea l’assurdità della situazione: qui ho gente che fa uso di sostanze, mi mandi uno spacciatore? Tra loro esistono vincoli territoriali e quindi relazioni, questo ragazzo e gli altri presenti in comunità si conoscevano bene per i vicoli della città e hanno una lunga storia di rapporti piuttosto pericolosi, dunque, in che situazione mi metti? Risposta dell’istituzione: prendere o lasciare. Questa è la realtà delle assegnazioni.
Anzi, diciamola in modo ancora più chiaro: l’istituzione rilancia. Metti in piedi una struttura di accoglienza di gente che viene dal carcere, propone alla comunità, persone che ti mando perché sono andate fuori di testa con la carcerazione, perché fanno uso di sostanze, perché non so dove metterle all’interno del carcere, e più gente prendi più soldi ti do; più mi metti in piedi un apparato di accoglienza più sono contento come Stato, anche perché l’Unione europea mi sta addosso perché ci sono troppi carcerati, per cui mi fa comodo sbarazzarmi di quella parte di detenuti che non ha problemi di ordine sociale, che rompe le scatole all’istituzione e che è sempre più gestita con criteri di narcosi – le carceri sono passate da un tipo di controllo fondato sui guardiani a un tipo di controllo chimico: sempre più la tranquillità degli istituti è basata sui tranquillanti, sulle sostanze, sul dormire e sull’interesse reciproco che l’istituzione e il detenuto hanno su questo stato di cose: più il carcerato sta tranquillo più avrà giorni di abbuono, e più sta tranquillo più il carcere potrà spendere meno nelle politiche di gestione.
Questi sono approcci che già troviamo a Firenze, a Genova, a Roma, e in questo scuro territorio si inserisce il lavoratore sociale. Osservando chi è questo lavoratore abbiamo progressivamente dovuto stilare dei profili: è ovvio che una parte sono semplicemente ragazzi e ragazze che, non trovando lavoro, cercano disperatamente di ottenerne una piccola quota. Una quota transitoria, precaria e flessibile, e soprattutto esposta a una pericolosissima sperimentazione neoliberale, quella del lavoro volontario.
Sempre più il ricatto lavorativo non passa solo dall’essere dentro o fuori dal mondo del lavoro, ma anche attraverso il dispositivo della mission: lavori cinque giorni pagato e due gratuitamente, in nome della mission. Ci sono parole veramente ipocrite, perché sappiamo benissimo che non c’è alcuna mission – anche Apple parla di mission mentre produce qualcosa che non è certamente un prodotto senza profitto. Il lavoro volontario è una logica ormai già diffusa nelle scuole – nelle alberghiere, per esempio, dal secondo anno in poi gli studenti devono fare obbligatoriamente stage estivi gratuiti, la scuola li pretende come documento di certificazione del curriculum scolastico, ed è in tutto e per tutto lavoro gratuito, spesso in alberghi a cinque stelle; per non citare la situazione più clamorosa, quella dell’Expo e dei suoi 18.500 lavoratori volontari, e anche in questo caso lo scambio passa attraverso una certificazione dell’aver lavorato che forse, un domani, la persona potrà spendere in qualche modo. Tutto ciò è legale, governato dalle leggi di questo Paese.
Chi si è progressivamente adagiato dentro questo tipo di cose si è trovato pian piano a dover fare i conti con un ulteriore piano di ristrutturazione, che ha a che vedere con i soldi. Il denaro è da sempre un grande analizzatore per capire come vanno le cose, vedere come si muove è essenziale. Dunque, da dove arrivano i soldi alle imprese sociali? Oggi sempre meno dallo Stato, perché è in crisi, e sempre più da nuove istituzioni finanziarie: le fondazioni.
A Milano come a Torino, le fondazioni bancarie hanno ormai esercitato un’opzione forte per la trasformazione in un affare privato di quello che era il lavoro sociale, lo spazio in qualche modo immaginato da uno Stato per affrontare dei territori di difficoltà, e le caratteristiche di questo nuovo sistema sono quelle statunitensi, dove delle imprese si propongono in base a un principio economico molto semplice: il differenziale economico. Un detenuto costa allo Stato 100/120 euro al giorno, a seconda delle stime; se io, Stato, trovo una comunità che me lo prende per 50 euro, guadagno 50/70 euro al giorno per ogni carcerato. Quindi lo Stato privatizza e mette in appalto questo tipo di lavoro, che può riguardare il detenuto ma anche le persone con problemi di handicap, e le persone dei diversi circuiti pseudo-psichiatrici; potenzialmente dunque un’area sociale sempre più vasta.
