di Luciana Viarengo |
Recensione de Il pino e la rufola, Ezio Taddei
Esistevano un tempo anche nel nostro Paese – molto prima che il boom economico e le leggi del mercato ci trasformassero tutti, intellettuali compresi, in un sonnacchioso esercito di galline in batteria – uomini che non si facevano annientare: anche quando la vita, col suo accanirsi, negava ogni presupposto per potersi definire ‘umana’, loro continuavano a stringere i denti e ad andare avanti, attaccati ai propri sogni e ai propri ideali. Non c’erano dittature, carceri o miseria che potessero avere la meglio: dal niente che era stato loro concesso da quando erano nati, sapevano trarre più talenti di quanti la famosa parabola avrebbe mai potuto prevedere.
Di molti di loro, forse, non si è mai saputo; di altri ha fatto scempio l’oblio. Al gruppo di questi ultimi appartiene lo scrittore anarchico livornese Ezio Taddei.
Dopo un’infanzia tanto nera da far impallidire quella di David Copperfield (l’eroe di Dickens e non l’illusionista oggi, ahimé, di gran lunga più noto), la scuola di vita di Taddei furono la strada – come la ‘ligera’ milanese, con la sua umanità di piccoli malviventi, contrabbandieri e puttane – e il carcere, dove le amicizie e una lettura indisciplinata e ingorda, mostrarono a questo ragazzo senza titoli di studio la via lungo la quale convogliare, una volta uscito ormai uomo dalle patrie galere, la smania di uno spirito libertario. Una via che sarebbe arrivata oltreoceano.
Gli americani non ci andavano leggeri con immigrati anarchici, è cosa risaputa almeno da Sacco e Vanzetti in poi. Già nel 1901, nel primo atto che regolava il flusso degli stranieri, è presente una frase inequivocabile, che preclude l’accesso a chiunque “rifiuti di credere o si opponga al governo, o sia membro o affiliato di organizzazioni che nutrano o divulghino questo discredito o si oppongano al governo”; ma l’Immigration act del 1918 proibisce l’accesso al suolo americano in modo specifico, tra gli altri, “agli stranieri anarchici”.
Ciò nonostante, sul finire degli anni ’30, l’anarchico Ezio Taddei vuole emigrare, rifugiarsi in America, dopo che per quasi vent’anni il fascismo ne ha fatto un ospite quasi fisso delle carceri italiane, per partecipazione – mai provata – ad attentati dinamitardi, per istigazione alla rivolta, per tentato espatrio in Svizzera.
E dopo quattro anni di confino in Basilicata, un passaggio per la Svizzera infine raggiunta, e un breve soggiorno in Francia, ecco l’occasione per sfuggire anche dalla morsa delle leggi Daladier: un imbarco clandestino per gli Stati Uniti, il mondo nuovo dove continuare la sua lotta personale contro i poteri forti, mafia compresa. Là, infatti, l’uccisione del suo amico e mentore Carlo Tresca, giornalista e sindacalista anarchico, lo spinge a indagare – facendo luce come pochi altri – sulle connivenze mafiose di stampa, economia e politica.
Di quanto Taddei avesse visto giusto nelle sue indagini, raccolte e registrate nel breve libro Il caso Tresca, arrivò conferma solo in seguito, purtroppo ben dopo la sua morte, avvenuta nel ’56 a Roma dove era tornato a vivere, perché le regole sull’immigrazione parlavano chiaro: il discredito dell’establishment non era consentito, e tutto quel suo ficcare il naso e gridare ai quattro venti i risultati delle sue scoperte gli aveva procurato un decreto di espulsione come sovversivo e indesiderabile.
Non che per un uomo come Taddei quel documento ufficiale avesse più valore di un pezzo di carta straccia, ma ci pensò la mafia a convincerlo: un anarchico incastonato in un pilone di cemento sarebbe servito a ben poco, e Taddei si lasciò rimpatriare.
Che ha a che fare tutto questo con la letteratura? Moltissimo, perché per Ezio Taddei la scrittura costituiva un’arma efficace quanto ogni altra degna di questo nome, ed è proprio durante il periodo trascorso in America che si dedicò alla stesura del suo romanzo più importante, Il pino e la rufola, pubblicato nel 1944 da una casa editrice newyorkese nella versione di Putnam, traduttore di tutte le opere di Pirandello.
La critica americana riconobbe immediatamente la validità di questo lavoro del quale a tutt’oggi, in Italia, si sa invece poco o nulla: anche la letteratura ufficiale, quella governata dalle regole del mercato, possiede le invisibili barriere di dissimulazione e di ostracismo con le quali la società dei normali si protegge dall’imbarazzante presenza degli altri, e Taddei non appartiene sicuramente alla categoria dei primi.
