Sabrina Campolongo
Recensione de Il canto dell’essere e dell’apparire, Cees Nooteboom
Si usa, a volte, l’espressione ‘libro-mondo’ per descrivere quei romanzi che puntano oltre la storia narrata, che mirano a interrogare l’esistenza stessa, al di là e attraverso le vicende dei suoi protagonisti, coinvolgendo il lettore nella ricerca di un senso più alto, più profondo, universale. Raramente però capita di poterla usare per un testo di meno di cento pagine, un racconto lungo più che un romanzo, leggero nella forma quanto nella sostanza, lontanissimo da un trattato filosofico, velato di quell’elegante ironia che rende la lettura piacevole, quasi spensierata, fino a che non ci rendiamo conto che l’autore ha avuto in mente ben di più, che di raccontarci una storia.
Questo è il talento di Cees Nooteboom, scrittore olandese pubblicato in Italia da Iperborea, che nel suo Il canto dell’essere e dell’apparire riesce, in un libretto che si legge in due ore, a intrecciare ben due romanzi, di cui uno potrebbe essere solo la cornice dell’altro, se non fosse che i piani della realtà presto cominciano a vacillare e a fondersi, rivelando sotto la superficie una trama ben più complessa. Ma andiamo con ordine.
La prima storia è quella di uno scrittore olandese contemporaneo che affronta un blocco creativo, e si ritrova, di malavoglia, a confrontarsi con un secondo scrittore, all’apparenza sua antitesi, uno scrittore di successo che sforna un libro dietro l’altro, sul senso dello scrivere, dell’aggiungere altra realtà fittizia a una realtà in cui tutto sembra già essere stato vissuto e narrato. Da qui si diparte il secondo intreccio, costituito dal racconto che il primo scrittore sta cercando di scrivere, la storia, ambientata nell’Ottocento, di un colonnello bulgaro, eroe di guerra tormentato da feroci incubi, che si innamora della moglie di un medico, suo complice e antagonista al tempo stesso.
Su questo doppio livello narrativo, semplice soltanto all’apparenza, l’autore costruisce, quasi in sordina, un terzo piano, trasversale, che coinvolge il lettore in una complessa rete di simboli e rimandi che hanno come filo conduttore il pensiero filosofico di Schopenhauer, in particolare la sua opera maggiore, Il mondo come volontà e rappresentazione. L’intento filosofico è più o meno dichiarato, già nelle prime pagine, quando il personaggio-scrittore si pone una domanda importante, mentre sta ancora cercando di delineare il personaggio del colonnello: “Come puoi accorgerti, guardando qualcuno, che è un ammiratore di Schopenhauer?”.
Il lettore distratto però potrebbe dimenticarsene – sebbene il filosofo tedesco sia richiamato in altre occasioni – perché dal momento in cui la vicenda del colonnello prende il via l’attenzione si focalizza sulla storia, sugli incubi di sangue e cadaveri smembrati che lo assillano e imbarazzano al tempo stesso, come se in questo rigurgito notturno della sua coscienza si potesse scorgere una sorta di tradimento dei suoi valori, sul suo rapporto ambiguo con un medico che sembra molto meno segnato di lui dalla guerra – forse semplicemente più in pace con se stesso, dal momento che il suo ruolo è quello di provare a salvare gli uomini e non di ammazzarli – e dell’incontro con l’enigmatica moglie di lui, una donna che appare subito “diversa da tutte le altre donne”, sfuggente e fatale, ma anche malata, forse pazza.
Eppure, la domanda su Schopenhauer è tutt’altro che gratuita e merita una riflessione, dal momento che una domanda molto simile deve essersi posto lo stesso Nooteboom; come trasmettere il pensiero di Schopenhauer in un romanzo, senza enunciarlo, come farlo emergere dalle pagine senza tradire la natura dell’opera stessa, senza farne un saggio o un manifesto? Per esempio partendo da uno scrittore, e dalla sua crisi verso il suo ruolo e quello della letteratura. Se infatti, come enuncia Schopenhauer, “tutto quanto il mondo include o può includere è inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è rappresentazione”, la letteratura non può che collocarsi come rappresentazione di una rappresentazione. Qual è, dunque, la realtà di uno scrittore, e cosa può offrire, quel tipo di realtà, più della realtà oggettiva?
“C’erano scrittori convinti che un loro racconto chiarisse qualcosa della realtà stessa, ma quale ne era l’utilità? Quella chiarezza avrebbe poi fatto parte, semplicemente, della realtà del lettore, e cos’era il lettore, in fin dei conti, se non il possibile soggetto di un racconto?”. Se si prende il punto di vista di uno scrittore, il confine tra soggetto e oggetto, tra narratore e narrato, tra realtà e narrazione tende ad assottigliarsi fino a svanire, verso un’unione che non è però identità: il soggetto presuppone l’oggetto, e viceversa. Anche il lettore partecipa di questa fusione, che ne sia consapevole o meno, e non solo come fruitore della narrazione.
