di Luciana Viarengo |
Recensione di Riflessi in un occhio d’oro, Carson McCullers
Anche questa volta, la fame di buona letteratura non basta: per gustare il piatto del giorno è necessaria una certa attitudine alla ricerca archeologica, dal momento che anche questo libro non sembra facilmente reperibile, nonostante sia stato pubblicato da Guanda nel 1991 e da TEA nel 1996.
Volendo escludere da parte della sottoscritta una tendenza alla necrofilia bibliografica, la deduzione più ovvia è che nel dimenticatoio editoriale finisce, purtroppo, della gran buona scrittura. Il mercato dell’usato o, per chi è immune dal senso del possesso, le biblioteche possono costituire un valido rimedio alle lacune della nostra editoria.
Il libro che questa volta merita una ricerca è Riflessi in un occhio d’oro di Carson McCullers.
Un titolo familiare a molti soprattutto grazie all’omonimo film di John Houston del 1967, nel quale a dare espressione al tormento del capitano Penderton era lo sguardo torbido e corrucciato di Marlon Brando, mentre quello violetto e vacuo di Liz Taylor illuminava il personaggio di Leonora Penderton, sua moglie.
L’occhio d’oro del titolo è quello di un pavone dipinto ad acquerello, un immenso occhio d’oro e nell’occhio, dirà l’autore del dipinto, il riflesso di una cosa meschina,ma tutti gli occhi – dorati, azzurri o violetti che siano – hanno un ruolo importante in questo romanzo dove la vista sembra essere fra tutti e cinque il senso più adatto a sublimare le pulsioni.
In un ambiente nel quale il conformismo la fa da padrone, le relazioni fra i personaggi, i loro desideri a distanza, trovano la loro espressione più intensa in un voyeurismo che può avere, di volta in volta, la durata e l’intensità di un amplesso, o la fulminea rapidità di un affondo di lama, con sguardi tesi a carpire o a esprimere molto di più di quanto potrebbero le parole.
Lo stesso sguardo del narratore è indispensabile per la completa definizione dei personaggi, laddove la profonda sensualità che permea la storia pretende di manifestarsi anche attraverso la fisicità di ciascuno di loro.
Ecco allora il soldato Williams, con occhi d’ambra e di nocciola dalla silenziosa, intensa espressione che si scorge negli occhi degli animali, emergere in tutta la sua innocente amoralità di essere primordiale; il capitano Penderton, occhi di un blu trasparente e volto tagliente e aguzzo, delinearsi tormentato dalla propria bisessualità e frustrato dall’impotenza, ai limiti della crudeltà; sua moglie, Leonora, con la placidità sognante di una madonna, i capelli ramati e i seni tondi fra i quali si allungano delicatamente le vene azzurrine, stagliarsi nuda contro il bagliore del camino, sensuale come un animale al quale nulla importa se non soddisfare i propri semplici bisogni primari.
A completare la lista dei personaggi, il maggiore Langdon, amante di Leonora, dall’espressione florida, allegra e amichevole; sua moglie Alison, una piccola donna bruna, molto fragile, con un grande naso e una bocca sensibile; il filippino Anacleto, giovanissimo cameriere omosessuale di Alison che ha per lei le stesse attenzioni di una madre amorevole e per il maggiore Langdon una divertente e dispettosa mancanza di rispetto, con l’espressione innocente di un bimbo malaticcio, intelligente, atterrito. E’ lui che conversando con Alison dipinge il pavone dall’occhio d’oro.
La vicenda si svolge in una guarnigione militare che, come precisa la scrittrice fin dalla prima riga, in tempo di pace è un luogo noioso. Ci sottolinea, nel primo paragrafo, la monotonia, il tedio, la rigidità, l’isolamento e la necessità, nella vita militare, di segnare il passo di chi ti sta davanti.
Però, alla terzultima riga ci specifica con noncuranza, che in un certo fortino del Sud, due anni prima è avvenuto un omicidio, elencando i protagonisti della tragedia con lo stesso pathos con il quale citerebbe gli ingredienti di un pancake.
Questa stessa ingannevole leggerezza ci accompagnerà durante tutta la lettura, poiché il narratore onnisciente sembra quasi distaccato, e quando introduce situazioni scabrose lo fa con nonchalance, con un tono informale che fa da contraltare agli istinti torbidi che taluni personaggi scatenano nel cuore di altri, cosicché si finisce per considerare l’epilogo drammatico come assolutamente inevitabile, naturalmente scritto nel destino di ciascun personaggio.
