di Gianvittorio Pisapia |
Il non detto, l’azione del narrare e il suo risultato: esistono narrazioni false o sono tutte autentiche? Dibattito sul saggio Narrare. Dall’Odissea al mondo Ikea di Davide Pinardi (Paginauno editore, 2010)
Quale analogia esiste tra un convulso film d’azione e la fredda requisitoria di un pubblico ministero durante un processo? Che cosa accomuna un lirico romanzo d’amore a un documentato progetto urbanistico? Oppure una radicale proposta politica a una ragionata ricostruzione storiografica? Che cosa condividono una innovativa analisi sociologica e un commosso elogio funebre? O la fresca bugia di un bambino e un’articolata diagnosi medica? Sono domande con le quali Davide Pinardi ci introduce al suo volume Narrare e a cui risponde: sono tutte, semplicemente, narrazioni (1).
È narrazione quanto accade in un’aula di tribunale durante un processo? “L’imputato, gli avvocati, i testimoni, il pubblico ministero, ciascuno narra una storia e alla fine il giudice deve narrare una sorta di compendio pesato di tutte queste storie, decidendo di incorporarvene alcune e di espungerne altre” (2). Possiamo ritenere narrazione quanto scrivono i periti nelle loro perizie dovendo ogni giorno constatare come, partendo dagli stessi dati, forniscono ricostruzioni diverse nelle quali giocano un ruolo determinante le differenze teoriche e metodologiche, gli interessi di parte, le storie personali?
Dobbiamo considerare narrazione il romanzo e il racconto, la barzelletta e il sogno comunicato dal paziente all’analista, il conto del salumiere e quanto si legge su un giornale di gossip?
Che cosa accomuna testi come Il senso e la narrazione di Giuseppe O. Longo; Il pensiero narrativo di Andrea Smorti; Narrazione e intervento in psicologia clinica di Maria Francesca Freda; Raccontare delitti. Il ruolo della narrativa nella formazione del pensiero criminologico, curato da Adolfo Francia, Alfredo Verde, Jutta Birkhoff; Narrare. Dall’Odissea al mondo Ikea, di Davide Pinardi, per citare solo alcuni dei volumi usciti in questi anni? Così viene sintetizzato il volume di Giuseppe O. Longo: “Gli umani sono creature della narrazione: infinitamente narrano e si narrano, intrecciano dialoghi, accendono storie per illuminare le buie caverne del cuore e del mondo, recuperano e trasmutano ricordi. Viviamo in bilico tra una realtà soda e scabra, inconoscibile, fornace estuosa di perturbazioni e richiami e colori, e un’interiorità elusiva, delicata ed effimera: e tra le due, tra il mondo e noi, tessiamo col pensiero e con le parole un fragile ponte, un ponte che si chiama senso”. Andrea Smorti – dopo avere sottolineato come il pensiero logico-matematico costituisca uno strumento potente e raffinato di conoscenza che si avvale di concetti astratti e di procedure formali – si domanda: quando si deve fare ordine in quella complicata ragnatela di relazioni sociali, dove le persone si muovono spesso in modo singolare e imprevedibile, sono sufficienti i formalismi logicomatematici?
L’uomo, risponde Smorti, per comprendere gli eventi sociali si avvale di un altro tipo di pensiero: il pensiero narrativo, fondato sulla costruzione di storie.
Maria Francesca Freda – mettendo in dialogo psicodinamica, psicologia culturale e semiotica –esplora il costrutto di narrazione e i suoi legami con i diversi setting dell’intervento psicologico-clinico: “Se il narrare è una prima trasformazione dell’esperienza che la iscrive in una cornice di significato e connette il narratore con un interlocutore, l’intervento psicologico-clinico è un luogo di trasformazione dell’esperienza narrativa volta a riconoscere e pensare i processi simbolici che, nel dialogo clinico, hanno fondato la costruzione del testo”.
Nel volume curato da Francia, Verde e Birkhoff la criminologia viene considerata spontaneamente narrativa: “Ricostruire eventi e situazioni, proporre analisi di dati, dare significato a statistiche necessita sempre di una operazione interpretativa, operazione che viene condotta da chi interpreta con modalità essenzialmente narrative. Le stesse fonti da cui vengono tratti i dati della criminologia clinica sono di natura narrativa: dossier, interviste, verbali di procedimenti penali, perizie, sentenze” (3). Gli autori sono convinti che un approccio narratologico alle problematiche del delitto consente di approfondire le conoscenze sull’uomo e, in particolare, “di cogliere gli universali concernenti il crimine e la criminalità”.