“Il suo racconto era già stato ovviamente scritto qualche centinaio di volte, dalla vita stessa però”. Di fronte a tutto il già scritto, da altri ma soprattutto dalla stessa realtà, lo scrittore viene colto da una dolorosa paralisi. A che scopo ostinarsi a scrivere storie, qual è l’utilità di offrire il riflesso fittizio di una realtà che è già sotto i nostri occhi?
Alcune possibili risposte gli vengono fornite, senza troppi giri di parole, dal secondo scrittore, che le definisce ‘prove materiali’, per sottolineare il fatto che non è intenzionato, lui, a farci della filosofia: “Primo: per quanto se ne dica, è divertente. Gli idioti che sostengono di soffrire tanto a scrivere ne hanno fatto un rituale masochistico. E dunque ne godono anche loro. Secondo: ti pagano per farlo, e tu hai le mani bucate […]. Tre: serve a diventare famoso, e anche essere famoso in Olanda è essere famoso. […] E, cosa molto importante, quattro: devi pur far qualcosa, e secondo me non sai fare altro”.
L’ultima ragione in particolare, sebbene tutte siano in fondo più o meno condivisibili, è di sicuro la più convincente. E in effetti, pur affermando di non poterlo fare, pur mettendo continuamente in dubbio il suo ruolo e il senso di quello che dovrebbe fare, lo scrittore sta scrivendo la storia del colonnello e del medico, così come questa gli appare, così come emerge dall’ombra, un pezzo alla volta: una mostrina, uno stetoscopio, una frase che non sa spiegare, un brivido sensuale all’ingresso in scena del personaggio di Laura… Mentre la sua razionalità gli pone un ostacolo dietro l’altro, la volontà dello scrittore – che non è da intendersi come un volere cosciente, ma nell’accezione che ne dà Schopenhauer, come volere cieco, che agisce attraverso il corpo, una volontà di vivere che per lo scrittore è un tutt’uno con la volontà di scrivere – lo porta a inseguire la sua storia.
Probabilmente questo dovrebbe bastargli, per andare avanti – “Non rifletterci sopra”, gli consiglia l’altro scrittore, “scrivere è un lavoro”, quello di “raccontare una storia dall’inizio alla fine” – forse gli basterebbe abbandonarsi alla sua volontà di scrivere, ma il nostro scrittore invece non si dà pace, e continua a cercare una “dimensione nuova” della scrittura, che dovrebbe essere, per lui, “metafora inversa” della realtà, non cioè trasposizione simbolica di immagini, ma ritorno al simbolo che, nelle parole di Goethe, è già tutto l’esistente.
La contrapposizione tra le due visioni della scrittura, quella del ‘bravo artigiano’ e quella, ben più vaga, dello scrittore paralizzato dal dubbio, diventa ancora più chiara quando la ritroviamo traslata nel secondo triangolo del romanzo, quello costituito dal colonnello, dal medico e da Laura.
Mentre il medico l’ha sposata per “l’effetto che avrebbe fatto sul mondo circostante e, soprattutto, per poter osservare quell’effetto”, tanto che il colonnello ha l’impressione che “il suo piacere, la sua esaltazione, potessero esistere solo grazie alla presenza di un altro, così come aveva avuto bisogno di Ljuben per prendersela con la Bulgaria e […] per amare sua moglie. Come se, in assenza di testimoni, quel legame non esistesse affatto”, il colonnello ne è ossessionato come da un fantasma, che lo tortura senza svelarsi, attirandolo in quello che percepisce come un pauroso abisso, un turbinoso gorgo in cui vorrebbe, malgrado la paura, perdersi completamente. Il medico ama Laura di un amore curioso e distante, l’ha scelta perché interessante, nella sua pazzia, così come lo scrittore numero due trova piacere nello scrivere, ci si diverte sinceramente; al contrario il colonnello è ossessionato e spaventato al tempo stesso da Laura e dal suo sfuggente, febbrile mistero, nello stesso modo sensuale e contraddittorio con il quale lo scrittore si accosta alla scrittura. Nessuno dei due si diverte.
“Laggiù vicino a Pessoa si sente dolore, e lassù vicino a Borges fa freddo. Molto, molto freddo”, fa notare lo scrittore numero due, le cui affermazioni, pur riflettendo un punto di vista molto più disincantato di quelle del protagonista, non sono mai scontate o superficiali. “Tu credi che il mondo esista solo se tu scrivi”, è una delle accuse che rivolge infatti al suo amico-antagonista, con malcelato fastidio. E anche: “Se il mondo esiste solo nel momento in cui scrivi, allora anche tu esisti solo nel momento in cui scrivi. E questo significa […] che devi continuamente decidere se vuoi davvero esistere o no”, centrando il punto, cioè che le paure dello scrittore sono molto più metafisiche che psicologiche.
