L’uso politico dell’antipolitica, da la Casta a Beppe Grillo
Qualcuno, e non erano in pochi, aveva sperato che Tangentopoli si potesse trasformare in un sublime momento di pulizia, capace di spazzare via l’élite di potere che per quasi cinquant’anni aveva spolpato l’Italia.
Qualcuno, aveva persino osato sognare che fosse giunta l’occasione per colpire il potere economico e con esso far crollare l’intera sovrastruttura culturale. A questo qualcuno, quel periodo riappare ogni tanto nel ricordo come un amore ingenuo; uno di quei languori primaverili che mettono le ali ma fanno perdere la ragione. Al contrario, oggi si è accorto che non era nemmeno sesso.
Caduta la Prima Repubblica niente è cambiato perché non è cambiato il sistema. Malgrado le dichiarazioni di intenti, nessuno teneva a farlo né aveva la convenienza. Non esisteva alcun partito, dopo il crollo, abbastanza credibile da riunire in sé il malcontento generato dalla scoperta di che razza di feccia fosse la classe dirigente italiana, a partire dai capi d’industria per arrivare agli ex comunisti della questione morale anch’essi in parte immersi nel pantano. Ci aveva provato l’allora Lega Lombarda, ma il razzismo contro i meridionali poteva attecchire solamente nel Nord più becero, e quando ci ha riprovato Berlusconi, coperto dall’aura di successo che le sue misteriose fortune gli accreditavano, ha fatto centro. Convogliando su di sé la rabbia ancora viva dello schifo che le inchieste dei giudici avevano portato alla luce, era riuscito a diventare il paladino del cambiamento. Solamente Mussolini prima di lui era stato in grado di cavalcare l’antipolitica con tanto successo. E come il Duce, finanziato da agrari e industriali monopolisti che in seguito avrebbe reso ancora più forti, anche Berlusconi, tanto critico nei confronti della solita politica, si è impegnato a che, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, nulla mutasse nella sostanza. E molti cittadini, beata ingenuità, che si erano bevuti l’antipolitica berlusconiana, di fatto contribuirono con il proprio voto a salvare dalla galera il loro beniamino e a garantire la conservazione del sistema. Arcani che rendono l’Italia il paese degli ossimori, dove un’azione politica può venire definita con un termine che implica la sua negazione.
L’antipolitica è un’abusata forma di massimalismo, che non delude mai chi sceglie di cavalcarla, caratterizzata da una costante: la palese connivenza dei suoi cavalieri con il sistema politico cui pretendono di contrapporsi. Non stupisce quindi che l’ultimo principe azzurro (prima dell’improvvisata di Beppe Grillo) sia Luca di Montezemolo – il ricco per antonomasia, l’uomo che vive di rendita, presidente di varie istituzioni, miliardario della Sacra Famiglia Fiat – e che il penultimo sia stato Silvio Berlusconi. Le due figure simbolo dello strapotere padronale, seppure con tutte le loro differenze: parte integrante, il primo, dell’aristocrazia economica italiana, e icona della insaziabile voracità del villano rivestito, il secondo. Basterebbe per dimostrare, senza possibilità di equivoco, quanto i conflitti che ciclicamente si aprono nella storia italiana sotto la bandiera dell’antipolitica nascano esclusivamente per questioni di matrice economica, e che queste riguardino i cittadini solamente per l’esigenza di trasformarli politicamente in opinione pubblica. Perché l’antipolitica non è solamente un atto politico, bensì lo stimolante con cui la conservazione riesce a dirottare un atavico sentimento del popolo (l’odio per il potere) per garantirsi, con il suo ingenuo consenso, la continuità dei propri privilegi. Una vera e propria tecnica di governo, quindi.
Per comprendere il meccanismo è sufficiente analizzare quanto accaduto, a partire dal polverone sollevato da un libro-saggio, fino all’entrata in scena di un comico.
