Israele ospite al Salone del Libro: il boicottaggio mancato
“La partecipazione di Israele avrà un carattere rigorosamente culturale, quindi non politico, non propagandistico e non celebrativo. Il vero ospite d’onore è dunque la libera cultura d’Israele, perché sulla cultura, e non su altro, si misura l’onore di un Paese. […] Ci sfugge il nesso tra politica e cultura, quando è così rozzamente delineato. Le ragioni della letteratura e quelle della politica sono sempre state profondamente diverse e spesso radicalmente opposte”.
Così si legge nella Lettera aperta a Tariq Ramadan del 6 febbraio scorso a firma di Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni, rispettivamente direttore e presidente della Fiera del libro, svoltasi a Torino lo scorso mese di maggio.
La scelta dell’organizzazione del Salone di invitare Israele quale Paese ospite, nel sessantesimo anniversario della sua fondazione, ha innescato, per reazione, un movimento di boicottaggio, da parte di alcuni scrittori e intellettuali che hanno ravvisato, soprattutto nella tempistica – l’anniversario – e nella concomitanza del medesimo invito rivolto dal Salon du Livre di Parigi tenutosi nel mese di marzo, una matrice politica; tra questi anche Tariq Ramadan, intellettuale e professore presso l’Università di Oxford e la Erasmus University, al quale la lettera aperta si rivolge nell’intenzione di rispondere contemporaneamente a tutti coloro che, sostenendo o meno il boicottaggio, hanno criticato i termini dell’invito rivolto a Israele.
Le parole di Ferrero e Picchioni sono sacrosante; peccato siano la stessa struttura dell’evento e la realtà attuale del campo di potere letterario a negarle, finendo per rivelare, in un paradosso, la mistificazione messa in opera.
L’autonomia dell’arte nasce solo nell’Ottocento; Flaubert e Baudelaire furono i primi a rivendicare la necessità che la letteratura, e la cultura in genere, si rendessero autonome, creando un campo di potere legato a principi propri rispetto ai quali legittimarsi. L’autonomia nacque rifiutando contemporaneamente le regole economiche del mercato e le regole politiche dei salotti, pratiche che avevano sostituito la subordinazione diretta della cultura al potere dominante in essere fino al secolo prima, attraverso le committenze di opere da parte del mecenatismo, di Stato o privato che fosse. Nel XIX secolo, infatti, la subordinazione si fa strutturale: i salotti, spazi chiusi ed elitari, diventano i luoghi nei quali le classi dominanti, borghesia e aristocrazia, si incontrano, dialogano, tessono trame, e nei quali invitano gli scrittori mirando ad appropriarsi del potere di consacrazione e legittimazione culturale che questi ultimi possono loro offrire; non si tratta di un’imposizione diretta e prevaricatrice, piuttosto di una forma morbida di influenza basata su favori, compromessi, compromissioni, riconoscenza.
Viene a crearsi uno stile di vita e valori che affinandosi diventa il medesimo per tutti, uomini politici, borghesi industriali, aristocratici terrieri e scrittori e senza alcun dubbio, con più o meno consapevolezza, questi ultimi, una volta entrati a far parte del ristretto gruppo elitario dominante, difficilmente sono in grado di mordere la mano che dà loro da mangiare e di mettere in discussione un mondo borghese che elevandoli a intellettuali concede loro privilegi e consacrazione.
Frequentano i salotti anche i direttori dei giornali più importanti, rappresentanti di quel potere – in improvvisa ascesa – che è la carta stampata, mezzo per creare e manipolare la pubblica opinione: stroncare o lanciare una carriera letteraria dipendeva da loro, far esplodere le vendite di un romanzo con una critica positiva o relegarlo nell’oblio con una negativa o, peggio, con il silenzio.