Mentre ci avviciniamo alla conclusione, la narrazione prende l’andamento di un sogno angoscioso, pare sfaldarsi, perdere aderenza con la realtà, ed ecco che lo scrittore del 1979 si trova sulla stessa strada, una carrozza più in là, dei suoi personaggi del 1879, in un tramonto romano inquietante, febbrile. Come se l’autore volesse darci una dimostrazione del suo potere (“Gli scrittori immaginano una realtà in cui non hanno bisogno di vivere, ma in cui hanno potere”) sulla realtà in cui ci ha sprofondato, o meglio del potere dell’arte, capace, per dirla ancora una volta con Schopenhauer, di “fermare” (anche se solo transitoriamente) “la ruota del tempo”, prima di lasciarci, con un finale aperto, che vede lo scrittore bruciare il suo manoscritto e i suoi personaggi avvertire di riflesso una fitta bruciante al petto, che prelude probabilmente alla loro ‘morte’.
Quanto allo scrittore, non possiamo immaginare cosa gli accadrà. Di lui, Nooteboom non ci ha svelato molto, nemmeno il suo nome; il fatto che esista una moglie è solo un riferimento fugace, lo scrittore esiste solo nelle sue conversazioni sullo scrivere e poi sul suo racconto, sui suoi personaggi, lo scrittore è persino meno reale, per noi che leggiamo, del colonnello, o del medico, o della misteriosa Laura, prodotti della sua immaginazione. Anch’egli è destinato quindi a scomparire dalla nostra vista, come i suoi personaggi.
Il suo ultimo atto sembra al tempo stesso una resa e un moto di orgoglio: distruggendo il suo romanzo prende atto dell’inutilità della scrittura, della sua incapacità di cogliere il nocciolo della realtà, il dolore che strazia il colonnello, il dolore senza nome di Laura, il dolore che lo scrittore-antagonista e il medico tentano di sfuggire con un pragmatismo al limite del cinismo, quello di cui parla Schopenhauer, come del dolore della “volontà, […] che si trova, quale individuo, in un mondo infinito e illimitato, tra innumerevoli individui, tutti bramanti, doloranti, erranti; e si affretta, come attraverso un sogno angoscioso, a ritornare nell’antica incoscienza” (1), ma allo stesso tempo nega la sua arte alle regole del mercato, che vorrebbe ridurre quelle esistenze per lui così reali a un certo numero di pagine, di parole, un numero ‘giusto’ per diventare il libro omaggio per un salone del libro, occasione che lo scrittore numero due gli prospetta come “la sua gallina dalle uova d’oro”.
Con la distruzione del manoscritto, il ‘canto’ di Nooteboom sembra arrivare a una conclusione completamente pessimistica sulla funzione della letteratura: la letteratura è inutile. Allo stesso tempo, scegliendo proprio la definizione di canto per il prodotto della sua riflessione sull’inutilità del narrare – e se una cosa è chiara è che nessuna parola è meno che deliberata in questo piccolo gioiello – l’autore sembra suggerire la ricerca di una forma ibrida, tra la prosa e la musica, l’unica arte che, per Schopenhauer, era posta allo stesso livello delle idee, costituendo oggettivazione diretta della volontà, senza mediazioni.
Come un canone, questo canto a più voci ci racconta la stessa storia in due modi diversi, in due epoche diverse, con personaggi solo all’apparenza lontanissimi, eppure in modo totalmente coerente da permetterci di riconoscerla. Così la freddezza del medico, che non viene toccato dagli orrori della guerra, è la stessa dello scrittore numero due, l’impassibilità con cui il primo sega ossa e ascolta urla e gemiti è la medesima con cui il secondo confeziona un libro dietro l’altro, con perizia artigianale, mentre lo scrittore numero uno e il colonnello sono torturati dai propri fantasmi, pur giudicando questo tormento “un’idiozia” e qualcosa di cui vergognarsi.
Analizzando il testo nel dettaglio, i rispecchiamenti si ripetono in modo quasi maniacale, tanto che il vero miracolo, una volta che ci si rende conto di questo impressionante dispiegamento di tecnica, è che alla fine l’abbiamo letto d’un fiato, catturati dalla storia e dal suo sviluppo, proprio come uno di quei libri nati per distrarre i lettori, proprio come un romanzo d’appendice. Con la sua stupefacente densità ci è apparso leggero e fresco come acqua di fonte, e se questo non è genio, non so proprio come altro definirlo. Non credo che Schopenhauer avrebbe qualcosa da obiettare.
Il canto dell’essere e dell’apparire, Cees Nooteboom, Iperborea, 1991
1) Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione