di Luciana Viarengo |
Recensione de Gli uomini che non si voltano, Gaetano Savatteri
Pessima abitudine quella di leggere i risvolti di copertina, a meno di non prenderli troppo sul serio. Meglio sfogliare, annusare, assaggiare. Titolo, epigrafe, incipit, parole sparse tra le pagine. Se deve chiamarci, il libro lo farà. Perché il commento esterno, diviso fra la schizofrenica necessità di essere esauriente e sintetico nello stesso momento, e sottomesso alla funzione di specchietto per le allodole che l’industria editoriale gli riserva, raramente riesce a cogliere l’essenza più profonda e preziosa di un romanzo. Ha più o meno la funzione dell’etichetta applicata sui barattoli esposti negli scaffali del supermercato.
In questo caso, il risvolto presenta il libro come un romanzo nero, più nero di un poliziesco, “sul nero della politica di oggi”, e “su un modo dell’oggi che abbiamo da poco scoperto: la disperazione della politica moderna”. Definisce inoltre “di superficie” la chiave tragica suggerita dall’epigrafe.
Pur trascurando quel “da poco” sul quale ci sarebbe molto da dire, mi sembra che Gli uomini che non si voltano affronti qualcosa di meno circoscritto nel tempo, qualcosa di più profondo – e per questo ancora più sconsolante – di un’attualità politica. Anche il registro della tragedia è molto meno superficiale di quanto non suggerisca il commento sul risvolto di copertina. Inoltre i tempi e i ritmi della narrazione, il linguaggio attuale, pervaso di umorismo e intessuto con leggerezza di continui sicilianismi che lo rendono ancora più incisivo, ne fanno sì un libro dalla lettura veloce e estremamente godibile quanto quella di un buon poliziesco ma non è certo un romanzo da confinare nella categoria dei noir.
La vicenda viene raccontata con un alternarsi di sequenze dinamiche e brevi sequenze statiche, le prime affidate a un narratore esterno che fa procedere il lettore nell’azione narrativa (ma attraverso una focalizzazione interna che gli permette di seguire la vicenda con gli occhi del personaggio), le altre consegnate a ciascuno dei personaggi che nel libro compaiono, e che offrono al lettore, attraverso una sorta di flusso di coscienza o di monologo, un punto di vista soggettivo, in prima persona. Per assurdo, questo non sembra fornirci un’immagine composita e sfaccettata della realtà ma solo molteplici e ulteriori conferme di trovarci di fronte a una tragedia annunciata.
Placido, Silvestre e Aurelio, erano amici all’università di Palermo, ai tempi del Movimento della Pantera, l’ultimo importante movimento studentesco tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del ’90. I rapporti, interrotti alla fine dell’università, si riannodano oggi a Roma perché Aurelio, onorevole a Montecitorio, riceve lettere minatorie. Silvestre, suo collaboratore, chiede a Placido di svolgere un’indagine privata.
Questa seconda opportunità non sfocia in un’amicizia rinnovata, perché la vita li ha cambiati. Compaiono qua e là scorci delle esperienze condivise, degli amori, dei reciproci disinganni, ma nulla che si possa riannodare perché il tempo dei vent’anni, quello in cui si è convinti di avere un credito illimitato e altrettanto illimitate possibilità di cambiare il corso delle cose, è definitivamente passato, sostituito dal tempo del fatalismo e dell’ineluttabilità.
Placido alla fine dell’università, assordato dal bisogno di giustizia che la Sicilia sembrava reclamare, ha scelto di entrare in polizia; lo troviamo oggi condannato in primo grado e in attesa del ricorso in appello dopo che il suo nome è emerso in una telefonata tra mafiosi sottoposti a intercettazione, con un matrimonio finito alle spalle, una figlia adolescente per la quale non è abbastanza presente e una relazione “dalla funzione lenitiva e terapeutica” con la sua dentista.
Silvestre, già attivo nel giornalismo ai tempi dell’università, ha seguito la vocazione solo fino a un certo punto; ex cronista impegnato in un giornale di sinistra, è saltato sul carro dei potenti: “cuore a sinistra, portafoglio a destra, mente libera”.
Aurelio ha ereditato il potere. Istradato dal padre, politico locale nelle fila della democrazia cristiana, “ha avuto la fortuna,” dice di lui un avversario, “di trovarsi a fare politica proprio mentre tutti andavano gridando che ci volevano facce nuove, giovani nuovi, classe dirigente nuova,” salvo poi, alla morte del padre, restare “come un tronzo che manco sapeva dove erano i cessi di Montecitorio con tutto che da dieci anni stava lì,” almeno fino a quando una figura pseudo-genitoriale, il presidente Casesa, non è tornata a mostrargli la direzione. Sposato con Gialuce, ex ragazza di Placido, ha due figli piccoli e un’amante francese di cui è innamorato. Sintomo ulteriore, questo, di debolezza, di inadeguatezza al ruolo che gli è stato imposto, perché i politici non possono innamorarsi, “fottono, fanno figli, si sposano. Ma non si innamorano. Perché il potere reclama un amore esclusivo, devastante ed esigente”.
