La finta opposizione del Vaticano: funzione etica compensativa e sponda consolatoria per la classe lavoratrice
“Più c’è della creatura e meno c’è di Dio”.
Johannes Tauler
C’è una sorta di pacifica convivialità da parte dei media nell’evitare un approccio critico ai documenti emanati dalla Chiesa e alle parole pronunciate ogni domenica da Benedetto XVI in piazza San Pietro. Anche quando si presentano nella forma di critica al sistema e in forma di sostegno alle classi disagiate, i concetti che vi sono iscritti vengono semplicemente lasciati scivolare sulle pagine dei giornali, senza spiegare al profano cosa significhino per il codice religioso da cui provengono. Un silenzio assenso che dimostra che il potere sta tornando a utilizzare la Chiesa cattolica come instrumentum regni, soprattutto dopo i risultati delle ultime elezioni che hanno spogliato il Parlamento di una voce critica a sinistra. Una tara di cui adesso il Vaticano è chiamato a farsi carico come forza compensativa di fronte al disagio della classe sociale che sta per essere travolta dalla crisi economica.
Ora: perché tale sostituzione possa realizzarsi, senza che a qualcuno venga il dubbio di trovarsi di fronte a una curiosa anomalia politica, è opportuno per la Chiesa dissimulare il discorso politico attraverso la propria veste spirituale. E a questa impostura, docilmente, i media concorrono, come quando fingono di dibattere sulla legittimità delle incursioni ecclesiastiche nella sfera politica. Questione assurda, riferita a una religione politica per tradizione: a partire dal documento apocrifo della donazione di Costantino, passando dal giorno in cui si è fatta Stato, fino al momento in cui, attraverso i Patti lateranensi, il fascismo prima e la Costituzione repubblicana poi, le hanno riconosciuto un ruolo di interlocutore politico privilegiato. Un ruolo che, dall’implosione dell’impero sovietico e l’avvento delle politiche neoliberiste, è andato ancor più rinforzandosi.
Oggi la Chiesa ha la forza che le consente una certa spregiudicatezza di azione, al punto di permettere a un partito razzista come la Lega nord o a gruppi dichiaratamente fascisti come Forza Nuova di impossessarsi delle componenti maggiormente integraliste – omofobia e antislamismo – appartenenti al suo impianto ideologico. Senza per questo pronunciare una sola parola in segno di dissociazione. Questione di coerenza storica, probabilmente, vista la complicità con il Ventennio fascista della quale non si è mai scusata. Una tradizione che, al contrario, tuttora continua, non solamente con una fusione ideologica nell’immaginario cattolico, ma anche attraverso stretti contatti tra eminenze grigie del clericalismo, politici fascisti e razzisti, e massoneria.
La politica ecclesiastica, tuttavia, non si limita a impresentabili alleanze. Da Wojtyla in poi, il suo obiettivo mira a instaurare, nella cultura sociale, un’integrale restaurazione dell’ortodossia medioevale, anche per mezzo di una capillare creazione di movimenti e di forum cattolici. Una strategia ramificata e sommersa che si verticalizza verso l’alto, con la quale il Vaticano è in grado di creare una pressione di tipo lobbistico e così condizionare l’attività legislativa parlamentare nei settori economico, lavorativo, dell’istruzione e della bioetica.
Ma prima, come accade per ogni restaurazione, la reazione è dovuta transitare dall’inevitabile ‘pulizia’ interna con la quale la vandea cattolica ha saldato i conti con il concilio Vaticano II. Un redde rationem culminato con la restituzione dello scettro alle componenti più estremiste del cattolicesimo, tra le quali spicca l’integralista Comunione e Liberazione, insieme ad altre realtà minori non meno aggressive quali Focolarini, Legionari di Cristo e Alleanza cattolica, tanto gradite al papa e alla nomenclatura cattolica più nera, il cui terminale è il cardinale Ruini.
