Gli accordi tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria: niente sindacati di base, niente sciopero, da individuale e privo di regole lo sfruttamento diventa collettivo e regolato
“Caro Primo Ministro, [...] c’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione”.
Lettera della Bce al primo ministro italiano, a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, 5 agosto 2011
La riforma del lavoro è tornata a tenere banco. Nel marzo scorso il governo Renzi ha approvato un decreto legge che mette mano ai contratti a termine e all’apprendistato: i primi possono essere rinnovati per tre anni senza causale (prima erano 12 mesi) e senza alcuna pausa tra un rinnovo e l’altro, mentre per il secondo non esiste più l’obbligo di confermare almeno il 30% dei precedenti apprendisti per poterne assumere di nuovi. Contemporaneamente l’esecutivo ha annunciato la futura presentazione in Parlamento di un disegno di legge delega, il famigerato Jobs Act, per riorganizzare “l’intero sistema”, dagli ammortizzatori sociali al riordino delle tipologie contrattuali al nuovo codice del lavoro.
La Cgil si è scagliata contro il decreto legge, affermando, con ovvia ragione, che aumenta ulteriormente la precarietà, mentre Cisl e Uil hanno avuto tiepide reazioni positive. Il problema è la mossa in due tempi, decreto e legge delega, che mette il sindacato di ‘sinistra’ in una scomoda posizione. La Cgil attendeva infatti una riforma unica e complessiva, che contenesse anche la riduzione della miriade di forme contrattuali ‘flessibili’ e la creazione di un contratto unico di inserimento con raggiungimento progressivo delle varie garanzie nell’arco di tre anni, come più volte Renzi aveva annunciato; la riforma unica le avrebbe dato la possibilità di valorizzare alcuni aspetti rispetto ad altri e di farla digerire ai propri iscritti come un compromesso necessario, visti i tempi di crisi e disoccupazione dilagante. Ritrovandosi azzoppata, con in mano solo misure che aumentano la precarietà, Susanna Camusso è stata costretta a proporsi sul proscenio nella veste battagliera. Cisl e Uil non devono infatti fare i conti con una base di iscritti particolarmente agguerrita – storicamente non sono mai stati sindacati conflittuali – e dunque possono attendere la legge delega, mentre il segretario della Cgil ha a che fare con la concorrenza di Landini e con i problemi interni esplosi nell’ultimo direttivo nazionale.
È probabile che il contratto unico sarà inserito nel Jobs Act. Porterebbe consenso a Renzi – che basa la sua leadership sulla promessa di cambiare l’Italia, la “svolta buona” – e biada nella mangiatoia dei sindacati, che hanno visto minare la centralità del proprio ruolo dalla nuova geografia del lavoro, rimasti ancorati alla ‘difesa’ dei lavoratori inseriti all’interno dei contratti collettivi e totalmente indifferenti ai nuovi, violenti e parcellizzati, rapporti di lavoro. È chiaro tuttavia che per uscire dalla crisi il Capitale ha bisogno di aumentare la flessibilità lavorativa, e dunque se si rende disponibile a una riforma che, apparentemente, va nella direzione opposta, occorre chiedersi cosa stia succedendo dietro le quinte; come i tre sindacati e Confindustria, stringendosi in un patto tra ‘produttori’, stiano cambiando le regole dei contratti collettivi; e quindi quali panni stia indossando anche la Cgil, lontana dai riflettori, mentre in scena lancia i suoi strali.
Sono tre anni che Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sottoscrivono dei patti. Il primo accordo porta la data del 28 giugno 2011 (quello a cui fa riferimento la lettera della Bce) ed è stato firmato in via definitiva il 21 settembre dello stesso anno. Stabilisce innanzitutto che per sedersi al tavolo delle trattative nazionali, una organizzazione sindacale deve superare la quota del 5% di iscritti sul totale dei lavoratori della categoria (tessile, servizi ecc.) a cui si applica il contratto collettivo di lavoro; l’accordo fissa quindi una soglia di sbarramento. Definisce inoltre che i contratti collettivi aziendali – sottoscritti tra la proprietà dell’azienda e le Rsu, le Rappresentanze sindacali unitarie interne all’azienda stessa – “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico e occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.
I contratti aziendali, dunque, diventano fonte regolativa primaria, in quanto possono modificare le norme contenute in quelli nazionali – già negoziati, per inciso, escludendo i sindacati sotto il 5% – e per aspetti centrali quali orario e organizzazione del lavoro. L’accordo fissa inoltre i paletti per i referendum abrogativi dei contratti aziendali, che possono essere sottoposti al vaglio dei lavoratori dell’impresa solo tramite una richiesta avanzata, entro dieci giorni dalla firma, da uno dei sindacati firmatari dell’accordo stesso – quindi Cgil, Cisl e Uil – o dal 30% dei lavoratori dell’azienda, e stabilisce che la consultazione è valida solo se viene raggiunto il quorum del 50%+1. Infine, sancisce che i contratti aziendali possono definire “clausole di tregua sindacale”, ossia regole che vincolano a non indire scioperi.
Passano poco meno di due anni, e il 31 maggio 2013 Cgil, Cisl, Uil e Confindustria firmano un secondo protocollo di intesa, che disegna nel dettaglio le regole di calcolo della soglia del 5%. Le basi del conteggio sono due: le deleghe dei contributi sindacali conferite dai lavoratori, tramite trattenuta in busta paga – in percentuale sulla totalità degli iscritti ai sindacati – e i voti raccolti nelle elezioni delle Rsu – in percentuale sui lavoratori votanti. Il calcolo è effettuato per media semplice, ossia sommando i due valori e dividendo per due, e il risultato deve superare il 5%.
Il protocollo estende inoltre la “tregua sindacale” anche ai contratti collettivi nazionali (“le parti firmatarie si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti”) e stabilisce la possibilità di sanzioni in caso di inadempienza contrattuale (“i contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni di cui sopra, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa”).
L’ultimo accordo porta la data del 10 gennaio scorso, sottoscritto sempre da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, ed entra nel dettaglio stringente dei diversi aspetti inseriti nei due patti precedenti. Per prima cosa stabilisce che sono ammessi al negoziato dei contratti nazionali solo i tre sindacati firmatari dei tre accordi – ferma restando la soglia del 5% – e non le eventuali associazioni sindacali che vorranno aderire ai patti successivamente. Sancisce inoltre che possono partecipare alle elezioni delle Rsu – le rappresentanze che negoziano i contratti aziendali che, come abbiamo visto, assumono priorità regolamentativa rispetto ai nazionali – solo i sindacati che “accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti” dei tre accordi. Stabilisce che i contratti nazionali sottoscritti dai sindacati che rappresentano il 50%+1 della rappresentanza e approvati a maggioranza semplice dai lavoratori saranno efficaci, vincolanti ed esigibili anche per la minoranza, che “conseguentemente […] si impegna a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti”.
Sancisce che i contratti collettivi nazionali dovranno “determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria […] e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa”. Istituisce infine una “Commissione interconfederale permanente” che sarà arbitro di ogni controversia dovesse sorgere, composta da sette membri: tre nominati da Confindustria, tre rispettivamente da Cgil, Cisl e Uil, e un settimo scelto da una lista stipulata di comune accordo.
Tiriamo le somme. Innanzitutto i tre sindacati confederati si ritagliano il ruolo di unici attori accreditati a negoziare i contratti collettivi nazionali. Eliminano, in pratica, i sindacati di base, i più battaglieri, non tanto istituendo la soglia del 5% ma specificando, nell’ultimo accordo, che in ogni caso solo e soltanto le tre sigle firmatarie dei tre patti siedono al tavolo delle trattative. Resta aperto lo snodo dei contratti collettivi aziendali, che come abbiamo visto diverranno prioritari rispetto a quelli nazionali e regolamenteranno la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro, ma per accedere alle elezioni delle Rsu che negoziano tali contratti i sindacati di base dovranno aderire integralmente ai tre accordi.
È come chiedere all’impiccato di portarsi dietro la corda. Perché i patti prevedono espressamente “tregue sindacali” e rinuncia a “iniziative di contrasto”, e dunque per poter rappresentare gli interessi dei propri iscritti nelle trattative aziendali i sindacati di base devono rendersi mansueti. Di fatto, il conflitto non è più ammesso. Pena sanzioni. Ed è questo l’altro aspetto rilevante. Cgil, Cisl e Uil si sono accordati con Confindustria affinché un sindacato venga sanzionato, sanzioni economiche e sospensione di diritti sindacali, nel caso utilizzi l’arma dello sciopero – l’unica forma di lotta con cui i lavoratori abbiano mai ottenuto risultati concreti.
Lo sciopero diviene quindi un atto che una organizzazione sindacale si deve finanziariamente poter permettere, consapevole che dichiararlo significa aprire un contenzioso davanti alla Commissione interconfederale permanente e, con tutta probabilità, perderlo, pagando un ‘risarcimento danni’ all’impresa. È evidente che anche questa parte dell’accordo è stata scritta pensando ai sindacati di base, economicamente non certo dei colossi, per evitare che prima aderiscano agli accordi, allo scopo di poter partecipare alle trattative dei contratti aziendali, e poi li rompano, dichiarando comunque sciopero. Cgil, Cisl e Uil, infatti, non temono di certo questa clausola, avendola per primi sottoscritta. Da rappresentanti dei lavoratori, i tre sindacati confederati si sono dunque trasformati nei loro secondini. Perché se è vero che lo sciopero è un diritto individuale sancito dalla Costituzione, è altrettanto vero che viene sempre esercitato in forma collettiva: scioperare presuppone l’esistenza di una organizzazione che lo dichiari. Creare quindi le condizioni perché nessuna associazione sindacale possa dichiararlo, significa nei fatti rendere nullo il diritto di ogni singolo lavoratore.