Anche dalle parole degli altri personaggi, Aurelio emerge come un debole, incapace di dominare gli eventi se privo di una guida. Ma più che una guida, nella figura del padre prima e del presidente Casesa poi, possiamo intravedere il burattinaio dalla cui abilità dipende la conservazione del potere. E Aurelio obbedisce ai comandi trasmessi attraverso tirate di fili, più o meno determinate, finché la decisione del proprio direttivo di affossarlo nuovamente a Monserrato, suo paese natale in Sicilia, come candidato sindaco, e la sequela di lettere anonime attraverso le quali scoprirà tutto il peso e il disgusto dell’eredità ricevuta non lo costringono a voltarsi.
Come già ci anticipa Savatteri con il titolo e la seconda epigrafe, entrambi tratti da Forse un mattino andando in un aria di vetro, dalla raccolta Ossi di seppia di Montale: a volte è possibile il miracolo di chi, voltandosi, con un senso di vertigine profonda riesce a vedere la realtà; a godere della rivelazione improvvisa del nulla che sta alle spalle, subito cancellata dal ritorno della consueta e ingannevole apparenza. Ma ormai è tardi, lui ha visto e se ne andrà, zitto, tra gli uomini che non si voltano. Così per Aurelio.
Anche Placido, indagando, arriverà a intuire ciò che Aurelio ha scoperto e a intravedere i meccanismi perversi che muovono l’apparato politico. Ma è Aurelio il personaggio costretto a fronteggiare il conflitto fra libertà personale e necessità, cioè il protagonista della tragedia.
Perché di tragedia si tratta, checché ne dica il risvolto di copertina, quando il libero arbitrio si scontra con la predestinazione. A questo rimanda il passaggio dell’Antigone di Sofocle – che sotto forma di energia tematica sarà presente per tutto il romanzo – scelto da Savatteri come prima epigrafe.
In questo caso la necessità è determinata dalla politica, e come sostiene il presidente Casesa – ex presidente della regione ex ministro ex deputato ex senatore, consulente politico presso la presidenza del Consiglio “per sovrintendere ai destini delle derelitte pecorelle siciliane” iscritte nelle liste dei partiti di governo – “la politica è solo una via di accesso al potere”.
E il potere, si sa, non è istanza circoscrivibile ai nostri giorni, il potere è atemporale.
Niente di così strettamente attuale come promesso in copertina, dunque. Più che la disperazione dell’oggi troviamo quella eternamente generata dal conflitto tra umanità e potere. Da sempre quest’ultimo, quando è colpito, trova il modo di difendersi e quando questa sua accanita controffensiva richiede il sacrificio di chi del potere ha cura, è pronto a rigenerarsi come un’idra, secondo dinamiche valide e collaudate che, da sempre, ne garantiscono la salvezza.
Infatti, nulla cambia dopo il sacrificio di Aurelio.
Detto questo, è inevitabile intuire Sciascia fra le pagine del libro. Gli uomini che non si voltano è, infatti, un romanzo a tinte fortemente sciasciane e Gaetano Savatteri non fa nulla per nascondere il debito, anzi dissemina qua e là citazioni e rimandi: dopo sole tre pagine, il cognome di uno dei protagonisti – Placido Polizzi da Regalmare – viene erroneamente citato in un testo come Regalpetra (paese inventato in un libro del 1956, Le parrocchie di Regalpetra, appunto); la definizione usata da Aurelio per definire i politici, “ominicchi” (dalla classifica di Don Mariano Arena ne Il giorno della civetta); dallo stesso libro, ma questa volta in dialetto, la citazione di un indovinello siciliano “bianca campagna e nivura semenza, chi la fa sempre la penza” a proposito della funzione dirompente della parola scritta; il nome di un altro personaggio, politico meschino che manovra nell’ombra, Vella (nome del frate maltese che progetta e realizza l’inganno del manoscritto arabo nel Consiglio d’Egitto, 1989); per concludere con lo stralcio di un articolo apparso sulla rivista Malgrado tutto, fondata all’università dallo stesso Savatteri, riportato nell’epilogo.
Epilogo che sarebbe potuto rimanere, con il suo corsivo e l’uso della prima persona, un intervento a sé da parte dell’autore, una sorta di postfazione del quale ha l’aspetto. Savatteri, invece, ribalta il ruolo del narratore esterno per assumere a pieno titolo quello di io narrante fornendoci, come in uno scorrere di titoli di coda, un veloce prosieguo delle vite dei personaggi. Un artificio per dirci che ciò che abbiamo letto non è invenzione, per arrivare a trasmettere la sostanza del suo scrivere: il desiderio di impegno tra quel pessimismo e quell’ottimismo che Sciascia aveva sottolineato e sostenuto, divertendosi poi a sconfessarlo con l’ultima frase.
L’intento di ascrivere alla letteratura quel ruolo di denuncia, di rivelazione dell’impostura, di sguardo sul reale che Sciascia teorizzava e praticava con il proprio lavoro è certo la citazione migliore, seppure implicita, che Savatteri potesse scegliere.
Tuttavia, resistere al tentativo di strizzare l’occhio al lettore meno raffinato con un eccesso di storia personale dei protagonisti (curiosamente, quando entrano in gioco i personaggi femminili) che in alcuni casi finisce per diluire eccessivamente il vero nucleo tematico, e focalizzare abusi di potere più recenti, meno storicamente consolidati, avrebbe forse conferito maggiore forza al romanzo. Gli uomini che non si voltano sarebbe entrato con peso diverso in quella letteratura di impegno (saremo ormai costretti a chiamarla controletteratura?) che Sciascia perseguiva e di cui tanto si sente la mancanza oggi.
Gli uomini che non si voltano, Gaetano Savatteri, Sellerio Editore, 2006