Un regolamento di antichi contenziosi di cui lo scioglimento della scomunica ai lefevbriani, negazionisti compresi, è solamente, per adesso, l’ultimo capitolo. E i risultati sono arrivati. L’infiltrazione in Parlamento, trasversale ai partiti politici – e l’imposizione alla politica della propria svolta culturale – ha permesso alla Chiesa cattolica di riprendere il pieno controllo sui temi etici, facendo cadere nel nulla i Dico, trasformando il caso Englaro in una legge medievale sul testamento biologico; riuscendo a boicottare il referendum sulla procreazione assistita (grazie a un tam tam di parrocchia in parrocchia), e contando di fare in futuro la medesima cosa contro l’aborto – reso nei fatti già impraticabile dai primari di ‘fede’ cattolica distribuiti in buona parte degli ospedali italiani.
La responsabilità del pieno recupero della Chiesa cattolica di un ruolo politico dominante è da attribuirsi per buona parte all’atteggiamento autodistruttivo del centro-sinistra. Alla sua totale e irreversibile perdita d’identità. Perché se è vero che, a conti fatti, la violenza vaticana non è dissimile da quella espressa oggi dal capitalismo italiano, la cui costante ha epicentro nello smantellamento graduale e continuo delle strutture di protezione sociale – garantito per buona parte dai due governi Prodi – è altresì vero che la violenza tout court è diventata la grammatica di un mondo politico ed economico giunto al capolinea.
Oggi Benedetto XVI si può muovere agevolmente tra le macerie su cui verrà costruito il modello di società auspicata da Leone XIII nell’enciclica del 1881 con la quale nasceva la dottrina sociale della Chiesa cattolica romana. Una sorta di mondo magico non diverso da quello promosso da Veltroni, da Confindustria e da Licio Gelli, senza conflitti di classe e con i lavoratori (e i disoccupati e i disperati) paghi di trovare nell’abbraccio della religione cattolica una sponda consolatoria.
L’anticomunismo del suo predecessore Wojtyla non era riuscito fino in fondo in questo compito. La società con cui si confrontava era diversa da quella odierna. Per ragioni oggettive. Prima di tutto, in Italia c’era ancora il Pci. Il mondo era diviso in due blocchi politici, e la Chiesa da lui ereditata viveva in uno stato di emarginazione, relegata all’esilio sociale, inserita in un contesto civile abbagliato e reso inconsapevolmente laico dal benessere economico. Quella che Wojtyla aveva il compito di restituire alla piena salute politico-religiosa era una Chiesa sfinita ed emarginata socialmente dalla compromissione con le istanze del secolarismo borghese. Un pericolo che già Pasolini aveva esaminato con efficacia nel suo articolo del 1973, Analisi linguistica di uno slogan, in cui mostrava i rischi corsi dalla Chiesa nel momento in cui accettava, per convenienza, di conciliare fede religiosa e società dei consumi, in cambio del riconoscimento di un proprio ruolo politico. In questo modo lo scrittore chiedeva alla Chiesa di opporsi al consumismo e ai danni che esso produceva nel cervello degli italiani.
Cinque anni più tardi, eleggendo sul soglio pontificio un vescovo come Wojtyla, il Vaticano dimostrava di avere compreso quanto dannosa si fosse rivelata nel tempo, per il proprio potere, tale compromissione, in parte resa inevitabile proprio dalla spinta progressista del concilio Vaticano II.