Che l’uscita de La Casta (edito da Rizzoli) non nascesse sotto un cielo puro lo si è cominciato a capire domenica 20 maggio quando, in singolare sincronia, Sergio Romano e Ilvo Diamanti, rispettivamente dalla prima pagina del Corsera e de La Repubblica, hanno richiamato gli argomenti del libro di altri due giornalisti in forza Rcs, Gianantonio Stella e Sergio Rizzo, e rilanciato a livello popolare la polemica su sprechi e costi della politica. Da quel momento le parole Casta e Antipolitica sono divenute il tormentone dell’estate, al punto che oggi, nella mente degli italiani, i nomi sembrano ormai essersi composti in una massa informe: Montezemolo, Beppe Grillo, i partiti, la corruzione, la legge Biagi (che sarebbe più corretto chiamare legge 30 o, se proprio si vuole darle un nome e un volto, legge Maroni), i fannulloni, le spese, la Casta. Tutto stipato nel grande calderone semplicisticamente definito antipolitica.
E pensare che in un primo momento la situazione appariva chiara: onesti giornalisti avevano sollevato il velo dai privilegi dei politici mostrandone corruzione e sperperi, aprendo la strada all’attacco di Montezemolo che avrebbe colto l’occasione per rilanciare, alzando i toni della polemica. La confusione è sorta in seguito, a fine settembre, dopo il V-Day organizzato da Grillo. Occorre infatti riconoscere che l’ingresso di Beppe Grillo sulla scena politica ha concorso a far cadere molte maschere nel mondo del giornalismo. Prima tra tutte, quella dei corsivisti del Corsera. È da allora che i giornali hanno cominciato a mostrare un’insopprimibile insofferenza nei confronti della nuova protesta di piazza contro i politici. È come se i giornalisti, gli stessi che avevano aperto la polemica, trasformandola in percezione popolare, avessero improvvisamente intuito di avere perso il controllo della creatura cui avevano dato vita a uso e consumo della Confindustria. E avevano ragione di temere. L’intervento di Grillo aveva di fatto creato una frattura tra loro e quella perfetta astrazione che nei loro articoli erano ‘gli italiani’, generando un diverso tipo di protesta. Un movimento alimentato da una propria autonomia. Sotto i loro occhi, un mirato progetto politico a breve termine, di cui l’antipolitica sarebbe dovuto essere solamente un mezzo, si era trasformato in una sistematica eterogenesi dei fini.
La parola Politica, al di là dell’astrazione che ne fanno i dizionari, definisce il rapporto dialettico tra i mondi economico, politico e mediatico, dei quali il primo è l’elemento dominante nella veste di finanziatore e beneficiario terminale. Fino a solo trent’anni fa, era quasi istintivo interpretare le dinamiche sociali e storiche da questa prospettiva. Oggi sembra scomparsa dalla parola scritta. Eppure le domande sono semplici: chi finanzia i giornali? Chi finanzia le campagne elettorali dei partiti?
Analizzando gli articoli sulle nuove leggi del mercato del lavoro e quelli incentrati sugli intrecci tra affari e politica, come in fondo era già accaduto anche ai tempi di Mani Pulite, non è difficile accorgersi di quanto i reali interessi dei grandi monopolisti rimangano sostanzialmente in ombra. Quasi che i rapporti di produzione necessari a seconda del momento storico, non influissero sulla continua ridefinizione di se stessa della politica parlamentare.
Privilegi per i politici sicuramente ce ne sono, e troppi. Così come anche gli sprechi. Ma esistono da sempre e sono il prezzo del teatro democratico che copre l’unica ragione d’essere di uno Stato: il sostentamento di ben altri privilegiati. Il che non nega l’esistenza di un microcosmo politico che segua proprie regole, una propria costituzione non scritta e una gerarchia autonoma; ma una cosa è parlare di giochi di potere interni al campo, e altro non ricordare quali sono le ragioni, ormai comprovate anche storicamente, della loro esistenza. Ed è proprio l’importanza di questa differenza ciò che non traspare leggendo i grandi quotidiani nazionali o i saggi sul modello de La Casta. Una colpevole omissione che diffonde l’impostura della classe politica come unico male e sola responsabile dello sfascio del Paese.
Il saggio di Stella e Rizzo, supportato dai loro colleghi di scuderia editoriale, seppure entrando nello specifico degli sprechi di denaro pubblico attraverso i quali la classe politica alimenta la propria ricchezza e il proprio potere, al di là delle possibili buone intenzioni, raggiunge in concreto il risultato di depistare l’attenzione dei lettori dai veri e propri danni apportati dalle scelte politiche sul tessuto sociale italiano. Scelte che non derivano certo da profonde riflessioni ideologiche pensate per il bene della nazione tutta, bensì da manovre legate alle esigenze del potere economico.