Davide Pinardi – scrittore di romanzi, testi teatrali, saggi storici e libri per bambini, autore di sceneggiature e di format televisivi – prospetta il suo volume, oltre che come riflessione teorica, quale manuale operativo per studiare le narrazioni dall’interno al fine di ritrovare parametri di merito e di qualità e per ricercare le regole ricorrenti, gli elementi-base dell’atto del narrare.
Ogni autore si pone alla ricerca di proprie certezze narrative. Considerare dossier, interviste, verbali di procedimenti penali, perizie, sentenze, relazioni professionali di psicologi come narrazioni può certamente condurre a percorsi interpretativi originali; ma l’interpretazione attiene solo a testi già narrati offerti come oggetti sacrificali, non riguarda la narrazione come processo in atto. È differente discorrere su ciò che è già stato narrato (e che appartiene al passato del narratore e al presente del fruitore) piuttosto che sul processo narrativo (in cui due o più soggetti costruiscono e ricostruiscono un’interazione). Tanto è vero che da ciò che è stato narrato si può disertare senza intaccare ciò che il narrare ha prodotto, se non è l’autore a decidere di modificare il testo. Dal narrare come azione è possibile disertare dichiarando che non si intende proseguire nella relazione.
Di fronte a ciò che è stato narrato l’osservatore (per esempio il lettore di un libro, lo spettatore di un film) si colloca all’esterno ed è decontestualizzato rispetto al processo narrativo (solo in certe forme di teatro questo non accade). Colui che è impegnato nella narrazione deve invece accettare di essere contemporaneamente osservatore e osservato, come avviene, per esempio, in quello che è un significativo momento della prassi criminologica individualizzata – l’interazione narrativa – la cui caratteristica fondamentale è di consentire che difficilmente uno dei due interlocutori possa ridurre l’altro a oggetto: colui al quale è inizialmente attribuito (sovente da un committente istituzionale) il ruolo di osservatore acconsente di mettersi in gioco e di includersi nel contesto dell’osservazione.
Il segreto della narrazione
Anche noi siamo convinti che da sempre gli uomini narrano e si narrano e che la narrazione è insopprimibile. La parola deve circolare “altrimenti moriamo senza morire” (4), ma non è sufficiente dialogare o scrivere perché si sia di fronte a una narrazione. Chi non si mette in gioco non sta narrando, perché non accetta l’imprevedibilità di ogni narrazione e non si rende conto che nuove forme narrative, “che non sappiamo ancora nominare”, sono già sul punto di nascere, attestando che la funzione narrativa può subire una metamorfosi ma non può morire (5).
È importante però distinguere la narrazione come azione del narrare (l’azione costituente, che può essere più o meno ordinata e che ha termine quando una delle parti coinvolte decide di abbandonare il campo) dal risultato di tale azione (il prodotto della narrazione, ciò che è già stato raccontato). I due aspetti sono strettamente connessi, ma acquistano diversa rilevanza se interdefiniamo narrazione e assenza (6). Nel primo caso (quello costituente) l’espressione ‘narrazione assente’ indica che un soggetto cela alcune cose che pure hanno attinenza con ciò di cui si sta discorrendo; nel secondo caso (l’oggetto costituito) la locuzione suggerisce che dietro le parole narrate si nascondono significati non emersi che bisogna ricercare.
È alla narrazione assente che facciamo riferimento (anche se non si intende sottovalutare la ricerca di significati nelle parole già narrate). Questa categoria metodologica non codificata dovrebbe facilitare il confronto con il mistero della domanda, mettendo in luce come solo apparentemente la domanda è un atto linguistico a cui segue una risposta: “Le domande sono già risposte, risposte a un problema che si pone: domandare è rispondere ad un problema; ogni risposta a una domanda è dunque una risposta di secondo grado. Si risponde a domande le quali sono specificatrici di un problema” (7).
Apprendere a interrogare la domanda agevola lo sforzo di “abbandonare i sentieri certi e sicuri del conosciuto e dello sperimentato e inoltrarsi per cammini deserti ed impervi”, aiuta a “essere pronti a mettersi in discussione e a mettere in discussione tutto l’universo di convinzioni e convenzioni, rassicurante e tranquillo, in cui abbiamo condotto la nostra vita fino ad oggi”, strada che conduce a “uscire allo scoperto; confrontarsi indifesi, più che con gli altri e con il mondo esterno, con noi stessi”. Domandare è come prepararsi “ad ogni nuova alba, in una perpetua rinnovata verginità dell’emozione: questo, e solo questo, vale la pena di essere o di avere, per essere o avere quello che imperfettamente siamo” (8). Se è vero che abbiamo bisogno di ricordare abbiamo anche necessità di dimenticare e l’oblio (quello selettivo, non quello casuale e disordinato) è una grande risorsa perché rende possibile uno sguardo nuovo e consente di cancellare per un momento il quadro di ogni giorno.
