Pd, 5 stelle e Lega; il partito delle élite, il Movimento che raccoglie i consensi del ceto medio in via di proletarizzazione, e una destra nazional-identitaria e sociale che fa asse con l’Ugl e arriva anche al Centro-Sud
I recenti avvenimenti politici, dalla Brexit alla vittoria di Trump fino all’affermazione in Francia del Front national, hanno portato alla luce le contraddizioni e la cecità di quella che viene definita, in modo abbastanza generico, l’élite. Le ultime elezioni politiche del 4 marzo scorso hanno allineato anche l’Italia sull’onda lunga del populismo, con l’affermazione, specie nel sud del Paese, del Movimento 5 stelle, e sia nel nord che in parte nella zona centro-meridionale, della Lega di Matteo Salvini; il primo con il 32,43% in entrambe le Camere, mentre il Carroccio, che supera Forza Italia (ferma al 14%) e porta il centrodestra a essere la prima coalizione, ottiene da solo il 17,4%, con punte del 5-6% nel Mezzogiorno.
Per mesi la stampa ha enfatizzato un allarme Onda Nera e teorizzato la possibilità, partendo dai dati di alcune singole realtà come il litorale di Ostia, che l’estrema destra neofascista potesse sfondare ed entrare in Parlamento. Alla fine l’Onda non c’è stata: CasaPound e Forza nuova (quest’ultima alleata con Fiamma tricolore nella lista unica Italia agli Italiani) hanno preso rispettivamente, pur presentandosi in tutti i collegi d’Italia, lo 0,9% e lo 0,37%, cioè le ovvie cifre omeopatiche “da prefisso telefonico. O da ‘irrilevanza’, per dirla con il commento della presidente dell’Anpi, Carla Nespolo”, annota Paolo Berizzi su Repubblica, spiegando che “uno dei motivi del tonfo di CasaPound Italia (e di Italia agli Italiani, n.d.a.) sta proprio […] nel processo che, tra gli elettori di destra, anche di estrema destra, ha portato a identificare la Lega come l’unico partito in grado di far pesare in Parlamento e magari in un governo le istanze sovraniste e il contrasto netto all’immigrazione” (1).
Insomma, come avviene dal 1995 dopo la svolta di Fiuggi e la nascita del Msi-Fiamma tricolore di Rauti, l’area neofascista italiana non sfonda se non localmente ed entro certe sottoculture marginali, al netto della sovraesposizione mediatica e dell’eccessiva attenzione che la sinistra antagonista (da quella movimentista fino ai vari soggetti partitici di area marxista, come la lista neocomunista Potere al popolo o la lista trockijsta Per una sinistra rivoluzionaria) le ha dato, invece di concentrare i propri attacchi contro il blocco liberal-liberista egemonizzato dal Partito democratico nel centrosinistra (coi suoi alleati, dai socialisti-ecologisti di Insieme ai radicali ultraliberisti di Emma Bonino di +Europa) e dal centrodestra.
Si può dunque dire che l’onda lunga del successo dei neonazisti greci di Alba dorata – esempio per il radicalismo di destra europeo – non è stata raggiunta perché una fetta consistente di elettorato di destra si è adeguato a una delle istanze più borghesi della politica occidentale, il voto utile: in questo caso indirizzato alla Lega, ormai non più “Nord” (nonostante Umberto Bossi non sia di questo parere, visto che la lista è stata presentata col consueto statuto nordicista) (2) ma nazionale e sovranista: al partito è infatti riuscita anche l’operazione al sud, presentando
25 candidati nei collegi uninominali dell’Italia meridionale, “in zone dove le percentuali della fu Lega Nord oscillarono tra lo 0,1 e lo 0,8 alle politiche di cinque anni fa. La strategia per raggiungere l’obiettivo è [stata] semplice: non catapultati o big di partito, ma candidati espressione del territorio” (3). Un mix di giovani e volti nuovi, riciclati – per lo più ex An, magari militanti de La Destra di Storace o di Fratelli d’Italia – e alcuni estremisti.