Trasformare in leggi le necessità dei grandi industriali e finanzieri; creare il quadro in cui far muovere il gioco economico del mercato, traducendone i dettami in alti ideali! E’ questo il compito che i capitani d’industria e il grande capitale finanziario pretendono da politica e informazione – in cambio di ricchezza, visibilità e l’illusione di contare qualcosa, per i suoi attori – oltre a quello di garantirsi una costante protezione (attraverso forme di assistenzialismo statale) nei momenti di crisi. Ecco perché risulta difficile comprendere le sparate di Montezemolo, contro la classe politica, in sincronia (a volte, il caso…) con il can can mediatico contro i politici, senza considerare il sovrapporsi, in questo momento storico, di due problemi.
Il primo nato da una dinamica insita nel modo di produzione capitalistico ormai divenuto globalizzato. Il verificarsi di una drammatica e, per quanto prevedibile, tendenza permanente alla crisi economica, ha generato l’urgenza di nuove riforme del mercato del lavoro per permettere una rapida realizzazione del plusvalore, in un momento in cui le merci abbondano e il mercato fatica a riassorbire. E si sa che, in analoghe situazioni (che il linguaggio tecnico definisce crisi di accumulazione di capitale), per gli industriali la maniera più rapida di realizzare i profitti consiste nella possibilità di agire senza i vincoli che regolamentano il mercato del lavoro e di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice. Si giustifica così la ‘richiesta’ della Confindustria di restringere gli standard del Welfare State, defiscalizzare il lavoro straordinario e rivedere le garanzie occupazionali nella prospettiva di aumenti della flessibilità e della precarietà, che i politici, dal canto loro, si preoccupano di giustificare come strumento per combattere la disoccupazione. In pratica è quanto scritto (sotto dettatura?) sul protocollo del Welfare che il governo e i sindacati hanno prontamente firmato e al quale la componente governativa appartenente alla sinistra istituzionale (quella un po’ più vera) rifiuta con veemenza di dare la propria sottoscrizione. Un conflitto decisamente malvisto dal padronato perché rischia di creargli non pochi danni.
E qui siamo al secondo problema, quello che sta all’origine del bailamme che il nome antipolitica vorrebbe descrivere, nato con il risultato delle elezioni del 2006.
Proprio per i motivi elencati sopra, la vittoria del centro-sinistra si è rivelata per la Confindustria una vera iattura. Non tanto per via di Prodi, D’Alema, Rutelli che ormai da anni hanno sposato la causa neoliberista, quanto proprio per via di quel blocco di sinistra, pesante per un dieci per cento dell’elettorato, che testardamente si oppone alla definitiva consegna chiavi in mano del mercato del lavoro alla Confindustria. Condizione che genera una pesante situazione di stallo, tanto da indurre l’intero blocco Politico (economico-mediatico-politico, cioè) a puntare senza indugi, nella paura di dovere affrontare cinque anni di lotte di governo, all’espulsione dei ‘rossi’ mediante la rapida formazione di un blocco di centro o, al peggio, puntare a nuove elezioni che finirebbero inevitabilmente per premiare (sondaggi alla mano) lo schieramento berlusconiano. Tuttavia, una contestazione così diretta rivolta ai politici da parte della classe industriale appare come un elemento inedito, rivelatore tuttavia della relazione tra potere economico e potere politico e, di fatto, della sua reale gerarchia.