La ricerca della narrazione assente agevola nel prendere atto che il senso della narrazione è “racchiuso nel non detto quanto nel detto e spesso è la sacralità del non detto che illumina e dà senso al detto” (9). Grazie all’oblio selettivo è possibile ricercare la novità e stimolare la creatività; il chiaroscuro prodotto dalla maggiore e minore lividezza dei ricordi aiuta a creare una prospettiva, che si costituisce se i ricordi non sono presenti tutti con forza uguale. La creatività legata al narrare, al farsi raccontare e al raccontare può trovare spazio per manifestarsi se si colloca lungo la dialettica di un’esperienza tra pratica dell’oblio e della memoria “saggiamente intrecciati e basati su una scala di valori che metta al primo posto, appunto, il senso” (10).
In una narrazione che non sia destinata ad annullarsi in se stessa, ritrovare il dettaglio può provocare sensazioni dissonanti. Per questo motivo spesso il passato, inteso come elemento della continuità del sé, cade nell’oblio difensivo e la paura di fare esperienza di nuovi cambiamenti induce a stabilire all’interno di se stessi uno spazio limite nel quale non sono ammessi ricordi discrepanti. Non vi è necessariamente la volontà di negare quanto è avvenuto, si è solo scelto (magari inconsapevolmente) di rivivere alcune esperienze e non altre.
È possibile che un autore di reato non riesca a riconoscere e a narrare quei frammenti di esperienza che non coincidono con l’atto di trasgressione e incontri difficoltà a farli emergere perché non corrispondono agli schemi in cui si sente incasellato e non coincidono con lo stereotipo fissato dal giudizio istituzionale. Per fortuna, la narrazione, se è intesa come spazio dell’immaginazione, è come quell’autobiografia senza fatti suggerita da Bernardo Soares del Libro dell’inquietudine, personaggio di finzione di Fernando Pessoa.
Mettere tra parentesi, seppure provvisoriamente, i fatti, facilita la reciproca non conoscenza di coloro che sono impegnati nel processo narrativo; diviene una conoscenza del tutto particolare se consente a entrambi gli interlocutori ad “andare incontro a se stessi come incontro a un estraneo, qualcuno che si impara a conoscere in quel preciso momento” (11). È a questa condizione che il narrare aiuta a scoprire possibilità che esistevano ma non erano ancora emerse, e si prospetta come una domanda senza punto interrogativo che non ha come finalità quella di fotografare l’esperienza quotidiana e di riferire ciò che abbiamo registrato nella memoria più di quanto lo scopo della fisica sia quello di fotografare la natura.
Nel corso della narrazione non è importante impegnarsi a ricostruire storicamente il passato, perché passato e futuro sono presenti nell’orizzonte del presente narrativo. Quando raccontiamo il nostro passato lo stiamo ricostruendo: in quel momento identifichiamo come significativi alcuni eventi piuttosto che altri (12).
Al contrario del racconto che, apparentemente libero e incondizionato, consente una più o meno ordinata presentazione degli eventi passati perché soggetto a vincoli di natura sintattica (la struttura della lingua) e semantica (regole di verosimiglianza e di coerenza), la narrazione sottopone l’esperienza a continui cambiamenti.
Qui gioca l’irresponsabilità della narrazione direbbe Peter Bichsel, perché mette di fronte non alla verità ma alla possibilità della verità, alla conoscenza quale progressivo svelamento di un’assenza iniziale che si declina attraverso eventi dei quali non siamo mai interamente responsabili.
Siamo però responsabili di come li interroghiamo: ci siamo limitati a fornire una loro traduzione oppure abbiamo contribuito a creare nuovi significati, anche se contraddittori? Attribuire un significato a un evento comporta una sua modificazione: le narrazioni possono essere trasformazioni di eventi, oppure trasformazioni di punti di vista del narratore, il quale vede, inaspettatamente, l’evento da una prospettiva “che altri non possono vedere” (13).
Una narrazione senza narratario
È vero che nel linguaggio comune narrazione può indicare sia l’azione del narrare sia il risultato di tale azione; è accogliendo però la seconda accezione che è ipotizzabile la narrazione come “un’articolazione di segni organizzata gerarchicamente secondo una precisa sintassi interna”, di norma talmente rigida e così precisa che “qualunque modifica alla struttura di un testo narrativo modifica, quasi sempre, il valore della narrazione” (14). In questa prospettiva si giustifica la distinzione tra narratore (colui che narra) e narratario (il fruitore della narrazione) ed è plausibile affermare che non esiste una narrazione senza almeno un narratario.
