di Sabrina Campolongo |
Recensione de L’odore del sangue, Goffredo Parise
“Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse”. Rileggendo l’incipit de L’odore del sangue dopo aver concluso la lettura del romanzo, non si può che rimanere colpiti da quanto ci sia già rivelato, in quella prima riga.
Ho guardato, anzi visto: la precisazione ci parla dell’importanza che si attribuirà alla parola, del fatto che se ne farà un uso più che consapevole, deliberato.
Silvia, il nome della moglie infedele compare immediatamente, come a informarci che lei sarà l’oggetto quasi esclusivo dell’analisi, dell’osservazione in senso anche scientifico, dal momento che, scopriremo, il protagonista è un medico psicoanalista.
Per la prima volta. Ovviamente non è la prima volta che il protagonista guarda Silvia, l’ha guardata per anni, anzi, ma afferma di vederla solo in quel momento, quando ha la sensazione che lei lo tradisca. Anche questo è interessante e rivelatore, il movimento prospettico che riporta l’attenzione sul narratore, sul suo percepire il cambiamento, più che sul cambiamento stesso.
Ho guardato, anzi visto. Fermandosi su questo passaggio, la mente mi ha rimandato un’immagine all’apparenza molto distante, cinematografica: quel ‘ti vedo’ rituale pronunciato, quarant’anni dopo la scrittura de L’odore del sangue, dagli alti alieni blu nella milionaria favola ecologista portata al cinema da James Cameron, Avatar: «Io ti vedo» cioè io vedo dentro di te, vedo te nel mondo, nei tuoi rapporti con il tutto.
Più ci penso e più mi dico che non è molto lontano da questo, il personaggio uscito dalla penna di Goffredo Parise, quando afferma di vedere solo in quel momento – quello della percezione del tradimento – la moglie Silvia per la prima volta.
Eppure, come vedremo, si tratta di un inganno.
Filippo, il protagonista, crede di vedere Silvia per la prima volta, quando invece quello che sta guardando è l’inizio del suo insanabile declino nella vita di lei.
La verità narrata è quella dell’occhio che osserva, del corpo che sente, che fiuta, per la prima volta, addosso alla moglie, creatura mansueta e assolutamente devota, nonostante un precedente tradimento consumato per vendetta, quello che identifica come L’odore del sangue. Il sangue rappresenta l’elemento cardine della storia, allo stesso tempo simbolo di Vita e Morte. Morte che sarà, come vedremo, l’altro grande tema del romanzo, il vero terzo elemento del triangolo amoroso.
La narcosi e il tradimento di Penelope
La trama sarebbe quella classica del tradimento con finale tragico, se non per due significative varianti: la prima è l’assenza di giudizio morale. Da subito il lettore sa che il narratore-marito tradito è, a sua volta e per primo, traditore dichiarato, che da anni porta avanti una relazione parallela e non segreta, un’altra casa, un altro ambiente e un’altra donna, per cui è evidente che non possa permettersi (ma nemmeno ne avrebbe voglia, convinto com’è della necessità di questo suo comportamento, del fatto che proprio le sue fughe abbiano salvato la sua ventennale relazione con Silvia) di pronunciare una condanna etica nei confronti della moglie.
La seconda caratteristica che colpisce è la quasi totale mancanza di azione. Dal momento in cui il protagonista scopre che Silvia lo tradisce con un teppistello conosciuto per strada, la sua esistenza, anziché rovesciarsi, scivola in una febbrile paralisi. Filippo non farà altro che frugare meticolosamente, lucidamente, ferocemente, nella piaga del tradimento e nella sostanza stessa del suo matrimonio con Silvia e, in una certa misura, del proprio rapporto con le donne. Pur essendo tormentato dai più oscuri presagi riguardo la deriva tragica che la vicenda prenderà, Filippo non muoverà un dito, né per tentare di riprendersi la donna che afferma di amare, né per salvarla.
Il milieu all’interno del quale si svolge la vicenda principale è quello della buona borghesia romana, la borghesia degli anni ’70, che ci viene presentata come noiosa, fascista, edonista e alla ricerca di facile oblio, di un piacere stanco e senza sangue, una classe sociale come già la descriveva Michelangelo Antonioni in film come Deserto rosso, quasi totalmente indifferente alla rabbia che in quegli anni porta in piazza studenti e operai, al sangue che, nelle strade – non nei palazzi con il portiere – scorre.
Il protagonista, cinquantenne, ha già scelto, da anni, la via della fuga, della seconda vita in campagna, assieme a una ragazza del posto, lontana culturalmente e spiritualmente da lui ancor più di quanto lo sia anagraficamente.