Pd partito delle élite
Queste ultime elezioni sono fondamentali anche per la lettura che ne è stata data: diversi quotidiani hanno evidenziato che il voto si è polarizzato in senso classista, un’analisi che da anni veniva snobbata. Nel 2013 infatti, il sociologo Ilvo Diamanti, analizzando su Repubblica il successo del Movimento 5 stelle con la scomposizione dei dati elettorali delle elezioni politiche, sostenne: “La base elettorale del M5s è interclassista” (4), facendo una comparazione con la vecchia Democrazia cristiana. Peccato che, se già allora si andavano a vedere i dati nel dettaglio, si scorgeva che il 70% circa dell’elettorato grillino era composto da studenti (dunque molti precari), lavoratori autonomi (dunque, sulla base di altre rilevazioni, circa un 40% di lavoratori autonomi poveri, vista la forte tassazione e che nella categoria erano incluse parecchie partite Iva o persone senza contratto e pagate con ritenuta d’acconto, o piccoli negozianti), disoccupati, operai; insomma, il quotidiano allora diretto da Ezio Mauro – dal 1976 l’house organ del progressismo italiano – per giustificare un inaspettato successo grillino pescato in aree, teoricamente, appannaggio del centrosinistra, definiva “interclassista” una base elettorale che lo è sicuramente, ma solo in parte. E dal 2013 la situazione sociale non è che peggiorata.
Un’analisi della Cgia di Mestre dell’ottobre 2017 annotava come le famiglie che vivono grazie a un reddito da lavoro autonomo sono quelle più a rischio: nel 2015 il 25,8% di questi nuclei familiari è riuscito a tirare avanti stentatamente al di sotto della soglia povertà calcolata dall’Istat, mentre dal 2008 ai primi sei mesi del 2017 lo stock di lavoratori autonomi (piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, liberi professionisti, coadiuvanti familiari ecc.) è diminuito di 297.500 unità (-5,5%); nello stesso arco temporale, la platea dei lavoratori dipendenti è invece aumentata di quasi 303.000 unità (+1,8%) – con che tipo di contratti e tutele, poi, è da vedere… (5). Siamo dunque di fronte a un ceto medio in via di proletarizzazione, ed è una situazione che si registra da anni in tutto il Paese: da qui lo sfondamento del Movimento 5 stelle nel Sud.
Un’analisi del Centro italiano studi elettorali della Luiss immediatamente successiva al voto rileva infatti che “a parità di varie condizioni socio-economiche le province con livelli più alti di disoccupazione presentano maggiore crescita del M5s, mentre le province con maggior aumento della presenza di immigrati presentano un voto più alto alla Lega”, e che “i cambiamenti nei comportamenti di voto e il successo di nuovi partiti sarebbero legati agli effetti di processi di trasformazione come la globalizzazione (sia in senso economico che in senso culturale) che – nel loro produrre vincenti e perdenti (ad esempio i lavoratori i cui posti di lavoro vengono delocalizzati, vedi il recente caso Embraco) – generano conflitti che possono essere cavalcati e politicizzati con successo dai partiti”.
In sintesi “il voto al Pd – rispetto al 18,4% dell’intero campione – è del 13,1% nella classe operaia, del 19,4% in quella medio-bassa, del 18,3% in quella media, mentre sale al 31,2% in quella medio-alta”, un risultato, conclude la ricerca, che conferma come il Pd sia “l’unico partito per cui si registrano effetti significativi della classe sociale sul voto, ma nella direzione inattesa di un suo confinamento nelle classi sociali più alte e con un reddito più alto. In sostanza il Pd del 2018 sarebbe diventato il partito delle élite. Il che aiuterebbe a spiegare perché la parte d’Italia preoccupata dalla precarietà economica e agitata da paure identitarie si sia indirizzata – dando loro oltre il 50% dei voti – verso partiti come Movimento 5 stelle e Lega”.
Il Pd si “configura quindi come partito delle élite”, e se la cosa è “coerente con la strategia scelta dal partito di puntare su temi come l’innovazione tecnologica, i diritti civili, l’integrazione europea, la globalizzazione, e più in generale con una narrazione ottimistica delle trasformazioni dell’economia e della società contemporanea” – nulla a che vedere, insomma, con il lascito socialdemocratico e laburista del vecchio Pds/Ds – tuttavia “l’altra faccia di questa strategia è che, inevitabilmente, i ceti che si sentono minacciati dagli effetti negativi di queste trasformazioni non hanno percepito il Pd come un partito in grado di ascoltare le loro istanze” (6).
Il Pd vince infatti nelle zone benestanti. Significativi i risultati dei collegi a Milano – zona di Corso Monforte e Via della Spiga, dove abbondano boutique, studi legali e negozi di lusso (7) – e a Roma, ai Parioli. La sinistra crolla ovunque, ma ai Parioli si continua a lottare (8), nota con ironia Linkiesta.it, evidenziando anche come la vittoria dell’ex ministro Marianna Madia si avvenuta con il 36% nel collegio che comprende l’agiato quartiere romano, storicamente di destra – pariolino è sempre stato sinonimo di giovane benestante borghese e destrorso (9). In vecchie roccaforti comuniste come Sesto San Giovanni e Reggio Emilia, invece, sono avanzati Lega, Fratelli d’Italia o M5s.
L’incognita leghista: una destra nazional-identitaria e sociale
La Lega Nord, il partito che abbiamo più volte analizzato su Paginauno – puntando i riflettori sulla sua anima identitarista e sui rapporti con filoni culturali antimoderni che, per comodità, definiamo di destra, nouvelle droite in primis ma anche la sottocultura cattolico-tradizionalista e addirittura neofascista – non esiste più. O meglio, formalmente il partito creato da Umberto Bossi fra il 1990 e il 1991 dalla federazione dei vari soggetti regionalisti dell’Italia settentrionale, esiste ancora, ma è rimasto tale solo nello statuto. Con le ultime elezioni è ufficialmente nata una nuova formazione, che è stata preparata dalla fine del 2013, quando poco prima di essere nominato segretario federale, Matteo Salvini incontrò a Milano il filosofo Alain de Benoist, in un dibattito sul tema: La fine della sovranità. La dittatura del denaro che toglie il potere ai popoli (10).
Dopo la nomina, Salvini mette da parte secessione e devolution e fa del suo partito un soggetto nazionale, che però – ed è questa la differenza sostanziale col Front national – non rinnega le proprie radici localiste: il Carroccio, anche a trazione nazionale, infatti, non è diventato un partito giacobino, come un tempo lo era, a destra, il Msi (come tutti i partiti della prima Repubblica, eccetto nell’estrema destra, frange isolate ultracattoliche o conventicole evoliane o nostalgici dell’Ancient Regime) (11) e i cugini del Front national. E lo si nota, checché ne dicano gli opinionisti liberal che parlano di ‘nazionalismo’, dai comizi di Salvini a Milano in piazza Duomo, davanti a cinquantamila persone circa, dove a parte uno striscione tricolore del Movimento per la Sovranità di Gianni Alemanno (l’ex destra sociale), non vi era un solo tricolore; segnale significativo in un’area nella quale la bandiera italiana è ancora percepita come un vessillo massonico-giacobino.
La principale piazza meneghina era invece piena di stendardi regionali del Nord e addirittura del Centro-Sud, compresa la bandiera sarda coi quattro mori. Questo perché la dimensione regionalista nella Lega è ancora molto sentita, semplicemente è da applicare a tutto il territorio italiano. Si pensi al lavoro culturale del gruppo Il Talebano, il think tank identitario leghista di Fabrizio Fratus e Vincenzo Sofo (12), quest’ultimo ex militante de La Destra di Storace di origini calabresi, passato al Carroccio perché percepito come “il solo movimento presente in Italia che si batte per la salvaguardia delle identità e delle tradizioni locali” (13), comprese quelle del Centro e del Sud; un partito, quindi, che non solo non pensa più alla secessione del Nord, ma che diventa a tutti gli effetti il movimento delle tante Italie e delle tante bandiere, a differenza di Fratelli d’Italia, e che rivela l’anima antirisorgimentale e antiglobalista di una certa destra che identifica nella globalizzazione che ha favorito la crisi un’essenza omologante risorgimental-massonico-giacobina, e nell’unità d’Italia il paradigma di tale processo.
Ma oltre a proiettarsi in vetta ai partiti del centrodestra, il nuovo Carroccio ha rafforzato al Nord la sua presenza (arrivando al 27,3% contro il 12,7% di Forza Italia) in aree un tempo a lui precluse, le cosiddette ‘regioni rosse’, da sempre in mano a Pci e Psi, dove ha segnato un 18,7%. Il tema dell’immigrazione ha pagato – il consenso è stato infatti forte nelle province dov’è alta la percentuale di immigrati e stranieri – ma anche il voto dato alla Lega ha risvolti di classe, come quello per il M5s.
Non è una novità la preferenza dei lavoratori per la Lega, ma pare essersi accentuata. Significativo un reportage uscito su La Stampa relativo al comune di Odolo in Val Sabbia, a nord di Brescia: 2.000 abitanti, 1.000 operai e 500 immigrati impiegati nelle locali ditte. È stato definito “il paese dell’orgoglio operaio”, dato che vi si produce il 25% del tondino europeo e il 75% di quello italiano, un comune che vive di metallurgia da secoli. Mille anni fa c’erano solo armaioli. Sei secoli fa aprirono le fonderie. Vent’anni fa ce n’erano sette. Adesso, grazie alla crisi, solo due. Chi non lavora in fonderia lavora nelle aziende dell’indotto come la CMC di Agostino Carli, quindici operai e due milioni di fatturato annuo: “Ma non ci sono più gli operai di una volta. Gente che come me è partita dal niente e ha costruito tutto col sudore della fronte e i calli nelle mani. Siamo rimasti in pochi in Italia. Il primo è Silvio Berlusconi”, dice Carli al quotidiano torinese.
Nel comune la Lega non è votata solo dall’imprenditore, ma massicciamente dai lavoratori. La giunta locale di centrodestra – o meglio, leghista – è guidata da Fausto Cassetti, più di destra che di centro, al suo terzo mandato, eletto con il 40% di preferenze nel 2007, il 72% nel 2012 e il 74% l’anno scorso: più del doppio del risultato del primo partito alle elezioni, insomma, cifre bulgare. Motivo? Il tema dell’immigrazione ha senz’altro pagato, e in una fabbrica dove diversi operai sono stranieri, il voto operaio leghista “non è razzista” in quanto non rivolto allo straniero in generale ma a quello irregolare. Infatti, in un paesino dove la cronaca nera arriva principalmente da televisione e social network, il locale dirigente leghista Giorgio Dusina ripete il sentire comune, lontano dagli studi sulle integrazioni spesso citati dai mass media: “L’immigrato che è integrato, che lavora, che non spaccia, che non commette reati va benissimo. È una risorsa anche per il nostro Paese, fa girare l’economia, come si dice. Io non voglio i ventenni che si girano i pollici e passano da un bar all’altro senza fare niente. Gente che non sai cosa ha in testa quando li incontri e che soprattutto non possiamo più permetterci di mantenere senza che facciano niente tutto il giorno”.
Per trovare un operaio di sinistra, un tempo militante del Pci, bisogna cercare tra gli anziani, critici però rispetto al nuovo corso dell’area. Il giornalista dà voce a Domenico Savoldi, operaio di 54 anni, da sempre di sinistra, che però, amaramente dice: “Lavoro da quarant’anni. Me ne toccano altri quattro. A me ha fregato la Fornero e quelli che hanno votato con lei. Quindi voto ancora a sinistra ma non Matteo Renzi che per gli operai non ha fatto niente. A mia nipote grazie al Jobs Act le hanno appena tolto il contratto. Ha 30 anni. Ma come si fa…” (14).
Ma è lo sfondamento al Sud che colpisce più di tutto. La parola “Nord” è stata tolta dal logo del Carroccio prima dell’era Salvini. Bossi accusa il segretario di aver snaturato il partito, ma fu il senatur a farlo per primo; la scelta infatti ha radici antiche. Nel maggio 1993, in piena Tangentopoli e dopo aver preso l’8,6% alla Camera e l’8,2% al Senato a livello nazionale, e ottenuto 25 senatori e 55 deputati, a Venezia l’assemblea federale lancia l’idea di cambiare il nome al partito e cavalcare le medesime tematiche nel Centro-Sud, e dà vita a Lega Italia Federale.