Pinardi sottolinea che solo in apparenza il narratario riveste un ruolo passivo; anche se è stato sedotto dal narratore e ha subìto la narrazione, ciò è avvenuto perché ha accettato di sottomettersi in quanto gli ritornava comodo, utile, conveniente (15). Se spetta al narratore condurre a sé il narratario, sta a quest’ultimo accettare ciò che gli è proposto: “Un suo semplice rifiuto bloccherebbe l’intera operazione narrativa facendola essiccare e riducendola immediatamente in polvere” (16).
Il lettore esausto che chiude il libro, lo spettatore annoiato che si alza e se ne va dal teatro o dal cinema, la persona infastidita che rifiuta di ascoltare una barzelletta o non vi presta attenzione, l’uditore che rigetta una relazione o un’analisi, tutti costoro sono narratari che rifiutano la narrazione e dunque la bloccano o quanto meno la sviliscono e la destrutturano: basta un solo gesto o un solo monosillabo negativo, un atto di ripulsa, e tutta l’opera del seduttore si svuota (17).
Se il narratario si trova in una posizione iniziale di svantaggio tattico rispetto al narratore, gode tuttavia di un vantaggio strategico in quanto spetta a lui accettare la narrazione e può a sua volta diventare narratore; questo avviene quando utilizza strutture o elementi di narrazione non rifiutate per “impiegarli come matrice di nuove narrazione nelle quali egli stesso non è più il narratario ma il narratore” (18).
Prevedere un cambiamento di ruolo non modifica tuttavia la concezione duale di narrazione: da una parte vi è colui che narra dall’altra colui che riceve la narrazione e che in quella veste rimane comunque un residuo, un personaggio incompleto e incompiuto.
Nella nostra concezione svanisce la dualità tra narratore e narratario. I due interlocutori sono entrambi narratori, anche se si alternano nella funzione e questo avvicendarsi non è basato su regole a priori bensì sullo svolgersi dell’interazione. In una narrazione gli interlocutori ignorano come si svilupperà la comunicazione ed è anche questo che rende possibile far emergere non solo quanto è narrato ma, soprattutto, quanto non viene narrato. Un’interazione basata sul linguaggio non si esaurisce in ciò che viene verbalizzato (19). Durante la comunicazione, frammenti importanti sono destinati a rimanere sommersi ed è quando emergono che si può affermare di essere di fronte a una narrazione. D’altronde come negare che qualsiasi narrazione presenta qualcosa che rimane celato e che attende il momento per manifestarsi? Quando trasmettiamo un fatto o una situazione escludiamo, in maniera volontaria o meno, frammenti di ciò che è avvenuto o sta avvenendo. Questo accade perché li riteniamo dettagli inutili o compromettenti, oppure perché semplicemente li abbiamo scordati.
Se parte di questa narrazione ancora assente affiora durante l’interazione si sta percorrendo una strada comune, si stanno tratteggiando le tappe di un cammino che può condurre verso spazi ancora sconosciuti, superando i limiti del presente che pure non viene negato.
L’interazione narrativa si trasforma, diventa un “processo discorsivo di costruzione di significati attraverso cui le persone conferiscono ordine al disordine, coniugano emozione e pensiero, costruiscono e scambiano il senso della loro esperienza” (20 ).
Senza dimenticare che quando in una narrazione si manifestano parole nuove (e le parole che stanno per sorgere sanno di noi quello che ignoriamo di loro, direbbe René Char) vi sono momenti in cui è dominante il silenzio. Il silenzio – che non è mancanza di parole ma assenza di alcune parole, è la loro ombra – è espressivo al pari del discorso, è la condizione affinché la parola trasgredisca le forme precostituite del linguaggio assumendo una valenza positiva e produttiva. È il silenzio della parola, “dal quale germoglia il linguaggio, il silenzio che il linguaggio maschera, il silenzio che il linguaggio lascia al suo passaggio, perché forse lo abita da sempre” (21). Ascoltare il silenzio è forse lo sforzo più impegnativo di chi è coinvolto nel processo narrativo, così come sovente è difficile accogliere l’oblio come un diritto (e a volte un dovere).
La ricerca della narrazione assente agevola il soggetto nel percepire ciò che è e nell’immaginare ciò che non è ancora. L’interazione diventa una conversazione fra uomini, in cui si “opera una continua costituzione e ricostituzione del sé” e che si tramuta in uno strumento “per scandagliare l’essere umano nella sua complessità mutevole”, per scoprire “l’impurità meticciata dell’uomo-nel-mondo, così lontana dalla purezza ideale e vagheggiata dalla razionalità astratta” (22).