Cresciuto in Polonia, nel cuore dello scontro tra cattolicesimo e comunismo, nell’avamposto più oltranzista della Chiesa cattolica, Wojtyla aveva ben chiaro che il recupero del potere temporale doveva passare sopra il cadavere del socialismo reale. La Chiesa, al momento della sua elezione, era disastrata dagli scandali finanziari degli anni Ottanta e dalle molteplici denunce per crimini sessuali. Per questo, sin dai primi giorni del suo mandato, Wojtyla si è preoccupato di rimodellare la gerarchia ecclesiastica concentrando tutti i poteri su di sé e cambiare il corso della deriva avviata – a dire suo e dei suoi uomini – dal progressismo di cui il concilio Vaticano II era stato portatore. Anche se a volte in disaccordo con il cattolicesimo ‘scientifico’ dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – il cardinale Joseph Ratzinger – Wojtyla ha impostato il proprio catechismo su basi esoteriche (culto mariano, il terzo segreto di Fatima legato all’attentato subito), sulla credulità della gente (482 santi creati ex novo) e su una moltitudine di eventi mediatici. Colonne solide sulle quali appoggiare la reazione che avrebbe riconsegnato alla Chiesa cattolica romana il primato sulle Chiese cristiane non legate al papato romano.
A tale scopo è nato Dominus Jesus, il documento con il quale la politica vaticana chiudeva con il concetto di Chiese sorelle. Una stretta al pluralismo religioso che di fatto imponeva la non equiparazione tra i mezzi di salvezza della religione cattolica rispetto a quelli delle altre confessioni.
Occorre però aggiungere che la compromissione con il consumismo, se da un lato ha comportato un alleggerimento della presenza della Chiesa nella società civile – in tal senso le sconfitte nei referendum sull’aborto e sul divorzio fanno storia – da un altro ha permesso alla Chiesa di mantenere solidi i propri rapporti con la politica. Cinquant’anni di Democrazia cristiana al governo avranno pure un valore e la complicità vaticana con le sue politiche sono note. Per questo motivo il crollo della prima Repubblica può essere considerato il momento di svolta reazionaria. Il momento in cui i due poteri occulti che avevano modellato l’Italia politica a proprio piacimento, la mafia e la Chiesa, hanno stabilito di non potere più delegare agli uomini politici i propri interessi. La mafia si è mossa con le bombe, le alleanze massoniche e l’appoggio a Forza Italia, arrivando a inserire propri uomini nei centri di potere.
Il Vaticano, dal canto suo, ha compreso che l’affidarsi alle nuove figure parlamentari prive di una profonda formazione teologica, avrebbe comportato dei rischi di tenuta a livello di potere. In questo senso, la Dc aveva garantito una sponda dottrinale e legislativa di sicura affidabilità, garanzia che i nuovi parvenue della politica, cresciuti a pane, denaro, razzismo e anticomunismo fascista, certo non davano.
Agendo in linea di coerenza con il suo predecessore, Ratzinger oggi non è più intenzionato a delegare alla politica il compito di evangelizzazione della gente, e per questo si accinge a puntare le bocche di fuoco – oggi che la crisi economica è imminente – contro la società materialistica, rea di avere incenerito il precetto del primato dell’uomo sulle cose. Il secolarismo che ha emarginato la Chiesa, oggi viene così sfiduciato dalla Chiesa. Un attacco che tuttavia avviene solamente a livello etico. Ed etico, secondo il codice religioso, significa spirituale. Metafisico. Ignaro di alcuna determinazione esterna. Ed è per questo che l’opposizione del Santo Padre viene volentieri legittimata dal potere capitalistico stesso; perché sposta ‘opportunamente’ nel campo dei valori problemi che sono esclusivamente di ordine economico; perché nasconde di fatto l’attacco di classe lanciato negli ultimi quindici anni dal padronato alla classe dei salariati.
Quando oggi Benedetto XVI esprime “preoccupazione per l’aumento delle forme di lavoro precario” e lancia un appello “affinché le condizioni lavorative siano dignitose per tutti”; quando afferma: “Mai più morti in mare” dopo la morte dei disperati provenienti dalle coste libiche in cerca di lavoro, lo fa non solo come forza spirituale ed etica, ma anche accreditandosi come capo dell’unica forza ‘politica’ di opposizione rimasta in Italia.
Caduto il comunismo, caduta nella sinistra l’idea di consegnare ai propri elettori una visione originale della società, la Chiesa si candida come unica alternativa etica al capitalismo, pur considerandosi parte integrante di esso. Perfetta, quindi, essendo il suo obiettivo quello di strumentalizzare a un tempo le ragioni di sfruttatori e sfruttati, per piegarle alla propria urgenza di potere. Un’alleanza trasversale che è solamente fittizia, falsa, perché il Vaticano sa perfettamente che il suo potere dipende comunque dalla fedeltà allo Stato e alla sua identità classista.
Sono quindi in malafede i detentori della chiacchiera quando lasciano cadere le parole del papa come se avessero un significato astratto. Senza cioè ricondurle sul piano da cui partono: da un impianto ideologico distante anni luce dalla salvaguardia degli interessi dei lavoratori, nel momento in cui la Chiesa accetta senza riserve la proprietà privata come logica naturale e condanna la lotta di classe solo quando parte dal basso.
L’appello di Benedetto XVI, nel codice della dottrina sociale della Chiesa, altro non è che uno sterile richiamo alla pietà dei capitalisti e a una maggiore uguaglianza – in continuità con il Centesimus annus, in cui Wojtyla indicava la Chiesa polacca come riferimento – nel nome di una solidarietà che concili gli animi di padroni e lavoratori. Il richiamo a una giustizia sociale intesa come aggancio etico per il libero mercato e che propone l’ideologia del Vangelo come società ideale, senza la quale non si possono risolvere le questioni sociali. Parole che, andando oltre lo scenario idilliaco che proiettano nell’immaginazione dell’ascoltatore profano, mostrano senza ombra di dubbio fino a che punto l’orientamento spirituale della Chiesa miri a una conservazione del sistema.
Questi concetti spiegano l’accanimento di Wojtyla contro il consumismo, le cui dinamiche richiedono una pratica laica dell’esistenza e della vita sociale in particolare, accanto al mancato riconoscimento della logica di sfruttamento. Di alienazione, semmai, ma solo in quanto causa dell’allontanamento dell’individuo dalla fede. In questo modo lasciando cadere le istanze rivoluzionarie tipiche del marxismo, per conservarne come buona la sola componente etica e morale e annetterla in maniera strumentale al verbo cattolico. Un sofisma raffinato, con il quale affrontare la componente meno critica nei confronti del capitalismo; quella del consumismo che mercifica le cose, dimenticando volutamente la sfera della produzione, ovvero la riduzione a merce del lavoratore, dell’uomo cioè.
Un contesto ideologico, perfettamente in linea con il dogma liberista, che assembla nel proprio calderone i richiami alla carità e alla pietà umana insieme al pieno riconoscimento delle ingiustizie sociali. Un minestrone che trova le proprie spiegazioni non nel campo delle dinamiche economiche ma in ambito dogmatico: il peccato originale. Un mito che, pure restando implicito (quindi non detto, quindi disconosciuto di fronte al profano), trova espressione ogni domenica nei discorsi del papa, ovvero la cacciata dell’uomo dall’Eden come momento di espiazione durativa e giustificazione definitiva, mirata a indurre gli sfruttati dal sistema ad accettare la propria condizione come pena naturale e necessaria da espiare giorno dopo giorno. Una dimensione umana che ha nella rassegnazione il proprio contraltare, e che trova una propria consolazione etico-economica nella metafora del corpo umano, il cui funzionamento dipende dalla perfetta armonia di ogni sua parte. È questo, infatti, il cardine ideologico su cui si fonda l’intera dottrina sociale (1).
Difficile non notare a questo punto quanto il discorso scada, sfumando, nel linguaggio veltroniano; nel grande abbraccio rivolto dal centro-sinistra a Confindustria, oltre il quale esiste solamente il vuoto politico. Un equilibrismo concettuale che induce, senza ulteriore esitazione, a ribaltare i termini della filosofica domanda che apriva la Introduzione alla metafisica di Heidegger: “Perché vi è in generale il nulla e non l’essente?”
(1) Rerum novarum: enciclica scritta da Leone XIII nel 1891 per contrastare la diffusione dei concetti socialisti tra operai e contadini