di Sabrina Campolongo |
Recensione de L’amante della tigre, Téa Obreht
Téa Obreht è una tra i “5 migliori autori sotto i 35 anni” per l’autorevole National Book Foundation americana; è una dei “20 migliori autori sotto i 40 anni” secondo il New Yorker; è la più giovane vincitrice nella storia del prestigioso Orange Prize inglese.
Caspita. Se è vero che una fascetta a effetto oggi non si nega proprio a nessuno, quella dorata che accompagna il romanzo L’amante della tigre è a dir poco sfavillante. Completata da una foto di un gradevole viso femminile che appare giovanissimo, dallo strillo definitivo (“La scrittrice rivelazione del 2011”) e vidimata dalla lusinghiera opinione di Colum McCann (“Il talento letterario più emozionante degli ultimi anni”), di sicuro non passa inosservata.
Per quanto l’aggettivo emozionante associato a talento mi scateni un certo sospetto, e quegli ultimi anni mi appaiano un po’ troppo vaghi (dieci? cinque? venti? E di quale bacino stiamo parlando: del mondo intero, dell’Europa, degli Usa? Domande legittime, mi sembrano, dal momento che l’autrice è nata in Europa, ma vive negli Usa…) confesso che questa roboante fascetta è riuscita a incuriosirmi.
Così, contravvenendo alle mie abitudini, ho googlato il nome dell’autrice, ancor prima di leggere una sola riga del romanzo. Confesso che mi aspettavo un fioccare di recensioni illustri, dal momento che L’amante della tigre è stato pubblicato in Italia, nientemeno che da Rizzoli, ad agosto 2011, invece sono rimasta delusa.
Un trafiletto sulla versione online di Elle, un articolo in merito alla sopracitata vittoria dell’Orange Prize sul Corriere, qualche sparuta opinione di lettura online… Decisamente più materiale ho trovato scorrendo la stampa statunitense, ma comunque non sono riuscita a ricostruire il percorso della scrittrice, prima dei sontuosi riconoscimenti riportati sulla fascetta aurea.
Insomma, cosa aveva scritto la giovanissima Téa Obreht prima del romanzo che tengo tra le mani, uscito negli Stati Uniti l’8 marzo 2011? E per quali opere si è meritata la nomina tra i cinque migliori autori sotto i trentacinque anni, nel 2010? Le date non tornano.
A questo punto, frugando tra articoli e biografie, apprendo che il romanzo è stato scritto durante un corso di scrittura creativa alla Cornell University, università americana che vanta di aver sfornato un numero di scrittori impressionante, tra i quali, per citarne qualcuno, Harold Brodkey, Toni Morrison e Vladimir Nabokov, che vi ha oltretutto insegnato dal 1948 al 1959. Pensando a questo, e al fatto che la candidatura di Téa Obreht al National Book Foundation è stata sponsorizzata da Colum McCann (i giurati l’hanno premiata sulla base di un estratto del romanzo ancora incompiuto), il quale è a sua volta insegnante di scrittura creativa, e collaboratore del New Yorker, che ha premiato la Obreht tra le “20 sotto i 40”… inizio a immaginare un intreccio possibile. La lunga premessa, per dire che mi sono accostata a questo romanzo con l’animo un po’ prevenuto, come ci si appresta a leggere il tema della prima della classe, quando si sa già che è nella manica del professore. Il fatto che il romanzo fosse ambientato in un volutamente imprecisato Paese balcanico, è un altro fattore che mi rendeva sospettosa.