Nella narrazione non è il soggetto astratto a parlare, ma egli riprende un posto centrale perché “non si parla più di corpo in astratto, ma del corpo vissuto, non più del dolore, ma del mio dolore o del tuo dolore”, rispecchiando la dimensione esistenziale “che colora di sé ogni esperienza, anche cognitiva, costituendo la premessa e il canale in cui far circolare anche l’informazione più fattuale” (23).
La conversazione narrativa facilita l’osservatore ad abbandonare il ruolo di interpretante; pur avendo delle regole minime (che possono mutare e devono essere concordate fra gli interlocutori) non richiede condizioni particolarmente ritualizzate, “si articola in codici più o meno flessibili, aperti in vario modo a interessi cognitivi, affettivi e collaborativi” (24). Essendo meno strutturata di altre forme di comunicazione interpersonale si caratterizza come spazio dell’imprevedibilità che “determina, in qualche misura, quello che accade ma non può pre-determinare definitivamente, salvo alcune condizioni, la risposta” (25).
Concordiamo con Paolo Fabbri quando afferma che la metafora della conversazione è importante poiché aggiunge, al problema della determinazione o indeterminazione della storia raccontata, l’indeterminazione della relazione fra uomini che se la raccontano: “Ogni storia è penultima, perché c’è sempre un’ultima storia che sarà la risposta a questa storia, anch’essa penultima rispetto all’ultima risposta” (26).
Per questo la narrazione non conosce ortodossia e, come ci ricorda Hannah Arendt, rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo. Si comprende allora perché dissentiamo da Davide Pinardi quando distingue narrazioni autentiche da quelle false, quando individua narrazioni più vere di altre, quando parla di narrazioni più o meno efficaci. Nella narrazione vi sono solo storie reali.
(1) D. Pinardi, Narrare. Dall’Odissea al mondo Ikea. Una riflessione teorica. Un manuale operativo, edizioni paginauno, 2010, pag. 1
(2) Longo G.O., Il senso e la narrazione, Springer, 2008, pag. 131
(3) Birkhoff J., Francia A., Verde A., Introduzione a Birkhoff J., Francia A., Verde A., a cura di, Raccontare delitti. Il ruolo della narrativa nella formazione del pensiero criminologico, FrancoAngeli, 1999, pag. 13
(4) Longo G.O., op. cit., pag. X
(5) Ricoeur P., Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, trad. it. 1986
(6) Si ha interdefinizione quando si punta l’attenzione non su qualcosa, ma sulla relazione tra una cosa (un concetto, una nozione, un fatto, un evento…) e un’altra cosa (Fabbri P., Una visione “poetica” del pensare e del parlare, in Ceruti M., Fabbri P., Giorello G., Preta L., Il caso e la libertà, Laterza, 1994, pag. 54)
(7) Fabbri P., op. cit., pagg. 54-55
(8) Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine (di Bernardo Soa res), Newton, trad. it. 2006, pag. 76
(9) Longo G.O., op. cit., pag. 62
(10) Longo G.O., op. cit., pag. 58
(11) Pascal Mercier, Treno di notte per Lisbona, Mondadori, trad. it. 2008, pag. 88
(12) Freda M.F., Narrazione e intervento in psicologia clinica. Costruire, pensare e trasformare narrazioni tra Logos e Pathos, Liguori, 2008, pag. 22
(13) Fabbri P., op. cit., pagg. 58-59
(14) Pinardi D., op. cit., pag. 23
(15) Pinardi D., op. cit., pag. 84
(16) Pinardi D., op. cit., pag. 82
(17) Pinardi D., op. cit., pagg. 82-83
(18) Pinardi D., op. cit., pag. 86
(19) Non stiamo facendo riferimento ai messaggi della comunicazione non verbale, la cui importanza non va sottovalutata ma che come criminologo non mi sento impegnato a decifrare altrimenti invaderei lo spazio di competenza dello psicologo
(20) Freda M.F., op. cit., pag. 4
(21) Sinisterra J.S., La scena senza limiti, edizioni corsare, trad. it. 2003, pag. 89
(22) Longo G.O., op. cit., pag. 77. Longo si riferisce al romanzo, ma le sue parole possono adattarsi al significato che alla narrazione attribuiamo in queste pagine
(23) Longo G.O., op. cit., pag. 77
(24) Longo G.O., op. cit., pag. 196
(25) Fabbri P., op. cit., pag. 60
(26) Fabbri P., op. cit., pag. 60