Montezemolo, in occasione dell’assemblea annuale dell’associazione degli industriali, ha impostato il proprio attacco – definito a ‘gamba tesa’ da buona parte dei giornali (la ripetizione della medesima definizione su diverse testate sottolinea quanto detto prima riguardo al mondo dell’informazione) – su due livelli: uno di natura economico-sindacale, con la richiesta di un aumento dei fondi pubblici alle aziende, dell’aumento dell’età pensionabile, dello smantellamento dei residui strumenti dello Stato di intervento nel mercato, di detassazione del lavoro straordinario e della conferma della legge 30; e il secondo, che è quanto direttamente interessa al nostro discorso, contro i privilegi della classe politica. Un inedito per la forza di potere dominante, abituata solitamente a spedire messaggi in codice ai politici, a trattare sottobanco e a premiare con l’assegnazione di privilegi. Montezemolo ha puntato il dito su statali fannulloni e sindacati, ha attaccato gli sprechi del sistema politico italiano, indicandolo come la prima azienda nazionale per un costo di 4 miliardi di euro. Si è lanciato contro Bertinotti, reo di avere definito impresentabile il capitalismo italiano (affermazione tra l’altro storicamente comprovata), per infine chiudere con una filippica sulla distanza dei politici rispetto alla società civile, insistendo tuttavia sul nome di Romano Prodi. Il che non è affatto casuale. L’attacco ai politici lanciato su larga scala in effetti non riesce – e sicuramente non lo vuole – a nascondere il forte messaggio mirato a scrollare la sedia del presidente del Consiglio per dargli una sveglia e animarlo contro l’opposizione in seno al suo governo. Una via di mezzo, quindi, tra la sfuriata del padrone e il messaggio in tono mafioso. Una sorta di “muoviti se vuoi rimanere dove sei!”
Non che l’opposizione di sinistra non si sia svenata con la scusa di tenere in piedi il governo e di non fare tornare Berlusconi, con il risultato di lasciare a Prodi la possibilità di promuovere riforme a uso e consumo della Confindustria e abbandonare la classe lavoratrice al proprio destino. Il cuneo fiscale, lo scippo del Tfr, la riforma pensionistica che ha consegnato i salariati nelle mani della rapacità finanziaria (costata sangue e perdita di consenso soprattutto a Rifondazione Comunista), non sono stati piegamento da nulla; tuttavia pare che ancora non sia sufficiente a compiacere un padronato sempre più avido e con ‘l’acqua alla gola’.
L’attacco di Montezemolo è stato calcolato con il bilancino, soprattutto dal punto di vista della tempistica. Appena dopo che Corsera e il codazzo degli altri giornali avevano scaldato l’opinione pubblica, ha lanciato la sua antipolitica, lasciando intendere quale fosse la finalità dell’intero progetto. Nel frattempo La Casta scalava le classifiche editoriali dei best seller. Il popolo era pronto, non c’era bisogno che Montezemolo apparisse in prima persona: ci pensavano Stella, Ostellino, Romano e Panebianco a dargli voce, mentre Scalfari, Diamanti e la compagnia di Repubblica rispondevano e aggiustavano il tiro, accettando – e facendolo crescere – l’ozioso dibattito.
Oggigiorno non è più pensabile fare politica senza una campagna giornalistica che ne preceda l’azione. Sono passati i tempi in cui un regime capitalista aveva bisogno di roteare il manganello e mettere in galera gli oppositori per imporsi. Le democrazie mediatiche hanno imparato a fare leva sul desiderio; il grande motore d’azione individuale e collettivo che, se suscitato e gestito con efficacia, costituisce una garantita formula di governo. Non è un caso che nel fatto in questione Sergio Romano, nel suo primo intervento, quello che ha dato la stura alla stagione dell’antipolitica, abbia rievocato l’ultimo caso di grande indignazione popolare, quando, nel ‘92, all’epoca dell’inchiesta Mani Pulite, la gente era accorsa all’Hotel Raphael per lanciare monetine in testa a quel Craxi che oggi politici e giornalisti cercano di santificare (1), compresi coloro che all’epoca avevano avviato una mortifera campagna mediatica totalmente impostata sull’antipolitica. Galli della Loggia definiva il Parlamento “combriccola di malandrini” dove “tutti avevano rubato”. E li voleva in galera, quei tutti. Oppure Marcello Pera che caldeggiava “una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione,” perché “la rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti”. Per non parlare di Vittorio Feltri, il più agguerrito di tutti: “Ma questa è una pacchia, un godimento fisico, erotico. Quando mai siamo stati tanto vicini al sollievo? Che Dio salvi Di Pietro” (2).
Toni forcaioli, all’epoca scroscianti, e che di fatto rendono poco credibile la definizione di spontaneità popolare in riferimento alle persone che di lì a poco sarebbero andate a contestare, a modo loro, il leader socialista ormai in disarmo.
La Politica italiana (la Triade) del dopoguerra, dopo avere usato la violenza per ridurre il proletariato alla resa, ha nel tempo imparato a usare lo studio della psicologia di massa per garantire la propria conservazione. E, tutt’oggi, i desideri insiti nella natura sociale dei suoi cittadini, quelli che sapientemente evocati garantiscono un immediato successo, sono due: l’odio per i politici e il bisogno dell’uomo forte. Desideri che la demagogia politica ha imparato a suscitare ad arte con altrettante micidiali formule di governo: l’Antipolitica e la Strategia della tensione.