È attraverso il potere della stampa che entra di prepotenza nei salotti anche il nuovo concetto economico di ‘mercato’ con le sue proprie regole: la qualità di uno scritto viene ora valutata in base al numero delle copie vendute e la possibilità dell’autore di trovare un editore disposto a pubblicare la sua opera successiva è data solo e soltanto dal successo di vendite ottenuto da quella precedente. La letteratura dunque si ritrova dominata e influenzata da regole e principi che non le appartengono ma che sono lo scheletro portante di altri campi di potere, quello politico e quello economico. Da qui la necessità di sottrarsi a qualsiasi condizionamento esterno, diretto e indiretto. “Non resta più niente,” scrive Flaubert, “bisogna ritirarsi e continuare a testa bassa, come una talpa”.
Il nuovo concetto de ‘L’Arte per l’Arte’ è dunque la rivendicazione di quell’autonomia che permette a ogni autore di porsi in contrapposizione a un mondo borghese che degrada la letteratura a produzione culturale, che la rende guardiana degli interessi di una classe dominante e incapace di mettere in discussione lo status quo; l’Arte per l’Arte è il rifiuto da parte dello scrittore di sposare qualsiasi causa, sociale o politica – sodalizio che lo rende incapace di vedere le contraddizioni insite in ognuna – in nome dell’universalità di valori quali la verità e la giustizia. L’autore deve essere indifferente alle esigenze di una politica che è ragione di Stato e alle ingiunzioni di una morale comune che è sovrastruttura creata dalla classe borghese dominante e ciò lo pone, inevitabilmente, fuori dal mercato; oggi ancor più che nell’Ottocento.
La rivendicazione dell’autonomia passa anche attraverso il rifiuto delle istituzioni letterarie, dei premi, delle consacrazioni che, dall’alto, il potere politico, economico e della stampa fanno calare sugli scrittori. “In un premio ufficiale c’è qualcosa che spezza l’uomo e l’umanità, e offusca il pudore e la virtù” afferma Baudelaire.
Il Salone del libro di Torino è, a un tempo, salotto, mercato e istituzione letteraria. Riunisce in sé tutto ciò che, due secoli fa, quell’arte che aveva compreso di non essere mai stata autonoma iniziò a rifiutare.
Che il Salone rispecchi le più banali regole del mercato è evidente anche al più ingenuo visitatore: all’interno degli squallidi capannoni del Lingotto avvilenti stand di case editrici in fila l’uno all’altro vendono i propri prodotti (i libri, ahimè) a un prezzo, in genere, scontato per l’occasione. Un mercato delle vacche, nel quale il ‘consumatore finale’ entra pagando un biglietto per spintonarsi e farsi largo all’interno degli spazi delle solite grandi case editrici e acquistare libri che potrebbe trovare in una qualsiasi libreria mediamente rifornita; emblematicamente sempre quasi vuoti gli stand delle piccole case editrici – le poche che possono permettersi di pagare il costo dello spazio – quelli che dovrebbero al contrario essere sovraffollati proprio per l’impossibilità di trovare i testi da loro pubblicati negli scaffali delle librerie che sempre più, in pieno rispetto delle logiche di mercato, tengono solo quei ‘prodotti’ a largo consumo. A passare una mano di ‘cultura’ sopra la struttura biecamente economica, gli ‘eventi’, gli incontri con gli autori e i falsi dibattiti nei quali mai fa capolino un pensiero autonomo, coraggioso, critico e articolato sulla società, su ciò che è divenuta la letteratura oggi in Italia, sulla situazione avvilente dell’editoria nazionale.
Il carattere politico della Fiera è stato quest’anno altrettanto evidente nella scelta caduta su Israele. L’invito a un Paese quale ospite del Salone è un’iniziativa nata nel 2001 e ha visto passare, negli anni, Olanda e Fiandre insieme, Catalogna e Svizzera insieme, Canada, Grecia, Portogallo, Brasile e Portogallo insieme, e Lituania. Non si tratta dunque sempre propriamente di Stati – non lo sono Fiandre né Catalogna – ma Paesi, inteso nel senso lato del termine, regioni con una propria cultura forte e caratteristica che non sempre si identifica all’interno di confini geografici politicamente riconosciuti. Israele è certamente uno Stato. Delle due l’una, allora: o Israele è stato invitato in quanto nazione e allora, al proprio interno, comprende non solo scrittori di cultura ebraica ma anche autori e intellettuali israeliani arabi, cristiani e mussulmani – perché tale è la composizione della cittadinanza di Israele, per quanto Stato confessionale – o l’invito è stato rivolto alla cultura ebraica e allora, per la peculiarità che contraddistingue la storia di questo popolo, vi rientrano anche scrittori di nazionalità statunitense quali Saul Bellow e Philip Roth, per esempio.
L’intenzione palese è stata dunque quella di voler celebrare la nascita dello Stato confessionale di Israele nel sessantesimo della sua fondazione, in un momento storico in cui i rapporti di forza nell’area del Medioriente misurano gli equilibri mondiali e Israele, longa manus degli Stati Uniti nella regione, porta avanti una politica sempre più aggressiva, imperialistica e militare. La Fiera di Torino si rivela dunque essere una delle forme attuali dei salotti dell’Ottocento – benché, in una società mediatica come quella odierna, il salotto per antonomasia sia la televisione – all’interno della quale la letteratura è stata chiamata a farsi strumento per legittimare culturalmente una ben definita ragion di Stato che abbraccia tutte le nazioni occidentali.
L’invito rivolto a Israele ha quindi involontariamente svelato l’impostura di una struttura che maschera i propri interessi economici e politici dietro la presunta e falsa rivendicazione di un’autonomia della letteratura e innanzitutto per questo, prima che per le – legittime – ragioni politiche, l’evento di Torino avrebbe dovuto essere boicottato da ogni scrittore e intellettuale italiano, compresi coloro i quali, proprio esprimendo “una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come Paese ospite dell’edizione 2008” hanno invece sottoscritto l’appello contro il boicottaggio, rivendicando un’autonomia “apartitica e politica solo nell’accezione più alta e radicale del termine” facendosi, al contrario, portavoce di una letteratura degradata a strumento di interessi politici.
La stessa rivendicazione di un principio di dialogo come principio deontologico della letteratura – “compito specifico degli intellettuali è proprio quello di costruire dei ponti, di tenere aperto il discorso” scrivono Ferrero e Picchioni nella lettera sopra citata, “Gli intellettuali dovrebbero essere i primi a dire «lavoriamo per il dialogo»” afferma lo scrittore Yehoshua – rimuove totalmente la figura dell’intellettuale critico verso il potere, nata con Émile Zola: il suo J’accuse del 1898 tutto era fuorché una disposizione al dialogo.
Senza l’autonomia precedentemente rivendicata dagli scrittori che si riconoscevano ne l’Arte per l’Arte, che pur si erano eccessivamente richiusi in se stessi al punto di rifiutare qualsiasi presa di posizione politica e tacere dinanzi alla repressione che terminò l’esperienza della Comune di Parigi nel 1871 – un silenzio per il quale Sartre li accusò, a ragione: “Considero Flaubert e Goncourt responsabili della repressione che seguì la Comune per non aver scritto una riga che la impedisse. Non era affar loro, si dirà. Ma il processo di Calas era affare di Voltaire? La condanna di Dreyfus era affare di Zola? L’amministrazione del Congo era affare di Gide?” – quel j’accuse non avrebbe potuto essere lanciato; Pasolini non avrebbe potuto scrivere, il 14 novembre 1974 sulle pagine del Corriere della Sera, Il romanzo delle stragi e affermare, a voce alta, libera, determinata e coerente, il suo “Io so”. Sartre stesso, per quanto critico nei confronti de l’Arte per l’Arte, non sarebbe forse stato nella condizione di poter rifiutare, nel 1964, il Nobel – e il conseguente cospicuo premio in denaro – affermando di non voler essere “istituzionalizzato”. Scrive in una lettera pubblica all’Accademia svedese: “Quando nel dopoguerra, nel 1945, mi è stata proposta la Legione d’Onore, ho rifiutato malgrado avessi amici al governo. Ugualmente non ho mai desiderato entrare al Collège de France (gli era stata offerta una cattedra, n.d.a.) […]. Non è la stessa cosa se mi firmo Jean Paul Sartre e Jean Paul Sartre Premio Nobel. […] Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione”. E ancora, in dichiarazioni in merito al suo diniego, afferma:
“Non voglio essere letto perché Nobel ma solo se il mio lavoro lo merita. E poi, chi è quel tribunale per giudicare la mia opera?”
Al pari di un moderno Prometeo l’intellettuale – perché le “ragioni della letteratura e quelle della politica” siano tra esse davvero “profondamente diverse e spesso radicalmente opposte”, come con ipocrisia affermano Picchioni e Ferrero – non deve riconoscere altra legittimazione che quella del tribunale del proprio autonomo campo di
potere, portatore di valori universali.
Nel Prometeo incatenato di Eschilo, Prometeo dona il fuoco agli uomini: “La gemma ch’è tua, la fiamma lucente radice d’industrie, lui l’ha carpita, l’ha fatta compagna dell’uomo. Eccolo, il suo delitto: è dovere che ne sconti il castigo agli dèi. Gli serva da scuola, per farsi devoto a Zeus padrone, per spegnere quel suo amorevole tendere all’uomo”. Dio tra dèi – come quasi sempre borghese tra borghesi, lo scrittore – Prometeo rifiuta le regole elitarie e chiuse della propria classe di nascita e tende, in nome di un principio di giustizia universale, verso gli uomini, creature dominate e prive di potere: il fuoco che egli dona è simbolo di emancipazione, emblema di una letteratura e di un pensiero critico e autonomo. Sfida Zeus, potere supremo – “Nessuno è padrone di sé tranne Zeus” – Zeus che innalza alla vita e condanna alla morte, Zeus industria culturale, mercato e salotti.
Incatenato a “una rupe desolata, ghiacciata, ai confini del mondo”, Prometeo è condannato a un diuturno strazio – “Il segugio volante di Zeus, l’aquila striata di sangue, golosa, farà macello di te, cencio smisurato di carne: tu non l’inviti, ma lei scivola dentro, al festino, e finché dura la luce fa onore alla mensa, al tuo fegato scuro!” – che si rinnova ogni giorno: il rapace impietoso si ritira al sopraggiungere delle tenebre per ricomparire puntuale al banchetto a ogni sorgere del sole, per l’eternità. Per lo scrittore che rifiuta di mettere la propria arte, il proprio pensiero, le proprie parole al servizio della classe dominante, il castigo dell’oblio su un picco di roccia quando non la condanna aperta da parte di tutto il sistema dell’industria culturale, quale è stata l’alzata di scudi contro la stessa idea di boicottaggio: quotidiani e salotti televisivi hanno offerto, come sempre, pulpiti dai quali scrittori consenzienti, placidi, grassi e soddisfatti, hanno potuto farsi portavoce del Sistema stesso, in una vergognosa manifestazione di propaganda politica che ha, tra l’altro, rivelato un’abissale ignoranza. Boicottare è un errore in sé, chi sostiene il boicottaggio vuole mettere il bavaglio alla cultura, zittire gli scrittori israeliani, negare l’esistenza stessa dello Stato di Israele, ci è toccato sentire; l’atto del boicottaggio culturale è stato velatamente assimilato alla folle posizione politica di Ahmadinejad, presidente dell’Iran, che nega l’esistenza dell’Olocausto e dichiara di voler distruggere Israele.
Nel 1880 l’ufficiale Charles Cunningham Boycott, amministratore della tenuta del conte di Erne, dopo anni di vessazione nei confronti dei fittavoli irlandesi si rifiutò di accettare i loro pagamenti, non riconoscendo i calcoli in base ai quali essi li avevano conteggiati; fu ‘boicottato’. I contadini si riunirono in una Lega e si astennero da qualsiasi rapporto con lui, commerciale e sociale, allo scopo di esercitare una pressione e influire sulla sua decisione. Questo significa boicottare. Non ha nulla a che vedere, quindi, con il riconoscimento o con la negazione di un’esistenza – di Stato, persona o cultura che sia.
Ma la fine di Prometeo fa scuola – dominarne uno per dominarne tanti.
“Mi manca, dentro, lo scatto brutale di stringere un dio del mio sangue alla rupe, rabbiosa di gelo. Ma è certo, fatale: io devo afferrarla, in me, la forza del gesto. Pesa, non dare importanza alla parola del Padre” langue Efesto, mentre incatena Prometeo alla roccia. “Piangi su quelli odiati da Zeus? Attento, che domani la pena non sia su te stesso” lo minaccia Cratos. Ed Efesto, a testa china, martella i blocchi che imprigionano Prometeo.
Dominio e terrore, Cratos e Bia, sono gli esecutori del comando impartito da Zeus, figure che nella mitologia greca incarnano la forza e la violenza, tutori dell’ordine del regno degli dèi; la loro minaccia incombe su tutti coloro che assistono alla messa in catene – il Coro delle Oceanine e Oceano – e che, terrorizzati alla sola idea di prendere
le difese di Prometeo e di essere per questo accomunati alla sua volontà di ribellione – e al suo infausto destino – tentano di riportarlo alla ragione.
“Tu hai peccato, lo vedi?” lo supplica il primo, “Tu non ostinarti a far ricchi i viventi. […] Libero da questi tuoi nodi avrai forza non meno di Zeus”; “Flettersi all’inevitabile è equilibrio”: opporsi, è perdere i privilegi. “Tu sempre in ginocchio, lusinga il padrone” lo apostrofa Prometeo.
“Sento che devo ispirarti la scelta migliore.” incalza Oceano, “Lascia che io ti insegni: non devi impuntarti sotto la sferza. Vedi, oggi domina un despota aspro, immune da ogni giudizio. […] Sei pieno d’ingegno sottile: come non sai che supplizio inchioda una lingua sventata?”
Ma Prometeo non si piega e non si tace, ancorché già incatenato alla roccia, condannato a un supplizio senza fine; urla, denuncia, lancia il suo j’accuse contro il potere.
Giunge quindi Ermes, “il corridore di Zeus, braccio destro del despota”, in un ultimo tentativo di zittire quella voce che possiede il dono della preveggenza e che preannuncia la caduta del dominio di Zeus: “Ehi, pozzo di scienza, testardo intestardito, l’hai fatta grossa agli dèi: passare i poteri a chi tramonta in un giorno! Ladro di fuoco, dico a te. Zeus padre comanda: di che nozze ti glori, per mano di chi deve cadere il suo impero?”
“Discorso sublime, davvero. Si sente, mente superba, la tua: da sgherro degli dèi. Siete di oggi. Di oggi è il vostro dominio: illusi di vivere in torri sbarrate all’angoscia. […] Il tuo stare a servizio, il mio sacrificio: non farei cambio mai, imparalo bene. […] Peccatori superbi così peccano, superbamente! […] Nel numero metto anche te”.
“Lo scrittore è in situazione nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche” scriveva Sartre. Nel numero, sono da mettere tutti gli scrittori e gli intellettuali che alla Fiera del libro di Torino hanno partecipato, anche con il silenzio. Perché anche il solo atto di presenza, ha l’eco di un avallo a una letteratura serva dei poteri economico e politico.