Confindustria, Berlusconi e Veltroni: come isolare la sinistra
Se il berlusconismo politico (purtroppo, ne esiste anche un derivato sociale molto forte) è stato un momento di cambiamento strutturale all’interno degli equilibri del Parlamento, il veltronismo ne rappresenta la necessaria reazione. Necessaria non tanto alla società civile (per la quale nulla potrà cambiare in meglio), bensì per la vecchia classe politica ‘politicante’. E tutto il gran daffare che si è dato Veltroni negli ultimi mesi, reso vano dalla caduta del governo Prodi, ha messo in moto una lotta all’interno del campo di potere che si può comprendere solamente afferrando il cambiamento delle modalità dell’agire politico apportato dalla nascita di Forza Italia.
Stretto dalla necessità di essere operativo in tempi brevi, l’ex presidente del Consiglio ha fondato dal niente un partito, arruolando un consistente numero di quadri dalle sue aziende e una nutrita schiera di liberi professionisti e industriali, affamati di potere e di visibilità. Gente priva della più elementare cultura politica, ma ben consapevole dei propri interessi personali. E, se per un verso la sua netta vittoria del 2001, nulla ha mutato della linea politico-economica italiana precedente, l’affermazione parlamentare di una coalizione così congegnata, ha di fatto operato un profondo cambiamento nel concetto di politica. Raggiungendo il risultato di annullare le distanze tra il dominio politico e quello degli affari. Difficile sostenere che la politica abbia mai brillato per autonomia e indipendenza. È vero però che, prima di Berlusconi, il Parlamento si era sempre curato di apparire, agli occhi dei cittadini, un luogo di mediazione credibile tra le parti sociali.
Dopo Berlusconi, senza che la cosa producesse un rilievo critico da parte dei commentatori di professione, le maschere sono cadute e l’antico antagonismo parlamentare si è ridotto a una lotta di consorteria tra la vecchia classe politica, rivendicatrice di una propria ‘aristocratica’ legittimità, e la nuova genia, più sfacciata e aggressiva, piena di conflitti di interesse, non più intenzionata a fare sconti ai lavoratori e ben decisa a impossessarsi, oltre che del comando economico, anche del dominio politico. Il risultato è l’attuale strisciante lotta intestina all’apparato, non confessata, sebbene percepibile, oltre che dalle manovre, tra le parole degli spot lanciati ogni giorno attraverso i canali d’informazione, impostata sulla ricerca del largo consenso popolare e infarcita di centrismo e di vecchi valori reazionari, non ultimi razzismo e papismo. Una lotta che resterebbe invisibile se non fosse per l’ingombrante presenza di Berlusconi, dalla quale occorre prendere spunto se si vuole comprendere il futuro dei lavoratori italiani, alla luce delle manovre politiche nascoste dietro la parola ‘ingovernabilità’. Termine che ha monopolizzato l’ordine del
discorso sin dalla nascita del governo Prodi, diventando il motore trainante del dibattito sulla necessità di una nuova legge elettorale.
Berlusconi è un caso unico di eclettismo economico. Come ormai sanno anche i sassi, il suo dominio spazia dai mezzi di informazione al cinema, dalle assicurazioni alla finanza, dalla telefonia al calcio, al mercato immobiliare. È stato quindi un processo naturale per lui, dopo le elezioni del 2001, entrare in possesso del potere politico e, nello stesso tempo, rendere la propria coalizione un gigantesco comitato di affari a garanzia e protezione, oltre che dei propri interessi, di tutte le esigenze del dominio padronale. Serva a esempio la conclusione del processo sul caso Sme, da cui l’ex presidente del Consiglio è uscito assolto dopo avere varato, a un anno dal suo insediamento, una legge che depenalizzava il falso in bilancio. La prima di un vasto corpo di leggi calibrate sulle sue esigenze difensive, che hanno reso il confine tra la legalità e l’illegalità, una porta spalancata là dove prima rappresentava, almeno formalmente, un limite invalicabile. Un passaggio di cui qualunque imprenditore può agevolmente servirsi per delinquere in piena legittimità.
Questa esperienza di governo, conclusasi nel 2006, a Confindustria è piaciuta moltissimo, tanto da trasformarsi in inconsolabile saudade nell’animo del suo presidente Montezemolo, dopo la vittoria di Prodi. Non che questi non gli andasse bene. A contrariarlo era la sua risicata vittoria al Senato e la presenza di una forte componente (10%) di quella sinistra che i media, per propaganda, definiscono radicale. Una componente di opposizione interna, per quanto sempre destinata a capitolare, che rischiava di creare una situazione di blocco politico, dannosa per gli immediati interessi di Confindustria. Montezemolo si era talmente abituato al nuovo status politico portato dal berlusconismo, che lo poneva in prima linea nella gestione degli interessi della propria categoria, da non riuscire più a sopportare – in un momento in cui per il potere padronale è diventato vitale, per non perdere profitti, scaricare la crisi del mercato sulle spalle del lavoratore dipendente – noiose lungaggini parlamentari. Che magari fanno tanto democrazia, ma che sono di impedimento alle grandi possibilità di arricchimento garantite da una situazione di controllo assoluto dei giochi politici ed economici. Per quanto la componente neoliberista, maggioritaria tra la sinistra progressista del nuovo governo, fosse evidentemente protesa a favorire i suoi interessi di categoria, alla lunga Montezemolo non ha potuto fare a meno di considerare che la nuova esperienza di governo fosse da chiudere il più rapidamente possibile. Il successo elettorale del berlusconismo aveva reso ben chiaro ai padroni del vapore che in Italia erano sorti i presupposti per abbattere definitivamente ogni tipo di opposizione parlamentare.
La ‘buona’ riuscita di Berlusconi, e quanto di buono fatto per Confindustria dal governo Prodi, permettevano tre considerazioni. Primo, che a un 50% di elettorato non importava che un imprenditore diventasse capo del governo per fare gli interessi propri e della sua categoria nel totale sprezzo dei più elementari principi democratici. Secondo, che con Berlusconi presidente l’altro 50% protestava volentieri insieme ai sindacati contro la palese illegalità di un presidente-imprenditore. Terzo, che se la stessa politica di Berlusconi veniva attuata da Prodi, nessuno protestava, a esclusione degli ostinati partitini della sinistra, che insistevano a volere sensibilizzare il Parlamento sul tema dell’impoverimento della popolazione e del dilagare della precarietà lavorativa.
Il Partito democratico è il risultato di queste elucubrazioni. Così come lo è l’inondazione mediatica della parola ingovernabilità.
Per comprendere il significato di questo termine, occorre declinarlo secondo le esigenze economiche di chi lo pronuncia con tanta insistenza. Rendersi cioè conto della gravità dell’attuale congiuntura storica in cui il capitalismo vive un momento di implosione. Le varie riforme del mercato del lavoro, la privatizzazione del mercato pensionistico culminato con l’esproprio del Tfr, l’aumento della precarietà lavorativa, la defiscalizzazione degli straordinari, l’abbassamento del cuneo fiscale, l’aumento delle ore di lavoro sono messaggi fin troppo chiari di un violento attacco classista posto in atto dall’élite dirigenziale ai propri salariati, al fine di conservare intatti i profitti e fronteggiare la crisi. E notare la linea di continuità, a tal proposito, che ha contraddistinto il lavoro parlamentare, malgrado l’alternanza del governo di centro-sinistra a quello di centro-destra, stabilisce senza possibilità di dubbio a che cosa alludano Montezemolo, i rappresentanti dei due partiti di maggioranza e i vari analisti politici, quando chiedono una condizione politica di governabilità. Il governo Prodi, malgrado l’opposizione interna, è riuscito a varare un protocollo sul welfare che rende la definizione ‘classista’ un eufemismo da salotto. Ha assecondato tutti i desiderata del potere economico; eppure, la difficoltà con la quale ogni volta è riuscito a farlo, ha dimostrato al padronato che il giochino di usare un governo di centro-sinistra per imporre riforme di destra, ormai non funziona più. Era riuscito in precedenza, ai tempi del pacchetto Treu, con la complicità del sindacato, ma non è valso oggi, con quella componente di sinistra intenzionata a non perdere eccessivamente la faccia di fronte al proprio elettorato. Prodi è caduto lasciando parte del lavoro incompiuta. E doveva necessariamente cadere, nel momento in cui era lampante che le enormi concessioni politiche già elargite da Rifondazione, Comunisti e Verdi erano diventate l’ultimo cedimento possibile, prima di perdere completamente credibilità.
Adesso, al prossimo governo non resta che chiudere definitivamente il discorso: cancellare i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, peggiorare la Bossi-Fini, privatizzare il più possibile, mettere mano alla Costituzione e alla riforma giudiziaria (la tanto sospirata separazione delle carriere). E farlo nella migliore situazione di ‘governabilità’ possibile.
Restano sul tavolo due problemi: il primo riguarda il modo in cui isolare la sinistra; il secondo è la presenza a destra di Berlusconi.
In effetti, per le logiche padronali, il berlusconismo, inteso come fusione dei due campi di potere politico ed economico in uno solo, sarebbe perfetto se, per paradosso, non annoverasse tra le propria fila un personaggio impresentabile quale è ormai diventato il suo fondatore. E, certo, non per la volgarità, la furbizia, il suo ‘buffo naturale’, la dubbia provenienza delle fortune economiche e e impennate anarchiche, ma proprio per il conflitto di interessi che fatalmente incarna senza finzione né maschere. Una caratteristica che, se lascia indifferenti i suoi elettori, contemporaneamente infiamma l’altra metà degli italiani che, nel nome dell’antiberlusconismo, si raccoglie nel ventre di quel centro-sinistra che ha avuto come unico merito la capacità di mostrarsi come antidoto credibile a Berlusconi, e di cavalcare, quindi, una logica che gli ha permesso di vincere le elezioni del 2006.
In questo si annida lo stallo dell’ingovernabilità italiana. In Francia, Sarkozy è riuscito a massacrare i lavoratori con gli applausi della sinistra ‘progressista’, compresa quella italiana; in Germania, la Merkel ha creato la coalizione mista di centro, suscitando impotente invidia negli industriali nostrani.
In Italia, proprio per via della semplice presenza fisica di Berlusconi, tutto ciò non è possibile. Il Paese sarà sempre ingovernabile, finché la fusione dei due campi (politico ed economico) sarà capitanata dall’uomo che li incarna in maniera lampante e visibile in un conflitto d’interesse personalizzato, costantemente presente, palesemente ingiusto (quando non illegale), tanto da spaccare, senza soluzione di continuità, l’elettorato in due.
Non è difficile comprendere come il problema riguardi la forma e non la morale. Se Berlusconi esce indenne da un processo, nel 2008, grazie a una legge pensata, scritta e votata apposta dal suo stesso governo nel 2002, l’ingiustizia emerge in maniera lampante e diretta. Non accadrebbe nel caso che la stessa legge, buona comunque a salvare nell’ombra tanti imprenditori, venisse proposta da Prodi o, pensando al prossimo futuro, da Veltroni. Cioè politici non direttamente riconducibili a una personale convenienza a farla votare.
Montezemolo ha capito benissimo che, per paradosso, il fondatore di Forza Italia è il vero problema del berlusconismo, la causa prima dell’impedimento all’instaurazione di quel modello di politica senza opposizione (perché questo intendono giornali e buona parte dei gruppi politici quando chiedono una larga coalizione di centro) che, non a caso, televisioni e giornali italiani, con articoli che sembrano indicazioni di voto camuffate, descrivono come fulgido esempio di governabilità. Ma come sarebbe possibile, in Italia, costruire una larga intesa, finché la coalizione di centro-sinistra continua a raccogliere voti, non per i propri principi politici originari (da anni definitivamente cancellati dall’agenda) ma in una prospettiva unicamente antiberlusconiana?
Come sarebbe possibile al centrosinistra firmare accordi con Berlusconi, se la propria garanzia di sopravvivenza politica dipende dal fatto di contrapporvisi? Il Partito democratico nasce per permettere al padronato una silenziosa e definitiva presa del potere. Per giungere alla quale occorre attuare un doppio passaggio: annientare definitivamente il residuale pensiero di sinistra rimasto in Parlamento, evirandolo culturalmente dei suoi contenuti politici, dopo aver mostrato al Paese, con la massiccia complicità dei media, la finzione di una pacificazione sociale in essere. È il patto di Faust. Il giuramento di fedeltà a chi ha nelle mani la proprietà dei mezzi di produzione,
i giornali, la televisione (privata e di stato), le radio; di chi ha in mano le banche. E che rende il veltronismo una reazione al berlusconismo, solamente a livello di apparato – in seno alla lotta tra vecchia e nuova classe politica – ma non certo riguardo ai principi politici. Un berlusconismo senza Berlusconi, la cui cifra politica è il gioco delle tre tavolette. Qualche commentatore dice che la logica di Veltroni consiste nel governare l’esistente. Ma è sufficiente ascoltare la prosa baricchiana’ dei suoi discorsi per comprendere che quel che vi si cela dietro più che l’esistente è l’esatta sua negazione.
Il piatto del disconoscimento di un antagonismo sociale di classe, è stato servito caldo in un’intervista rilasciata al Corsera da Veltroni: “È tempo di uscire dalla contrapposizione tra impresa e lavoro […] L’imprenditore è un uomo che rischia, che ci mette del suo. È tempo di uscire dalla contrapposizione culturale”. Tocca a lui il gioco sporco, in grado di garantire al vecchio politico ‘politicante’ il ritorno al comando del proprio campo di potere. Ma per riuscire, deve percorrere la strada aperta dal berlusconismo, e farlo meglio dello stesso Berlusconi; l’unica via possibile agli occhi del Potere economico reale del paese. La strada che vuole la violenza dell’indifferenziato politico come sola logica di potere praticabile, che trasformi la sinistra progressista nel credibile sedativo di ogni forma di protesta. Se al veltronismo riuscisse l’impresa di mascherare politicamente quanto è funzionale all’economia, il Pd raccoglierebbe il duplice risultato di restituire alla politica il vecchio ruolo sovrastrutturale al ‘soldo’ del potere economico e di rintuzzare la carica della nuova classe politica imprenditrice. Il prezzo da pagare è la garanzia di tenuta una volta approdato al governo. Si spiega così la commedia della concertazione, del dialogo tra le parti (politiche, come è ovvio, non sociali) inscenata da Veltroni (anche in netta contraddizione con l’operato di Prodi), sin dal giorno della sua elezione alle primarie.
Quanto detto, riguardo alla necessità di questo nuovo magma politico, nato come clone ‘nobile’ del berlusconismo, di sganciarsi dalla sinistra, è illustrato come meglio non sarebbe possibile dalla tronfia dichiarazione, lanciata dopo il tonfo di Prodi, di correre da solo alle elezioni, anche a costo di perdere drammaticamente. Nel frattempo, Montezemolo sghignazza, muove i fili, declina inviti di candidatura e lancia messaggi. Tiene in scacco la politica italiana e gioca su due tavoli da cui uscirà comunque vincente: quello del veltronismo, se tutto va bene; o, in caso contrario, quello del berlusconismo con Berlusconi, la cui presenza non costituirebbe più un problema, di fronte a un centro-sinistra ormai balcanizzato e impossibilitato a capitalizzare l’odio elettorale per il rivale di sempre.
Per il resto, date le opzioni, ai lavoratori e al ceto medio in caduta libera, rimasti privi di una rappresentanza parlamentare, non rimane che auspicarsi la fortuna di altri cento anni di sana e prospera ingovernabilità.