Fino all’ingresso di Grillo si è vista in scena la prima, ma c’è da temere la seconda, qualora il suo successo popolare dovesse aumentare d’intensità. Un saggio di ciò è già stato fornito dal direttore del Tg2 Mauro Mazza, il quale, il giorno dopo il V-Day, ha cantato un evergreen del giornalismo: l’emergenza terrorismo.
Sarebbe sbagliato sottovalutare le parole di Mazza, limitandosi a biasimarle come hanno fatto gli stessi media e qualche politico. Il direttore del Tg2 non ha detto qualcosa di politicamente inusuale. Semplicemente egli è stato la prima vittima dello sgomento dei mestieranti al soldo del sistema, come se fosse scattato con troppo anticipo un collaudatissimo meccanismo di difesa dello status quo. Coloro che lo hanno rintuzzato, in realtà lo hanno fatto solamente perché intempestivo. La qual cosa li renderà ancora più autorevoli quando saranno loro a intonare la carica. Derubricare sbrigativamente sotto la parola terrorismo le critiche della piazza è in Italia una abitudine consolidata. Lo stesso Mastella, nel momento in cui evoca, per motivi diversi da quelli di cui si sta parlando qui, un famigerato quanto celestiale neoterrorismo a suo dire mai scomparso dall’Italia, mostra senza veli la tendenza dei politici a tenere il Paese sotto costante strategia della tensione nei momenti di crisi.
Al contrario, chi detiene l’informazione sa bene che, come il chiasso può suscitare l’indignazione popolare, allo stesso modo il silenzio può sedarla. Il piano in concertazione tra i corsivisti del Corsera e la Confindustria era semplice. Una volta raggiunti gli obiettivi, sarebbe stato sufficiente rimpinzare gli italiani con nuove e succose notizie per nuovamente distrarli e rimetterli in sonno fino alla prossima volta. E invece… Proprio adesso che tutto procedeva per il meglio; adesso che i messaggi trasversali erano partiti e arrivati a destinazione per mille vie, quelle dirette e quelle traverse; adesso che l’opinione pubblica era stata scaldata; adesso che si trattava solamente di gestire la normale routine quotidiana e di mantenere alta la temperatura; adesso che i politici erano stati sollecitati a eseguire; adesso, adesso e adesso… Ecco che accade l’imprevedibile!
E accade proprio attraverso l’unico mezzo cui ancora il potere economico non è riuscito a mettere il bavaglio, a dimostrazione di quanto poco conosca la società che comanda: il web! Nasce lì il fenomeno che in pochi giorni avrebbe sottratto l’antipolitica ai suoi artefici, per rilanciarla con altri significati, conferirle nuova linfa e irrobustire, con una diversa e più sostanziosa promessa, il desiderio degli italiani di porre fine ai privilegi e alle malversazioni dei politici. Un sentimento più spontaneo, carico dell’impressione, agli occhi della gente, di poter concretizzare il proprio malumore. Nessuno si sarebbe aspettato che Grillo decidesse di adoperare come spinta propulsiva l’immenso patrimonio di lettori che da anni seguono il suo blog e di portarlo in piazza. Lo ha fatto, e ne è venuto un bagno di folla che ha gelato la Politica.
E adesso che cadono le maschere, si capisce quanto pretestuose fossero le parole dei giornalisti e di Montezemolo. Quanto fossero politiche e legate in realtà a un meccanismo di conservazione del sistema.
Il motivo della difficoltà in cui adesso si trovano i creatori mediatici di consenso, quelli che un po’ ancora ragionano e non vogliano cedere ad attacchi di panico simili a quello che ha colto il direttore del Tg2, è rintracciabile proprio nei contenuti portati da Grillo. Nel fatto che siano esattamente gli stessi cavalli di battaglia di Montezemolo: i politici corrotti, quelli condannati, la distanza tra Politica e Paese reale, l’incapacità di governare… A esclusione della legge 30, che Grillo, in maniera inesatta (aprendo il fianco, tra l’altro alle facili strumentalizzazioni), chiama legge Biagi (apprezzatissima dalla Confindustria), per il resto le denunce sono le medesime. Ma si capisce facilmente che in bocca a Grillo viaggiano in direzione esattamente contraria, mantenendo in comune solamente il nome, gli argomenti e il malcontento popolare.
Il risveglio è stato brutale. Dalla domenica al lunedì, Montezemolo e gli analisti della stampa dediti al servaggio, si sono visti scippare di mano i loro argomenti. All’improvviso la creatura, che sarebbe dovuta essere solo un mezzo per lanciare avvisi alla classe politica e inviti a consultazioni bipartisan al fine di creare la bufala del Grande Centro – e così realizzare un ulteriore e netto spostamento a destra, con buona pace dei diritti dei lavoratori – aveva sollevato la testa e preso vita autonoma. L’antipolitica si stava trasformando da mezzo a fine. Come per incanto il burattino aveva perso i fili e rivendicava la propria vera identità, si muoveva, camminava da solo e dava le spalle ai suoi creatori. Al punto che, il giorno seguente, acquisiva nuove energie. Incoscientemente, l’inerzia mediatica, soprattutto quella che maggiormente si appella alle viscere dei cittadini, la televisione, insisteva (incurante dello sbracciare dei suoi padroni) nel battere il chiodo dell’antipolitica. Non un caso di pluralismo televisivo, quindi, bensì manifesta incapacità di comprendere che si stava parlando di un’antipolitica diversa da quella dei giorni precedenti. Incapacità di accorgersi che il timoniere era caduto in mare, e che al comando non c’era più il capo della Confindustria, ma un comico che lanciava strali a destra e a sinistra, con parole in grado di alzare l’audience come nemmeno Montezemolo era riuscito a fare. E qualche sondaggio cominciava a mettere in evidenza che un’entrata di Grillo in politica sarebbe pesata un cinque per cento. Ci si può immaginare se Flaubert fosse qui. Probabilmente avrebbe scritto: “Brividi come remiganti ragni cominciarono a percorrere la schiena di chi si accingeva a fondare il nuovo Partito democratico sotto lo sguardo amorevole del padronato” (3).
Gli articoli del dopo V-Day, soprattutto quelli usciti alla fine settembre e all’inizio di ottobre, a firma di coloro che mesi prima denunciavano una rinascita de “la marea del ‘92”, testimoniano la brusca sterzata. L’antipolitica in via Solferino non sembra piacere più così tanto. Sicuramente non questa. All’improvviso è becera, volgare, da mettere paura persino. In realtà si tratta di articoli rivelatori di una debolezza, della difficoltà di usare la solita faccia tosta. Un giornalista che cambia idea a distanza di venticinque anni, perché il potere è girato altrove, può anche passare inosservato ai più. Ma farlo dopo così breve tempo, significa esporsi al ridicolo. Infatti ci vuole classe. I primi corsivi sembrano tremolanti balbettii trasformati in ruggiti per salvare comunque la faccia. Anche perché agire si deve, e l’asino va comunque attaccato dove vuole il padrone.
E così, Gian Antonio Stella comincia a parlare del lento, invisibile crearsi (meno male che lui l’ha notato, però) di una condizione simile a quella che ha preceduto il fascismo; la massa, il demagogo, la rabbia, l’ipnosi collettiva… Eugenio Scalfari ci pensa su l’intera settimana e alla fine, tutto sommato gli dà ragione, anche se per farlo deve prima dimostrare di saperne un po’ di più di Stella. Pierluigi Battista, al solito, fa il coro. E’ come se tutti insieme mettessero il piedino nel dominio del secondo desiderio e cominciassero a titillarlo, un lieve venticello che riporta vecchi odori; appena percettibili, non forti come quelli agitati dalle parole di Mauro Mazza. Certamente no! Rispetto a lui, questi corsivisti hanno stile e cultura, usano la penna. Infarciscono le loro pungenti analisi con nozioni di Storia, richiami datati nello spazio-tempo di precise situazioni che di fatto nulla hanno a che spartire con quella attuale, citano le parole di Luigi Einaudi. Fingono di dimenticare, per esempio, che il fascismo è stato prima di tutto un colpo di mano di agrari e di industriali monopolisti, insieme a un grande opportunista politico, per proteggere i propri interessi, e che solamente in un secondo tempo si sarebbe trasformato nella disastrosa infatuazione di popolo che conosciamo.
Tuttavia, concentrare l’attenzione sul carattere di massa della protesta (colta come denominatore comune tra l’attuale antipolitica e quella portata avanti da Mussolini) centra l’obiettivo di depistare, com’è ormai buon uso, l’attenzione del lettore – soprattutto quello pseudocolto che così ha l’illusione di confrontarsi con idee articolate – sottraendola dalle reali implicazioni politiche degli avvenimenti.
Non a caso, anche le supposizioni riguardo ai riflessi psicologici legati al V-Day e le sue somiglianze con le origini del fascismo, non vanno oltre all’esercizio di stile da salotto: tiepidi temini ben lontani dalle lucide analisi di Antonio Gramsci apparse su Ordine Nuovo nel 1921 e che hanno valore tutt’oggi (4). Articoli che stringono il cuore quando accennano in maniera frettolosa alle caratteristiche della psicologia di massa con toni da bigino freudiano, preferendo, in malafede, analizzare in astratto il fenomeno Grillo senza inserirlo in un contesto più ampio di protesta e di disagio. Un atteggiamento tipico in chi non ha convenienza a interpretare socialmente il fenomeno, e si arrampica sugli specchi per escluderne i significati politici. Che sono assai semplici da comprendere, per quanto gravitino su quella dimensione di inconsapevolezza che muove la scelte politiche di buona parte degli italiani. Tutto sembra ammesso, pur di evitare di comprendere nell’analisi una tendenza che dovrebbe farli riflettere eccome. La logica della gente del V-Day è la stessa di buona parte dei cittadini del resto d’Europa. Una voce disperata che si alza di tanto in tanto, nei piccoli spazi di libertà ancora concessi dalle democrazie; parla in lingue diverse ma esprime il medesimo disagio, che in Francia e in Olanda l’ha condotta a votare No alla Costituzione europea; che a ogni elezione la induce a ribaltare il governo in carica, per poi fare cadere il nuovo al prossimo turno elettorale. Di gente consapevole che destra e sinistra sono politiche diverse al guinzaglio dello stesso padrone, e che non sa più dove sbattere la testa per riuscire a chiedere una politica che torni a porre al centro del discorso l’individuo al posto del Dogma neoliberista. Che, probabilmente – e sarebbe da discuterne seriamente negli spazi appropriati – chiede, più o meno consapevolmente, politiche di sinistra.
Per il resto… Grillo non farà alcun male al sistema. Da questo punto di vista il gruppo Rcs, i politici, e gli industriali, giovani e non, possono dormire sonni tranquilli. Un conto è cambiare gli uomini, un altro il sistema. E Grillo, questo sistema non ha alcuna intenzione di affondarlo. Per poterlo fare gli mancano riferimenti culturali, un pensiero che gli impedisca di colpire in maniera indifferenziata, dai monopoli ai Rom, da Mastella a Cesare Battisti, senza alcuna vera riflessione, calcando tutto dentro il pentolone del suo blog. Per cui ogni cosa ricadrà nel silenzio. La sua gente appartiene in buona parte alla stessa massa informe che nel 1994 aveva creduto a Berlusconi e che probabilmente, il 24 maggio, era d’accordo con Montezemolo. E’ il tipo di persona che non chiede cambiamenti a livello strutturale, che si accontenta di vedere allontanati i politici condannati, senza pensare che un politico condannato e uno che non lo è, saranno sempre una stessa entità finché rimarrà intatto il rapporto di subordinazione della politica al campo di potere economico. Non resteranno nemmeno gli articoli del Corsera e di Repubblica, destinati a bruciare come spazzatura nell’inceneritore mediatico, e il disperato annaspare di giornalisti che tentavano, se non di riannettersi l’antipolitica, di riuscire almeno a sedarla. Grazie a questi ultimi, si potrà sempre dire che è stato divertente.
(1) La storia sono loro di Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 4/2007
(2) citazioni tratte da Mani Pulite, la vera storia di Marco Travaglio e Gianni Barbacetto, Editori Riuniti 2002
(3) Fomà Fomìc! Chi era costui? di Giovanna Cracco, PaginaUno n. 5/2007
(4) Il popolo delle scimmie di Antonio Gramsci, PaginaUno n. 4/2007