Uno degli elementi potenzialmente interessanti di questo romanzo, infatti, era, per me, proprio l’origine serba dell’autrice. Mi sono fatta l’idea che la ‘questione serba’ sia sorprendentemente poco affrontata, non solo in letteratura, quasi un tabù. Del resto, una volta identificati, all’interno di un conflitto, i cattivi, è meglio che questi parlino poco, in generale. La questione serba è quindi una di quelle zone grigie che l’Occidente ha tutto l’interesse a far scomparire del tutto, riducendo il conflitto balcanico, una matassa aggrovigliatissima il cui bandolo si è perduto nella notte dei tempi – e in cui le grandi potenze europee, Italia compresa, hanno pesanti responsabilità anche nella storia recente – a una contrapposizione netta tra bianchi e neri, tra i serbi aggressori e i bosniaci aggrediti, tra i serbi cetnici boia e il resto degli ex jugoslavi, una massa quasi indifferenziata di vittime. Un pensiero che viene comodo per benedire, anche a posteriori, le molte operazioni militari Nato, culminate con i raid aerei del 1999: settantotto giorni di bombe necessarie, sganciate chirurgicamente contro l’esercito serbo e che solo incidentalmente, si sa, hanno ucciso migliaia di civili di ogni etnia e religione.
Mi sono domandata se sia, almeno in parte, in questo clima, mai davvero mutato, che si devono cercare le ragioni che hanno portato l’autrice a scrivere – negli Stati Uniti – un romanzo che narra di una Città, senza mai nominare Belgrado, che parla di un noi sempre sottinteso, senza mai chiamarsi serbi. Non posso non domandarmi quale accoglienza sarebbe stata riservata a un romanzo che narra di quella guerra, quella dell’operazione Allied Force, dal punto di vista dei boia serbi, con il nome Srebrenica impresso a fuoco nella memoria collettiva, con il suo carico di sangue, orrore, colpa e unanime condanna.
D’altro canto, come scrive Stephen King, “è la storia, non chi la racconta”, perciò, dismessi i panni improbabili di detective letterario, ho affrontato il romanzo con tutti i ricettori ugualmente aperti e disponibili a farsi convincere.
E, mano a mano che procedevo nella lettura, cresceva in me l’idea che forse la scelta di non nominare Serbia, o Bosnia, o Kosovo, avesse anche una ragione diversa, meno vincolata al presente dell’oggetto libro e più radicata invece nel nucleo profondo della storia.
Un rifiuto di Obreht, forse, di accettare quei confini che spezzano, di fatto, la vita e il passato dei protagonisti, che li frammentano in individui senza appartenenza, il cognome che parla di un Paese, la lingua di un altro, la religione di un altro ancora, la storia familiare costretta a cambiare continuamente moneta e bandiera, a una continua verifica ideale di passaporti e visti, per poterla raccontare tutta.
La trama del romanzo è, al tempo stesso, semplice ed estremamente intricata.
Il modo semplice di raccontarla potrebbe essere questo: Natalia, da poco laureatisi in medicina, si trova in viaggio per una missione umanitaria – vaccinare gli orfani di un piccolo villaggio al di là del confine – quando apprende, dalla nonna, che l’amatissimo nonno, medico a sua volta, è morto lontano da casa. Le cause della morte sembrerebbero naturali – del resto Natalia sapeva, lei sola, che il nonno era malato di cancro – ma sono le circostanze a essere meno chiare. In particolare, nessuno sa esattamente per quale ragione l’anziano uomo si trovasse nel luogo in cui si è afflosciato a terra, un piccolo villaggio sperduto, una sorta di baraccopoli abitata da reduci di guerra. Natalia si troverà quindi a cercare una spiegazione, la verità sugli ultimi atti della vita del nonno.
Attorno a questa trama principale si sviluppano altrettante storie, non meno cruciali, di cui due, in particolare, sembrano indissolubilmente legate alla vita del nonno, tanto da conferire alla sua stessa esistenza una sorta di predeterminazione, due storie in cui il sovrannaturale si intreccia con naturalezza al reale – sulla scia di quel realismo magico alla Gabriel Garcìa Marquez di cui l’autrice si dichiara appassionata lettrice, ma anche di quella profonda commistione tra storia e superstizione connaturata nella cultura popolare balcanica – e che costituiscono, intrecciandosi a loro volta, l’ordito del romanzo: quella dell’uomo senza morte, e quella della moglie della tigre (The tiger’s wife che diventa, non so come mai, forse per aggiungere un pizzico di malizia, che a fini commerciali non guasta mai, L’amante della tigre, nel titolo italiano – ma solo nel titolo, perché l’ottima Isabella Vaj, traduttrice del celebre Cacciatore di aquiloni, mantiene fedelmente “la moglie della tigre” per tutto il romanzo).