Il microcosmo di ultimi con i quali ha da sempre, e per sempre, condiviso pane ed esperienze – pur annoverando fra i suoi amici Alvaro, Jovine e Arthur Miller – entra infatti vivo e potente nelle sue pagine, a testimonianza di ciò che lo scrittore considerava l’ unico vero contropotere.
L’ambientazione delle vicende narrate nel romanzo è la Livorno del primo dopoguerra, dal biennio rosso al delitto Matteotti. Della sua città, Taddei ci offre più volti: il primo è quello affollato di passi e parole dei tribunali, ambiente ben noto allo scrittore, nel quale si muovono tra gli altri due personaggi – gli avvocati Casella e Pellizzari – che apriranno e chiuderanno la storia; il secondo è quello soleggiato e arioso delle passeggiate sul mare dei borghesi à la page, quello delle camere da letto dove donne affascinanti si spostano dal talamo allo specchio drappeggiandosi con cura le sottovesti di seta mentre indugiano pensierose sull’adulterio, quello dei salotti curati e immobili come diorama, dove siedono in compite crapule capitani coperti di medaglie, commendatori e avvocati più o meno illuminati, a discettare sotto luci perfettamente studiate di investimenti militari e di casi forensi. In questi salotti un altro volto della città entra simbolicamente, attraverso il gemito prolungato delle sirene delle fabbriche e dei piroscafi per il quale la padrona di casa ordina stizzita che si chiudano le finestre e del quale i convitati neppure saprebbero la ragione, se la domestica non spiegasse che si tratta dello sciopero generale “perché a Firenze avevano ucciso due operai”.
È livido e cupo, quest’ultimo volto di Livorno che Taddei ci mostra, e ricorda di molto le atmosfere notturne da suburbio fine Ottocento, nelle quali all’infimo gradino della scala sociale corrisponde anche una mancanza di grazia e di bellezza, perché il solo affanno è quello della sopravvivenza. Le case sono fatiscenti e malsane, tranne che nel caso della Gugliotti, prosciolta da un’accusa di lenocinio, che fonda il proprio benessere sulla pedofilia dei ricchi; i personaggi vecchi e storpi, e se giovani e belli hanno il destino segnato.
La potenza di Taddei si rivela nella strana alchimia che spinge il lettore ad amare non già la Livorno solare e i suoi esponenti, ma quest’ultima, quella dell’asilo dei poveri dove campeggia un adorabile Toni sdentato e incontinente, o la Maria Sdràiati, ex prostituta ormai sessantenne, grassa e con una gamba cionca, ma una volta tanto bella che l’esortazione più frequente rivoltale dagli uomini ha finito per diventare il suo nome.
Insieme a loro una teoria infinita di personaggi che Taddei immette senza soluzione di continuità, attraverso i dialoghi sincopati, nei quali senza bisogno di eccessivi ‘toscanismi’, la parlata livornese emerge forte e chiara.
Su questo sfondo si delinea la società post bellica e il sogno nascente di un socialismo imperituro, fra i capannelli dei reduci, portatori di un nuovo dis-ordine sociale, terreno di coltura per le squadracce prossime a venire, e i nuclei operai, ai quali il contropotere anarchico degli emarginati è strettamente correlato, impegnati ad avviare l’utopia rivoluzionaria.
Trait d’union, la vicenda dell’avvocato Pellizzari e di riflesso quella del collega Casella. Pellizzari, di estrazione contadina – proviene infatti da Bernalda, il paese di confino lucano di Taddei – rimossa nell’arrampicata forense prima, e in quella politica poi, passando dall’enfasi del sogno socialista alla candidatura fascista, tornerà alle origini nel tentativo di lenire le ferite, una volta aperti gli occhi sulla sua puntata e avendo scoperto che a vincere è il banco.
L’aggettivo che meglio definisce la scrittura di Taddei è ‘scabra’, in tutte le sue diverse accezioni: ruvida quanto la mano callosa di un operaio, brulla di ridondanze e orpelli, essenziale con i suoi dialoghi nei quali le frasi sono tronche e minimali, e se vogliamo considerare l’animo dal quale questa scrittura è scaturita, ci sta anche l’ultimo significato: capace di urtare e turbare.
Una scrittura in tutto simile a come doveva essere lui, indomabile, scarruffato e scomodo. Come gli ideali e i compagni di vita che si era scelto.
Il pino e la rufola, Ezio Taddei, Spoon River, 2004