Legge elettorale e quote rosa: norma antidiscriminatoria, pratica antifemminista e sessista o… questione di Pil?
Il 10 marzo scorso gli emendamenti che proponevano l’introduzione delle quote di genere (le cosiddette ‘quote rosa’) nella legislazione elettorale italiana non sono riusciti a ottenere il placet parlamentare. Tuttavia, per bypassare la bocciatura incassata alla Camera con voto segreto e far sì che al Senato si trovi il modo di inserire una clausola che stabilisca l’alternanza uomo-donna in testa alla lista, è pronto un documento che sta circolando in questi giorni (il 18 marzo per chi scrive) nell’aula di Montecitorio. Lo firmano una ventina di deputate Pd tra cui Alessandra Moretti, Barbara Pollastrini, Marina Sereni e Vanna Iori. Questo è il testo della lettera su cui si cerca una convergenza: “Oggi voteremo la legge elettorale, convinti che il Paese ha bisogno di riforme. C’è una forte delusione per una grande occasione mancata dovuta alla bocciatura degli emendamenti sulla parità di genere e la norma antidiscriminatoria che puntavano a dare attuazione all’art. 51 della Costituzione.
Il Pd, a differenza di altri partiti, ha già dimostrato il rispetto della parità nella formazione del nuovo esecutivo e preso l’impegno alla realizzazione dell’alternanza uomo-donna nella formazione delle liste elettorali. L’attuazione del principio di parità di genere è per noi una questione fondamentale, ancora aperta nel passaggio al Senato. Chiediamo che uomini e donne del Pd si impegnino a portare come priorità nell’incontro di direzione e gruppi di Camera e Senato, proposto dal segretario Matteo Renzi, il recupero della norma che prevede la garanzia di un equilibrio di genere nei capilista (40/60), non approvata ieri dalla Camera. La democrazia paritaria è elemento che deve caratterizzare la nuova legge elettorale in quanto nasce dalla consapevolezza del valore economico, sociale, politico e culturale dell’uguaglianza di genere in tutti i campi per migliorare il benessere e lo sviluppo di tutti noi. Consideriamo questo un passaggio qualificante perché la nuova legge elettorale così importante dopo anni di continui e frustranti tentativi possa arrivare alla sua definitiva approvazione con il nostro pieno consenso” (1).
Ma l’argomento è caldo anche per un’altra ragione: il 19 marzo prende il via al Senato l’esame del disegno di legge che inserisce le quote rosa nella legge elettorale per le europee, previste a fine maggio, e in molti partiti ci sono grosse perplessità sul provvedimento che è ormai diventato ‘materia sensibile’. “Se le democrazie non riescono a garantire in maniera naturale il coinvolgimento delle donne in politica, allora è necessario che intervengano gli Stati con delle leggi ad hoc”. Con queste parole Michelle Bachelet, Direttore esecutivo dell’agenzia delle Nazioni Unite dedicata alle donne e all’uguaglianza di genere, esordiva in conferenza stampa a New York presentando il rapporto Donne e politica del 2012: “La democrazia crescerà e si rafforzerà solo quando a tutte le donne verranno garantite pari opportunità”. Il rapporto, stilato in collaborazione con l’Unione interparlamentare, disegna una mappa dei progressi fatti in tutto il mondo sulla partecipazione femminile alla vita politica, da cui si evince che le quote rosa rappresentano il vero elemento di svolta per il perseguimento dell’inclusione delle donne. “Le Nazioni Unite si impegneranno a sostenere i movimenti delle donne, a lavorare con i Parlamenti mondiali affinché legiferino in favore della parità dei sessi e del coinvolgimento femminile nella vita politica”, ha detto la Bachelet.
Le quote di genere sono una delle strade possibili per assicurare alle donne non solo un’adeguata visibilità politica, ma numeri abbastanza consistenti per fare la differenza, come si dice spesso. Nel mondo le donne presenti in Parlamento sono in media il 20,4%, secondo il sito Quotaproject.org (gestito congiuntamente dall’Università di Stoccolma, l’Unione interparlamentare e Idea-International institute for electoral assistance). I Paesi scandinavi sono tradizionalmente quelli in cui le donne contano di più, ma recentemente il Rwanda (in cui sono state introdotte le quote rosa) ha rubato alla Svezia il primato in termini di rappresentanza parlamentare al femminile (56,3% contro 47,3%), dimostrando che il sistema delle quote rappresenta di sicuro la via più veloce verso un equilibrio di genere in politica. In effetti questi correttivi sono molto più diffusi di quanto comunemente si pensi, e un numero crescente di Paesi li sta introducendo nei propri meccanismi elettorali, tanto che, sempre secondo Quotaproject, “la metà delle nazioni mondiali usa oggi un qualche tipo di quota di genere nelle elezioni parlamentari”.
Le quote rosa rappresentano il risultato ‘operativo’ della sostituzione concettuale fra la nozione liberale classica di uguaglianza, intesa come ‘medesime opportunità’ (o uguaglianza competitiva), con un altro tipo di uguaglianza, intesa nel senso di ‘pari risultati’, in conformità alle indicazioni espresse a Pechino dalla IV Conferenza mondiale delle donne, nel settembre 1995, in seguito alle forti pressioni dei movimenti femministi. L’argomentazione di base a favore di questa sostituzione concettuale è che non esistono pari opportunità di partenza, nemmeno quando si eliminano gli ostacoli formali: l’effettiva parità non può essere raggiunta attraverso la parità di trattamento, poiché le discriminazioni dirette e un complesso insieme di barriere indirette (culturali e non), impediscono alle donne di condividere il potere politico. Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato.
In questa prospettiva, le quote non sarebbero una discriminazione nei confronti degli uomini (come sostengono i detrattori del sistema), ma piuttosto una compensazione per le barriere strutturali che le donne incontrano nel processo elettivo. Questo sistema pone dunque l’onere del risultato non sullo sforzo delle singole donne (come avverrebbe con la nozione competitiva), ma su coloro che controllano il processo di reclutamento politico.
Comunemente, sotto il cappello di ‘quote rosa’ vengono raggruppati meccanismi diversi, riconducibili sostanzialmente a tre possibili varianti. La prima consiste nel determinare per legge un numero minimo di seggi da destinare alle donne: questo tipo di quota è quella che permette di ottenere da subito e sempre il risultato desiderato, perché non ammette nessuna discrezionalità.
La seconda variante, più morbida, consiste invece nello stabilire per legge una percentuale minima di candidature femminili nelle liste elettorali: in questo caso il risultato che si otterrà in termini di riequilibrio dipenderà sia dal sistema elettorale vigente (le quote in lista funzionano meglio nei sistemi proporzionali che in quelli maggioritari), sia dai sistemi sanzionatori posti in essere per evitare che le norme vengano aggirate. Nell’ultima variante sono i partiti a stabilire liberamente nei loro statuti una percentuale di candidature da riservare alle donne, e in questo caso i fattori che possono condizionare l’effetto parlamentare desiderato si moltiplicano. Il termine ‘quota’ copre dunque una larga gamma di strategie di inclusione, che variano nelle diverse legislazioni anche per il peso quantitativo minimo stabilito (dal 20% al 50%). Tuttavia, secondo Drude Dahlerup, professoressa emerita alla Stockholm University ed esperta di questioni di genere, sotto la “soglia critica” del 40% non sarebbe possibile percepire la presenza femminile nelle pratiche politiche.
L’analisi dei Parlamenti dei ventisette Stati membri dell’Unione europea evidenzia come la strada per la parità appaia ancora lunga da percorrere: solo otto Paesi registrano una partecipazione femminile sopra il 30% e solo due sopra il fatidico 40% (Svezia e Finlandia). In Europa la presenza femminile in Parlamento è in media del 25,6 per cento, ma nella maggior parte dei Paesi (16 su 27) la percentuale di donne è inferiore alla media europea. Le quote sono fissate per legge in Francia, Portogallo, Belgio, Spagna, Polonia, Lussemburgo, Grecia, Irlanda e Slovenia, ma la percentuale stabilita dalle quote varia nei diversi Paesi e dipende dal sistema elettorale. In Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, e Germania le quote di genere sono adottate dai partiti, e non sono stabilite per legge. in Italia solo il Pd si è dato il vincolo del 50% di candidature al femminile, con la stretta alternanza in lista fra uomini e donne. In Danimarca, Finlandia, Lituania, Bulgaria, Estonia e Liechtenstein, infine, non esiste nessuna forma di regolamento per favorire la presenza femminile nelle liste elettorali e in Parlamento (eppure in certe realtà, come Danimarca e Finlandia, questo non sembra costituire un limite).
Detto questo, a casa nostra il pressing sulle quote rosa lo fanno solo le parlamentari, e nemmeno tutte, o così sembra. Dopo la bocciature degli emendamenti alla legge elettorale, gli articoli contro le quote di genere si sono sprecati e, caso strano, sono soprattutto gli osservatori donna, di destra e di sinistra, a criticare la loro adozione.
Da sinistra Lea Melandri, una voce storica del femminismo italiano, commenta: “Col politicamente corretto non si cambia niente. Questo dibattito ignora mezzo secolo di battaglie e riflessioni, perché parte, ancora una volta, dall’idea della donna come di una minoranza da difendere e rappresentare. Io voglio e sostengo la necessità di una presenza femminile più consistente nelle istituzioni. Ma non è con le bandierine del 50-50 che la otterremmo. Non è così che verrà scalfito il maschilismo del Paese” (2). Secondo Ida Dominijanni, pensatrice femminista e firma storica de Il Manifesto, in primo luogo “il superamento delle barriere culturali non può essere garantito per legge. In secondo luogo, il femminismo radicale è sempre stato contrario a una parità intesa come neutralizzazione del conflitto, oppure come spartizione del potere. È quello che sta accadendo in queste ore alla Camera: le parlamentari in fondo stanno dando battaglia per garantire alla quota femminile la metà del potere. Capisco che esistano pressioni per correggere i terribili meccanismi di autodifesa maschile, ma la parità obbligatoria al 50% è artificiosa” (3).
Elettra Deiana, ex parlamentare e membro della presidenza nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà, nota che “la trattativa femminile con i poteri maschili a un certo punto ha preso il posto della politica femminile che aveva tentato di modificare quei poteri. Il ‘costituito’ delle quote ha preso il posto del ‘costituendo’ (un modo diverso di intendere la politica, per esempio; un cambiamento del ruolo del partito, e delle relazioni tra i sessi o altro ancora o quello che volete voi)” (4). Secondo Cecilia Calamani, blogger di Micromega, le quote rosa sarebbero addirittura sessiste: “L’appello bipartisan delle nostre parlamentari per inserire nell’Italicum la parità di genere ha lo stesso sapore strumentale dello scegliere metà dei ministri donna (e sventolarlo come ‘progresso’). Parlare di necessità delle quote rosa nella rappresentanza politica è un boomerang che invece di favorire la parità dei sessi ne rimarca la disparità. Crea una specie protetta, da riserva indiana, che è propria del sessismo, non della parità. Che una donna valga in quanto ‘donna’ e non in quanto ‘capace’ cos’è se non sessismo?” (5).
Da destra una voce su tutte, quella di Costanza Miriano, giornalista ultracattolica: “Le donne […] non si sentono rappresentate dalle ‘Se non ora quando’, non credono che la soluzione ai loro problemi sia il bonus bebè per mettere i figli al nido, né gli asili aziendali, né l’allungamento dell’orario scolastico. Perché il vero problema, quello che impedirà alle quote rosa di funzionare bene, quello che toglierà le donne migliori dal mondo del lavoro, non è il problema femminile, ma il problema della maternità. Le donne il più delle volte non vengono discriminate in quanto femmine: per esempio nel mio mondo del lavoro, il giornalismo, sono ormai la maggioranza a occhio e croce. Quello che discrimina è la difficoltà oggettiva di tenere insieme tutto, e fino a che il mondo del lavoro non diventerà a misura di figli (congedi pagati, flessibilità, telelavoro, part time obbligatorio a richiesta) le donne si tireranno indietro da sole – almeno per un periodo – quando diventeranno madri, semplicemente perché Women can’t have it all” (6).
Anche Filippo Facci, sulle colonne di Libero, boccia da destra l’introduzione delle quote di genere, ma per una ragione diversa: “Le quote rosa in Parlamento ci sono già, senza contare quelle che ci sono anche nei governi. Sono quote informali, non codificate, quote che raccontano l’inciviltà del nostro Paese sulla parità di genere: non il contrario. Sono quote basate sul fatto che a compilare le liste restano uomini. E sono quote che, anche se a compilarle fossero donne, resterebbero figlie del Porcellum e quindi di un clientelismo femminile al posto di uno maschile. Sono quote, così come sono, che dovrebbero offendere le donne perché imperniate su un’immagine ornamentale e sul dettaglio che i singoli parlamentari non contano quasi più nulla. In più c’è un’aggravante: molte parlamentari su tutto questo ci marciano. Ecco perché è insopportabilmente ipocrita che molte invocano le quote rosa, ora, e però parlano come se fossero in Parlamento per merito: non è la verità. Sono state elette in quanto donne, e ora vogliono un’assicurazione in più sul futuro” (7).
La gente comune si accoda al comune sentire, e sembra non desiderare che alla legge elettorale italiana vengano apportati correttivi di genere, anche se i numeri in questo caso raccontano posizioni più sfumate: un sondaggio condotto online su Repubblica.it rivela che il 56% degli intervistati ritiene dannosa l’introduzione delle quote (“perché si tratta di un metodo impositivo che non fa onore alle donne”), e che il 59% è contrario anche all’alternanza di lista fra uomini e donne (“perché sarebbe una forzatura: se una donna ha capacità politico-amministrative scadenti, non ha titolo per essere candidata”).
Il merito, insomma, secondo gli italiani dovrebbe vincere su tutto. Dovrebbe, appunto, e se così fosse forse non avremmo squilibri di genere da bilanciare: ma pare che nel nostro Paese, dove le logiche clientelari sono da sempre la regola (difficile dare torto a Filippo Facci), merito e competenze vengano invocate solo per i candidati donna, e solo per nascondere che i criteri di selezione (per tutti) sono ben altri. In ogni caso, dal momento che siamo in democrazia (o così ci raccontano), perché una politica a favore delle donne dovrebbe essere condotta anche contro il loro parere?
Nel 2012 l’Ocse ha presentato il rapporto Closing the Gender Gap: Act Now (Chiudere il divario di genere: agire ora), un’analisi delle persistenti differenze nella partecipazione al mercato del lavoro, nei ruoli dirigenziali e imprenditoriali e nelle condizioni salariali per le donne nei 34 Paesi membri dell’organizzazione. Il rapporto mostrava come, nella media dei Paesi Ocse, a parità di lavoro e di posizione professionale le donne guadagnassero il 16% in meno degli uomini, differenza che saliva al 21% nelle posizioni professionali più elevate. Ancora, la media della differenza salariale tra uomini e donne in famiglie con uno o più figli saliva al 22%, mentre scendeva al 7% per le coppie senza figli, segno che la maternità, checché se ne dica, comporta ancora una seria rinuncia in termini economici e di status professionale.
La nota più interessante è tuttavia un’altra: il dossier prevedeva che, se nel 2030 il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, a parità di altre condizioni, raggiungerà quello maschile, la forza lavoro italiana crescerà del 7%, e con un incremento del Pil pro capite pari all’1% l’anno.
La ragione è abbastanza chiara: oltre al maggiore reddito che le donne potrebbero spendere se guadagnassero, o se guadagnassero di più, per permettere una maggiore inclusione femminile, ceteris paribus, sarebbero necessari – tra gli altri – interventi (più asili nido, baby sitter, corsi extra-scolastici, ma anche badanti, strutture per anziani ecc.), che andrebbero ad aumentare la spesa privata (o pubblica) per beni e servizi, e che a loro volta produrrebbero redditi spendibili sul mercato, creando un volano virtuoso (almeno agli occhi degli economisti) altamente desiderabile in tempi di vacche magre.
Evidentemente il concetto non è stato colto, o non abbastanza, fatto sta che l’Ocse ci ha riprovato anche quest’anno, e nella giornata della donna ha presentato un nuovo rapporto, intitolato Il progresso delle donne è il progresso di tutti in cui, basandosi su uno studio che ha coinvolto Francia, Regno Unito, Germania, Giappone, Australia e Usa, ribadisce per le nazioni che realizzino una reale parità di genere aumenti di Pil fino al 12% entro il 2030, evento che rappresenterebbe un importante contributo alla ripresa, soprattutto per i Paesi come l’Italia con scarse prospettive (è il caso di dirlo) d’altro genere. Siccome i legislatori uomini, a quanto pare, sono poco sensibili al problema della parità, servono più donne nei palazzi del potere per far passare norme a favore di questa ‘inclusione produttiva’ ed ecco quindi spiegata l’ossessione (maschile?) per le quote rosa. Se ci siano anche dei costi, sociali e non, in una più profonda partecipazione femminile al caotico e disumano mercato del lavoro, l’Ocse non lo dichiara, e comunque ormai la maggior parte delle donne non ha alternativa al farvi parte, spesso obtorto collo. Ma che questo rappresenti un progresso, davvero, non è stato per niente dimostrato.
(1) Costituzione, art. 51: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”
(2) F. Sironi, “Care deputate, siete rimaste all’800”. Le quote rosa secondo Lea Melandri, L’Espresso, 11 marzo 2014
(3) L. Eduati, Parità di genere, Ida Dominijanni: “Una legge è inutile e vittimizza le donne. Boldrini? La sua è ossessione paritaria”, L’Huffington Post, 10 marzo 2014
(4) E. Deianna, La Camera approva l’antidemocratico Italicum. Assurdo protestare per la parità di genere, Altri, 12 marzo 2014
(5) C. Calamani, Il sessismo passa (anche) dalle quote rosa, Blog Micromega, 10 marzo 2014
(6) C. Miriano, Quali donne vogliono le quote rosa?, costanzamiriano.com
(7) F. Facci, Le quote rosa ci sono già, Libero, 9 marzo 2014