La dicitura verrà usata però solo nei collegi centromeridionali, una linea coordinata a Roma da Cesare Crosta – avvocato monarchico che negli anni ‘70 cercò di rifondare il Fronte dell’Uomo qualunque, e candidatosi nel 1979 nelle liste di Democrazia nazionale, scissione nazionalconservatrice del Msi, si dice finanziata dalla P2 tramite il fratello Silvio Berlusconi e col supporto de Il Borghese, che anticipò le tematiche moderate postfasciste di Alleanza nazionale, risultando un flop.
Era il periodo in cui entrava al Senato il politologo federalista Gianfranco Miglio, emerito professore all’Università Cattolica, che proporrà una riforma federale fondata sul ruolo delle macroregioni, con un progetto che prevedeva la nascita di tre blocchi – la macroregione Padana al Nord, al Centro l’Etruria e, al Sud, la regione Mediterranea – più cinque regioni a statuto speciale; l’elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e dal presidente federale, eletto da tutti i cittadini in due tornate elettorali e rappresentante l’unità del Paese.
È in quel contesto che il Carroccio cerca di sfondare al Sud col progetto Lega Italia Federale, che fa il suo esordio nell’autunno del ‘93 per le amministrative romane – quelle che spinsero Berlusconi a sdoganare Gianfranco Fini, che sfidava Francesco Rutelli – prendendo però un risicato 0,7%. Risultati simili alle regionali del 1995, dove la lista Lega Italia Federale si presenta da sola in Campania e, in Lazio, Puglia e Calabria, appoggiando candidati di centrosinistra in coalizioni che vanno dal Pds a Rifondazione comunista.
È la fase in cui Bossi ha rotto col Cavaliere, e il centrosinistra si mette a flirtare col Carroccio – un partito che ha al suo interno da anni una sottocultura antimoderna e palesemente reazionaria, si pensi a Mario Borghezio, l’ex ordinovista e direttore di Orion-finanza che, dietro invito del direttore del mensile di estrema destra, Maurizio Murelli, è nelle fila di Piemont autonomista dal 1987, e nella Lega Nord dal 1991 – pur di sottrarre voti al Polo di centrodestra: D’Alema, intervistato da Valentino Parlato per Il manifesto, sostiene che il leghismo è una “costola della sinistra”: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra” (15).
Concetti in parte veri riguardo alla composizione elettorale, ma smentiti dalla svolta successiva secessionista, che rispolverò un certo etnoregionalismo identitario su cui fondare il modello di cittadinanza padano; e che evidenziano inoltre, negando l’organicità del leghismo al blocco di destra e lodando il suo anti-statalismo – cioè il forte liberismo presente nel primo Carroccio, nemmeno mitigato dalla posizione di Salvini sui dazi doganali – quanto fosse la sinistra a essere sempre più simile ai suoi avversari.
Sta di fatto che solo ora, con una crisi economica che non passa e martellando costantemente sul tema law and order dell’immigrazione, la Lega è riuscita in quello che gli era impossibile realizzare nel 1993-1995 con Lega Italia Federale: sfondare al Sud e diventare un partito populista nazionale senza rinnegare la sua matrice regional-identitaria. Nei primi anni Novanta vi era infatti una destra nazionalista, il Msi-Dn di Gianfranco Fini, che intercettava i malumori meridionali espandendosi verso l’elettorato di destra democristiano che, data la fine della guerra fredda, non era più motivato a turarsi il naso e votare Dc ma poteva esprimersi liberamente; oggi, con una destra nazionale debole – nonostante i tentativi di rifondare An – è Salvini a fare incetta di voti al Sud.
Frenato dal M5s, ma prendendo comunque alte percentuali rispetto al 1993-1995: 15% a Lampedusa, città simbolo della tragedia migratoria, 23% a Taormina, 9% a Foggia e 13% in Abruzzo, per citare alcuni dati significativi. “Il Lazio, invece, sembra il Piemonte: il partito – spiega Il Fatto Quotidiano – che un tempo intonava Roma ladrona supera ovunque i dieci punti percentuali. Persino dalle parti di Tor Bella Monaca, il quartiere che fu rosso nella Capitale, mentre in provincia di Viterbo la Lega raggiunge addirittura il 20%. […] quasi un milione di elettori (per la precisione 987.406) di Lazio, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Campania, Calabria e Sicilia si sono convertiti al leghismo. […] Sissignore. Li hanno chiamati terroni per decenni eppure oggi votano Lega. Nel prossimo Parlamento, quindi, siederanno 23 persone elette dal Carroccio al Sud. Non da sedicenti liste autonomiste più o meno collegate alla Lega ma pronte a dissolversi nel Misto alla prima occasione. No: quei 23 sono eletti proprio dalla Lega, con il simbolo della Lega e gli slogan della Lega. Praticamente potrebbero essere un intero gruppo parlamentare, una pattuglia pronta a cantare Va Pensiero con un fortissimo accento siciliano, calabrese, napoletano” (16).