Non solo. Nel già fitto intreccio della trama principale e delle due sottotrame fondamentali, si inseriscono, come fili colorati o di lamé, una moltitudine di altre vicende, alcune che aggiungono spessore e movimento al romanzo, alcune forse non essenziali, ma sempre godibili, per chi ha il gusto della narrazione, e delle storie ascoltate davanti al camino. L’uso di quest’ultimo verbo non è casuale ma deliberato, essendo la voce di Téa Obreht piacevolmente udibile, nelle sfumature e nelle intonazioni. Il fluire della prosa rimanda a una tradizione orale, con i frequenti richiami alla platea degli ascoltatori, gli avvertimenti al lettore, la consapevolezza, che non viene mai meno, dell’atto fisico del narrare.
Fa pensare ai lettori come a un pubblico seduto in cerchio attorno al cantastorie, come accadeva fino a poco tempo fa nella celebre Jami’ el-Fna o in altre piazze arabe.
Tutto l’arazzo narrativo è intessuto sul telaio della Storia, nel caso specifico della guerra, quel conflitto presentissimo in ogni pagina, imprescindibile come il senso di colpa per il fatto di appartenere alla metà sbagliata o più sbagliata della barricata (almeno guardandola da lontano, dall’altra parte dell’oceano o del piccolo Adriatico). Una generazione intera, e non solo, nata con un doppio peccato originale e gravata da una difficoltà estrema, quella di sopravvivere alla pace, dopo essere nati e vissuti sotto il giogo della guerra. Raccontando la sua scelta di diventare medico, per esempio, la protagonista afferma: “Ed era vero – ero mossa dal senso di colpa, che tra i giovani della mia generazione si manifestava come desiderio di aiutare le persone di cui si parlava alla radio e alla televisione […]. [La guerra] ci aveva obbligati a compiere scelte basate su circostanze che ormai non erano più parte della nostra vita, e noi volevamo tenercelo stretto, quel gravoso diritto di nascita il cui prezzo eravamo fin troppo desiderosi di pagare”.
Come una cicatrice impossibile da ignorare, il confine è un altro grande tema che percorre il romanzo. La protagonista apprende della morte del nonno mentre si trova alla dogana, in attesa di passare i controlli (una dogana che una volta non esisteva), i parenti della famiglia sono rimasti al di là di un’altra frontiera, così come la casa al lago, luogo dell’infanzia. Le dogane onnipresenti e inevitabili, ostacolo fisico da mettere in conto, ma spesso superabili attraverso la blanda corruzione degli ufficiali, sono chiara allegoria della mancanza di senso, della forzatura di confini tracciati su un territorio indivisibile, confi ni che generano all’istante il fiorire di minoranze costrette a difendersi, là dove a lungo è esistita solo una marmellata etnica, un composto impossibile, probabilmente, eppure sorprendentemente stabile.
Tornando al romanzo, al di là di ogni superabile marketing dell’esordio (questa ‘prima volta’ da cui tirar fuori il massimo del profitto mi ha fatto ripensare all’asta per aggiudicarsi la verginità delle geishe più quotate, come è raccontata in Memorie di una geisha di Arthur Golden), e al di là di titoli ammiccanti e fascette roboanti, Téa Obreht ha scritto un romanzo tutt’altro che ombelicale – forse che l’idea americana di insegnare scrittura creativa all’università non sia così peregrina, dopo tutto? – in cui una vicenda personale e familiare ricca e appassionante si àncora, senza mai perdere il filo, nella terza dimensione della Storia, senza trascurare la bellezza della scrittura, il gusto della parola e della metafora – la tigre, la più bella di tutte – l’ironia, il ritmo e persino la poesia.
Direi che quando i risultati sono questi, si può ben superare l’istintivo moto di antipatia verso le prime della classe.
L’amante della tigre, Téa Obreht, Rizzoli, 2011