Solo a volte Carson McCullers semina qua e là brevi e incisivi giudizi morali, quasi sempre negativi, circa la stupidità o la grettezza di qualche personaggio. Sono interventi forse non sempre necessari, perché i fatti narrati sono sufficientemente esplicativi da permettere al lettore di formulare un giudizio proprio. Ma l’intrusione è talmente sporadica e rarefatta da non risultare sgradevole.
In una caserma all’estremo sud del Stati Uniti vive il soldato William, un ragazzo taciturno, apparentemente privo di qualsiasi emozione, competente nella cura dei cavalli e quindi addetto alle scuderie, dove si prende cura anche di Uccello di Fuoco, il bellissimo cavallo di Leonora, animale poco gradito al capitano Penderton.
Cresciuto in una casa abitata esclusivamente da uomini, nella quale vigeva il terrore per le malattie trasmesse dalle donne “che rendevano gli uomini ciechi, storpi e votati all’inferno”, il soldato William non ha mai visto una donna nuda finché non viene assegnato per una giornata a servizio del capitano Penderton, perché si prenda cura del suo giardino.
Fin dall’accenno a Uccello di Fuoco e la successiva, incauta potatura di una quercia, si intuisce che il destino di William è quello di indispettire il capitano Penderton, al quale tempo prima, nel fortino, aveva servito del caffè, versandoglielo maldestramente sull’impeccabile completo di seta cinese. Ma l’inettitudine imputata a William è in realtà soltanto un pretesto; il vero motivo dell’irritazione di Penderton è costituito dall’attrazione che questi prova nei confronti del giovane soldato. Dal canto suo l’ignaro soldato William subisce, secondo una logica più prevedibile, una irresistibile fascinazione per Leonora al punto che, dopo averla vista dalla porta spalancata di casa mentre si spoglia davanti al camino e sale nuda le scale con l’unico scopo di indispettire il marito, non riuscirà più a fare a meno di quella visione e passerà le notti spiando la vita della coppia dal giardino, fino a quando Leonora non si addormenta e lui può entrare nella sua camera, silenzioso come un ninja, per restare a fissarla assorto fino all’alba.
Anche in questo caso, Carson McCullers ci presenta questa insolita situazione voyeuristica come se non ci fosse assolutamente nulla di anomalo, come se questo capitasse ogni notte in centinaia di case. Del resto sappiamo quanto sia stata strana la vita familiare di William e scopriremo anche che tempo prima ha ucciso un uomo senza motivo e senza il minimo senso di colpa: è ovvio che dobbiamo adeguare i nostri canoni di giudizio.
La vicenda avrebbe potuto avere ben altri sviluppi se Leonora si fosse improvvisamente destata scoprendo il soldato nella sua assorta contemplazione, ma lei ha il sonno molto pesante, Penderton resta chiuso nel suo studio a sciorinare carte geografiche e a ingollare whisky e seconal finché i suoi fantasmi non si placano, e William può godere indisturbato della sensuale visione di una Leonora dormiente, aspirarne il profumo, assorbirne il calore lussurioso.
L’unica ad accorgersi di questa nera figura di uomo che esce furtivamente da casa Penderton è Alison Langdon, durante le sue tante notti insonni, ma poiché la poveretta soffre di gravi disturbi nervosi ed emotivi, la malaugurata idea di parlarne a Penderton non farà che aggravare la già critica opinione che tutti hanno di lei.
Secondo una certa logica narrativa, chi altri se non il capitano dovrebbe dar credito a Alison? E non solo da un punto di vista tematico. Questi due personaggi, infatti, sono i soli a soffrire veramente per ciò che costituisce il tema centrale del libro: l’alienazione generata dal conformismo. Tuttavia, questa sofferenza non li accomuna anzi, li divide ulteriormente. E Penderton, che pure non solo conosce i tradimenti di Leonora ma che resta addirittura affascinato dai suoi amanti, non presta ad Alison il minimo credito. Del resto, giudica matte tutte le donne al di sotto dei quarant’anni. Si interrogherà, a posteriori, sulle motivazioni inconsce che l’hanno spinto a ignorare i suggerimenti di Alison e ad attendere un’innegabile evidenza, che lo porterà a suggellare con forza binomio Eros e Thanatos. di cui il libro è impregnato, in un vano tentativo di rimuovere il proprio desiderio uccidendone l’oggetto.