Tutti gli analisti dei territori sociali infatti, da Bauman in giù, hanno ormai ben chiaro qual è la prospettiva che ci aspetta in Italia e in Europa: aree crescenti di persone espulse dal mondo della produzione, che verranno buttate sul territorio della inutilità sociale. Un territorio senza destino per chi ha una certa età, di disperazione per i più giovani. Un territorio che bisogna nominare, affermare che esiste, perché è vastissimo ed è uno spazio in cui oggi stanno ‘pescando’ sia le fondazioni bancarie, attraverso la logica dei bandi per costruire il differenziale economico, sia lo Stato, per introdurre nella cultura di questo Paese la logica del lavoro volontario.
Il punto centrale della discussione è dunque questo: chi opera su questo terreno, per destino, maledizione, scelta, oggi deve in qualche modo cercare di definire chi è e perché lo fa; e lo possono fare solo le lavoratrici e i lavoratori, perché nessun altro lo farà in questo Paese. O meglio, qualche mese fa il governo Renzi ci ha provato, e la proposta è sconcertante: si è parlato di una ristrutturazione del servizio civile, che finora ha funzionato con poche persone, portandolo a 100.000 operatori e mantenendo lo statuto economico attuale, ossia 400 euro al mese. È chiaro che con questi lavoratori, che volontariamente scelgono di andare a lavorare per 400 euro mensili, si possono andare a riempire i ranghi delle imprese del lavoro sociale. Per ora il progetto di legge è stato accantonato per mancanza di coperture economiche, ma questo è l’orientamento in atto nel Paese. Anche perché, come abbiamo detto, sempre più persone vengono espulse dal territorio del lavoro reale – in Italia il mondo industriale si sta restringendo, e chi ha un’aspirazione di vita un po’ più ampia fugge all’estero – e sempre più si espande una vasta categoria sociale che avrà bisogno di un sostegno di qualche natura. Il progetto, quindi, è quello di costruire un’economia su queste persone.
Diciamolo in modo crudo: 60.000 detenuti, in un Paese come l’Italia, vengono considerati troppi, ma sono pochissimi in parallelo con gli Stati Uniti, dove il penale si è fortemente espanso. Sono considerati pochi perché non c’è un’impresa privata che abbia rilevato lo spazio penale, e non ci sono imprenditori lungimiranti che si propongono di fare le carceri private; ci ha provato Monti con un disegno di legge, ma nessuno ha accettato.
Questo non significa che i vecchi imprenditori filibustieri, quelli che negli anni ’70/80/90 già si erano costruiti piccoli imperi economico/politici, non stiano prendendo la palla al balzo; non tanto per costruire qualcosa di chiaro e definito, ma per creare un’imprenditoria sociale mascherata, che sotto l’abito ipocrita delle buone persone che fanno del bene alle povere persone si sta ristrutturando per un’accoglienza ‘industriale’ del malessere.
Oggi il lavoratore sociale deve conoscere questa prospettiva, per guardarsi in faccia e scegliere. Se questo gioco non gli interessa, deve innanzitutto definirsi come categoria sociale, e rispetto a uno Stato e a una imprenditoria di questo genere deve farsi valere collettivamente, e non singolarmente: non c’è soluzione personale a problemi sistemici, e questo è un problema sistemico. Chi lo vuole affrontare si deve attrezzare per farlo, chi spera che con il tempo la situazione si chiarirà verrà semplicemente travolto da questa macchina infernale, che ha due necessità di fondo: il controllo sociale di massa e la speculazione economica sul controllo.
Accettare questo stato di cose significa darsi una definizione professionale di controllo sociale, e fare ciò che viene richiesto per attuare il controllo: mettere le camicie di forza, legare le persone, legarle con i farmaci, tenerle chiuse, non farle uscire, denunciarle se fanno qualcosa che non corrisponde ai piani di trattamento. Personalmente mi auguro che all’interno del mondo degli operatori sociali maturi un atto di definizione di sé a volto scoperto, che affermi chiaramente che tipo di lavoro si vuole fare e quale si rifiuta, con quali tutele e con quali diritti, e vada oltre la formula né missionari né volontari: perché questo è il presupposto, non essere né quello né questo, ma poi che cosa vuoi essere? Questo è l’obiettivo che abbiamo di fronte.