Una seconda vita a cui però non si abbandona del tutto, preferendo una sorta di pendolarismo sentimentale: quando è stanco della ragazza torna a Roma, quando è stanco di Silvia rifà le valigie e torna dalla ragazza, Paloma, a cui si ricorda di dare un nome, un volto e un passato solo oltre i due terzi del romanzo.
“Nel mio lavoro questo si chiama, come è noto censura,” dice lui, attribuendo alla ragazza “l’inizio di quello che solo negli ultimi tempi e in ritardo mi apparve come l’inizio di qualche cosa di oscuro e drammatico”. Di nuovo, qui la scelta del verbo apparire, non può essere casuale. Infatti, di quale dramma stiamo parlando? Non del suo, se non indirettamente, non di quello della ragazza, ma del dramma di Silvia.
Silvia che da anni rimane bloccata a Roma, come un’annoiata Penelope senza pretendenti, nonostante sia descritta come ancor bella e sensuale, a tessere durante i momenti di presenza o le lunghe telefonate mattutine, la tela di un matrimonio destinata a essere disfatta dall’assenza, dalla ferita del tradimento e dal vuoto di un’intollerabile solitudine.
Su questa sorta di sbilanciata stabilità si intromette, scardinandola con la forza di un tornado, l’elemento del dramma, impersonato da un giovanotto senza nome e senza volto, un ragazzo che è solo il suo giubbotto di pelle, la sua prepotenza e il suo cazzo sempre eretto, un ragazzo che si installa nella vita, nei pensieri, nella carne, nei sentimenti e persino – sebbene non stabilmente – nella casa di Silvia, sotto al tetto coniugale, per quanto così spesso disertato, del protagonista.
Il quale, fiutando quasi subito in quel L’odore del sangue la rivelazione inequivocabile e dolorosa della sua certa sconfitta sul campo di battaglia, non può fare altro che ritirarsi e, dalle retrovie, cercare di riportare una vittoria strategica, redigendo al contempo un fedelissimo, spietato bollettino di guerra.
Confessione e potere
Il fine, ossessivo, del protagonista diventa ben presto quello di ottenere da Silvia una piena confessione. Il motivo per cui questa confessione gli è così necessaria lo spiegò perfettamente Foucault, nella serie di conferenze che dedicò interamente a questa ‘tecnica di individualizzazione’, su invito della Scuola di Criminologia della facoltà di Diritto, all’università di Louvain, nel 1981.
Secondo il filosofo, confessare non renderebbe liberi, tutt’altro. ‘Estrarre’ la verità dagli individui si configura a tutti gli effetti come una tecnica di potere. La confessione, per Foucault si definisce come il “passare dal non dire al dire, quando il non dire ha un senso preciso, un motivo particolare, o un valore importante” (1); deve essere inoltre spontanea, non estorta e impegnativa per chi vi si sottopone.
Quando si riesce a ottenere una confessione di questo tipo, l’identità di chi confessa si lega indissolubilmente alla verità confessata e ne viene determinata, la sua libertà viene di conseguenza ristretta. Non può più sfuggire, non può più essere altro.
Applicando questa teoria al romanzo di Parise, il protagonista, cercando di ottenere da Silvia piena confessione, non solo dei fatti, ma anche degli intenti, dei bisogni, di ogni emozione e percezione rispetto a quel ragazzo-fallo, cerca evidentemente di riguadagnare il controllo su di lei. Facendole sviscerare ogni piega, ogni dettaglio, ogni dinamica di questo amore, Filippo potrebbe riuscire ad ancorare Silvia a quella delimitata verità, quasi scientifica, figlia del feroce e ossessivo lavoro di analisi svolto da lui stesso, e sottrarla così al tumulto, all’insondabile, al caos, all’imprevedibilità del suo destino.
Ma la reticenza di lei lo disarma, Silvia non si consegna del tutto, non ammette di essere totalmente dominata dalla propria ossessione amorosa, non rinuncia a dissimulare, relativizzare, sfumare i contorni.
Simbiosi e noia
Le reali motivazioni dietro alla scelta di Silvia non sono così importanti, forse, ma è anche vero che non sono profondamente indagate. Mentre Filippo si fa a pezzi e la fa a pezzi per sapere tutti i ‘come’ del tradimento, riguardo al ‘perché’ si fa subito un’idea precisa: Silvia è stata attratta da L’odore del sangue, stregata dall’amore carnale, Silvia ha sostituito una devozione, quella ‘alta’ al loro amore platonico, cui il narratore si riferisce spesso con il termine ‘simbiosi’, spiegandola con l’immagine di una robusta pianta tropicale avvinghiata a una rovina maya (che la sgretola e la tiene in piedi allo stesso tempo), una relazione che pur non escludendo la componente erotica la riduceva a un ruolo marginale, con la divorante devozione al fallo, elemento primordiale, la cui potenza ossessiona e spaventa il protagonista, tanto da farlo uscire dal consueto linguaggio razionale e analitico, per lasciarsi andare a un’affermazione degna del giovane Werther, come: “La sua anima non soltanto non mi apparteneva, ma non apparteneva più nemmeno a lei”.