Il destino del capitano è segnato dall’inizio, essendo dominato da pulsioni autodistruttive che rivolge verso l’esterno, basti vedere la maniacalità con cui ogni sera prepara la scrivania per i suoi studi, la sia cleptomania e gli improvvisi accessi di crudeltà nei confronti degli indifesi – il sadismo con il quale frusta il cavallo della moglie e il lontano episodio nel quale raccoglie un gattino per la strada e lo coccola a lungo sentendolo ronfare tra le mani per poi buttarlo improvvisamente in una cassetta postale, sono sufficienti ad alienargli la simpatia di qualunque lettore.
Il suo corrispettivo femminile è Alison. Ugualmente tormentata e oppressa dal suo ruolo e dalla rigidità del contesto sociale, perennemente malata, depressa per la morte di una figlia neonata, incompresa da un marito totalmente aderente al sistema militare e disgustato da ogni debolezza o malattia al punto da tradirla con Leonora subito dopo la morte della figlia, Alison rivolge contro se stessa il proprio istinto di morte, fino al punto da tornare a casa una sera dopo una cena dai Penderton e tagliarsi i capezzoli con un paio di forbici da giardinaggio. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a una crisi di genere, con tutta la forza scatenante di una femminilità e di una maternità frustrate.
Ciò che maggiormente colpisce, in questa tragedia annunciata, è la profonda solitudine nella quale i personaggi si muovono. Siano essi rappresentazione dell’Id freudiano, come nel caso di Leonora o del maggiore Langdon, per i quali edonismo, vigore e insensibilità sembrano essere comandamenti inderogabili, oppure vittime del conflitto tra il proprio essere e il contesto sociale, come Penderton e Alison, nessuno ha conforto da nessuno, sebbene tutti siano a conoscenza delle debolezze di tutti. Neppure Anacleto, che con la sua sensibilità e la sua sollecitudine è colui che più di ogni altro sa avvicinarsi al malessere di Alison – non a caso antitesi del modello mascolino che Langdon incarna e che Penderton finge di incarnare – riesce a strapparla dalla sua spirale di dolore. Tutti soffrono di una sorta di analfabetismo affettivo.
La claustrofobica ambientazione del fortino, con le case tutte uguali, i giardini curati e il silenzio delle strade interrotto dalla tromba che scandisce i ritmi di vita militare, bene rappresenta i recinti sociali e il conformismo di chi pretende di rispettare questi recinti anche tradendo se stesso.
Di questo parlano anche pagine che sono tra le migliori del libro: quelle dedicate alla corsa di Penderton – pessimo cavaliere che dai soldati delle scuderie è soprannominato Fanny la Floscia – in sella all’odiato Uccello di Fuoco. Il cavallo, che il capitano cerca invano di umiliare con una serie di piccole cattiverie che porteranno l’animale a reagire in modo incontrollabile, è il simbolo degli istinti più profondi, della forza vitale che Penderton cerca di sottomettere alle regole e che prenderà comunque il sopravvento, sotto forma di una folle corsa nella quale Uccello di Tuono si lancia senza più rispondere ai comandi. Non a caso, nel momento della ribellione dell’animale l’uomo sente di aver perso ogni controllo e solo allora, formulando il pensiero “sono perduto”, si sente vivo. Punirà il cavallo per questo, legandolo a un albero e frustandolo senza pietà, fino a cadere sfinito in una sorta di deliquio. La scena successiva non si discosta dal simbolo: apparirà accanto a lui l’oggetto del desiderio, il giovane soldato William, solito trascorrere qualche ora di libertà prendendo il sole nudo nei boschi, che senza degnarlo di uno sguardo, slegherà Uccello di Fuoco e lo porterà via, abbandonando il capitano sconvolto e malconcio.
Del romanzo del sud, Riflessi in un occhio d’oro non rispetta tutti i canoni; il tono distaccato del narratore rende difficile provare simpatia perfino per i personaggi più deboli e rende l’atmosfera più asettica di quella a cui ci ha abituato la letteratura “sudista”, tuttavia riesce a trasmettere la medesima sensazione di torbido malessere attraverso l’immobilità di certe situazioni e la percezione della claustrofobica vita dei personaggi, che anche davanti alla morte e ai conseguenti lampi di consapevolezza non hanno la capacità di riscatto, né quella di sottrarsi a un destino da tragedia greca.
Carson McCullers ci induce a riflettere sulla negazione di se stessi e sulla rigida osservanza dei modelli maggioritari; siano questi di tipo sociale, politico, sessuale poco importa. Il danno è annunciato per i prigionieri passivi di un mondo chiuso, fallocentrico e conformista di cui il contesto militare, in questo caso, è l’ottimo microcosmo rappresentativo.
Riflessi in un occhio d’oro, Carson McCullers