Alla luce dei tre accordi sottoscritti, è chiaro perché il Capitale non si opporrà alla creazione del contratto unico di inserimento: perché da individuale e privo di regole lo sfruttamento diventerà collettivo e regolato. E anche la flessibilità – lavoro a uso e consumo delle esigenze produttive – sarà inserita nella struttura dei contratti collettivi: con le nuove caratteristiche dell’apprendistato e dei contratti a tempo determinato, e con la priorità dei contratti aziendali su quelli nazionali.
C’è ben poco da obiettare sull’atteggiamento di Confindustria: l’associazione industriale conosce la struttura del sistema capitalistico, e sa che solo alimentando quel processo di accumulazione senza il quale è condannato a perire, ossia lo sfruttamento del lavoro, in quel meccanismo che Marx definiva estorsione di plusvalore, il Capitale italiano potrà uscire dalla crisi e reggere la globalizzazione; sta quindi tutelando al meglio gli interessi degli imprenditori.
È il sindacato che ha invece barattato gli interessi dei lavoratori per ritagliarsi un ruolo nel XXI secolo, dove rischiava di scomparire; perché il nuovo pensiero unico divenuto dominante recita che le categorie del Novecento non sono più attuali e vanno superate. Si è dunque inserito, accanto a Confindustria, nella nuova classe sociale dei ‘produttori’, parola nuova, che unisce in un’unica categoria imprese e lavoratori, negando ogni conflittualità e contrapposizione; e si è reso complice del progetto di eliminazione dei dissidenti sindacati di base.
Il parallelismo con il piano politico è evidente. La Governabilità disegnata da Pd e Forza Italia con una legge elettorale che cancella i partiti minori, ha il proprio specchio nella Governabilità del lavoro: quest’ultimo non troverà più rappresentanza dei propri interessi né in Parlamento – tra i piccoli partiti c’è indubbiamente Sel, spina nel fianco sinistro del Pd – né nelle aziende. Entrambe le realtà sono poi rivestite di un bipolarismo tanto fittizio quanto necessario a tenere in piedi la farsa, della democrazia nel primo caso, dei diritti dei lavoratori nel secondo: Pd e Forza Italia sono alla stessa stregua neoliberisti, Confindustria e sindacati confederati si sono uniti nella categoria dei ‘produttori’.
Resta l’aspetto più significativo: questo cambiamento è possibile perché i lavoratori lo consentono. Si sono bevuti in massa il mantra del XXI secolo, consci o meno che dietro lo slogan che vuole lasciarsi alle spalle il Novecento c’è un’operazione culturale che mira a superare una sola cosa: il conflitto Capitale/lavoro. O meglio, renderlo unidirezionale, dall’alto verso il basso. Perché Confindustria è al contrario pienamente consapevole che il conflitto è ontologico al sistema capitalistico, e mette in atto una feroce lotta di classe. I lavoratori invece hanno abbandonato il proprio bagaglio culturale, quello che negli anni Settanta era ancora vivo ed era base di conoscenza delle lotte contro lo sfruttamento; che rendeva coscienti di quanto la frase “padrone ladro” non fosse una mera invettiva ma racchiudesse il nocciolo del capitalismo: ladro di lavoro. E negli ultimi anni hanno ampiamente e attivamente contribuito ad arrivare al punto in cui si trovano ora.
Hanno dato il proprio voto a un Pd che ha rinnegato il pensiero di sinistra e abbracciato il neoliberismo; si sono buttati nelle braccia della Lega Nord, individuando il loro ‘nemico’ nell’immigrato che ‘rubava’ il lavoro e non nel padrone che lo preferiva all’italiano perché più facilmente sfruttabile; poi in quelle del Movimento 5 stelle, che non ha mai posto in discussione il sistema capitalistico ed è stato tra i primi a rifiutare le categorie del Novecento; e infine in quelle di Renzi, il rottamatore che ha compiuto la finale metamorfosi di quel partito che nel Pci non ha più nemmeno le radici, che aumenta i salari in busta paga aggredendo lo scudo fiscale – che significa tagli allo stato sociale – e non il meccanismo di sfruttamento del lavoro.
È disarmante il vuoto che ha lasciato l’abbandono del pensiero di sinistra.
Oggi l’incapacità dei cittadini di comprendere le mosse attraverso cui la classe dirigente politica ed economica – nella quale si sono inseriti anche i sindacati confederati – sta cambiando il loro futuro, in peggio, è totale, e si traduce in una critica, anche al ‘sistema Europa’, priva di un’analisi concreta. Il nodo della questione ‘lavoro’ è tutto lì, ben racchiuso nel passaggio della lettera della Bce di agosto 2011: “Ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende”. Ma se gli stessi lavoratori non se ne rendono più conto, c’è ben poco da fare. Nessuno ha bruciato libri, le biblioteche sono zeppe di saggi di analisi politica ed economica, la rete non è solo facebook e twitter; mai come oggi è possibile accedere a controinformazione e controcultura. Insomma, non sempre il pesce puzza a partire dalla testa.