L’idea di Silvia derubata dell’anima, adepta e sacerdotessa di questo nuovo e antichissimo culto profano, vittima di un delirio masochista addirittura, non verrà minimamente smossa dalle ripetute affermazioni di lei circa il fatto che con il ragazzo e i suoi nuovi amici, giovani e popolani, lei semplicemente “non si annoia mai”.
Pur dicendosi che il motore che l’ha spinto a cercare altre donne è stato sempre quello della noia, sopraggiunta dopo un mese o due di passione, Filippo non sembra accettare il fatto che la medesima molla, semplice noia e non fanatismo amoroso, sia alla base della scelta della moglie.
Ovviamente il finale, la morte violenta di Silvia, sembra confermare la visione tutta maschile di narratore e probabilmente anche autore: come Anna Karenina, Silvia è vittima della propria follia amorosa, mentre il protagonista, che invece sa separare l’affezione razionale dalla passione della carne, dall’amore ignorante, la fa franca.
L’amore ignorante
Ignorantissimo è definito il ragazzo, teppistello di buona famiglia, con le sue idee fasciste forse assimilate per osmosi, con il suo culto della forma fisica e della virilità, ma ignorante è anche Paloma, con i suoi miopi e rosei sogni di famiglia e bambini da un uomo di trent’anni più vecchio, nonostante lui non si preoccupi nemmeno di far finta di condividerli.
Il ragazzo-fallo e Paloma sono le due facce della stessa medaglia: l’una quella oscura, il sangue versato, l’odore dolce e nauseante della morte, l’altra quella solare e abbagliante, il sangue che preme verso la vita al livello più elementare: stare vicini, costruire, riprodursi.
Silvia ne abbraccia una, di slancio, e fino alle estreme conseguenze.
Il narratore invece ne ha abbracciato l’altra, ma con riserva, tenendosi in bilico, finché la fine drammatica e annunciata di Silvia non lo farà cadere. La paura allora sarà forse la molla – non se ne vedono altre – che lo spingerà ad aggrapparsi al salvagente lungamente e inutilmente offerto, alla vita rappresentata dalla ragazza, da un figlio fuori tempo massimo, da un focolare in campagna.
Prima di questo, dal momento della scoperta-visione, a quello della presentita tragedia, il lettore è, al pari del narratore, bloccato, paralizzato, avvolto nelle spire vischiose di un sonno chimico, di una narcosi che paralizza. L’unico movimento che può seguire è quello ipnotico e malato dello svolgersi e riavvolgersi del pensiero del protagonista, tra lucida analisi e allucinazione, tra passato e presente, tra realtà e presagio, tra bisogno di agire e seduzione del lasciar andare, il volto di Silvia sempre in primo piano ma sfocato, deformato dalla visione maschile: ora bello e sensuale, ora vecchio e stanco, segnato dal desiderio che la sottomette, il volto reale non ci sarà mai mostrato.
L’ultima immagine di Silvia è quella del suo corpo sul freddo acciaio di un carrello all’obitorio, mentre il narratore ci dice che – immaginandosi accanto a lei su quell’acciaio, lucido come uno specchio – non crede di averla mai amata tanto, mentre confonde la sua immagine con quella della Giulietta shakespeariana. Che cosa ami in lei, in quel momento, se la propria immagine riflessa, se la Morte che rappresenta, con il suo fascino ambiguo e terribile, o l’Amore che evoca, o la donna che è stata, possiamo solo provare a immaginarlo.
Quello di Silvia appare in ogni caso come un sacrificio necessario; la violenza della sua fine esorcizza il desiderio di morte del protagonista e gli fa scampare il pericolo di cedervi.
In questo senso Filippo si sentirà “il vero mandante” dell’omicidio – rimasto senza colpevole – di Silvia; la pianta tropicale doveva essere sacrificata perché la rovina maya, ancora in piedi, potesse essere ristrutturata e ridipinta di una nuova, improbabile, tinta pastello.
L’amore ignorante, il sangue che chiede sangue, l’istinto basilare di sopravvivenza e riproduzione sembrano, a costo di un sacrificio umano, prendersi una rivincita sulle costruzioni e le complicazioni dell’intelletto.
(1) Mal faire, dire vrai. Fonctions de l’aveu, Michel Foucault, inedito, consultabile presso l’IMEC, Fonds Michel Foucault, D 201
L’odore del sangue, Goffredo Parise, Rizzoli, 1997