Un sorpasso ai danni di Berlusconi ma pure dell’area postmissina, come Fratelli d’Italia. L’obiettivo di sottrarre voti alla Meloni è passato anche dalla Puglia, a inizio dicembre, dove Salvini si è recato per presentare un libro su Salvatore Tatarella, pezzo grosso della destra pugliese ed ex collega di Salvini stesso a Strasburgo: è stata la celebrazione di un cognome importante per la destra nazionale come quello dei Tatarella. Pinuccio e Salvatore sono infatti i due politici che, forse più di ogni altro, in Puglia e al Sud hanno retto il vessillo della destra, quella storica, l’Msi, e quella più moderna, Alleanza nazionale, essendo a tutti gli effetti i padri putativi della svolta di Fiuggi nel 1995; una destra non estremista, ma conciliante e pronta al dialogo. Insomma, dorotea. Inserirli nel pantheon leghista non è stato un colpo da poco.
Altro fronte è quello del sindacato. Con un lento lavorio e tramite il vicesegretario Giancarlo Giorgetti – regista dell’avvicinamento al Carroccio del Movimento per la Sovranità di Alemanno e Storace – la Lega è riuscita a fagocitare l’Ugl di Francesco Paolo Capone, il sindacato di destra vicino all’ex partito di Fini ed erede della Cisnal missina, molto radicato al Sud, e a rilanciare un sindacato che già da alcuni anni aveva sorpassato per iscritti la Uil, puntando tutto su una ventata movimentista e una forte opposizione populista alle leggi del mercato del lavoro approvate dal centrosinistra.
Abolizione del Jobs Act, superamento della legge Fornero, piena attuazione all’articolo 46 della Costituzione, introducendo una normativa che regolamenti la rappresentanza in ambito aziendale e sancisca la partecipazione dei dipendenti ai profitti dell’impresa – la cogestione, di fatto, il Mitbestimmung introdotto dai socialdemocratici in Germania ma che, a destra, affonda le radici nel sindacalismo nazionale, nel corporativismo e nella socializzazione di era fascista, da sempre cavalli di battaglia della destra sociale –: sono queste le tre principali richieste formulate alla politica, e in particolare al centrodestra, dal segretario generale dell’Ugl Capone, nella relazione del quarto congresso confederale, dov’è iniziato il flirt con la Lega.
L’asse coi sindacalisti ha fatto sì che il Carroccio, pur avendo una posizione liberista, abbia impostato una campagna elettorale sulla solidarietà sociale e sul protezionismo del Made in Italy, condizionata nel programma economico dalle idee della vecchia destra sociale, la corrente postrautiana di An. Ai primi di gennaio, al Consiglio federale del Carroccio in via Bellerio, Salvini ha affermato: “Il programma della Lega sui temi di lavoro, scuola e università sarà steso con la collaborazione dell’Ugl. Con loro abbiamo confermato un rapporto di reciproca, lunga e proficua collaborazione sia in Italia che all’estero.
Per la Lega è una novità assoluta associare una proposta politica a una proposta sindacale che entrerà nell’argomento lavoro, che è la vera emergenza nazionale, altro che lo ius soli. Le proposte sul lavoro saranno dettagliate alla virgola sui temi del lavoro, del salario minimo e dei contratti e saranno presentate a giorni agli alleati così come quelle su scuola e università. La collaborazione con l’Ugl è uno di quegli apporti esterni di cui avevo parlato. L’Ugl ha più di 160 sedi tra Nord e Sud in Italia e la collaborazione sarà sicuramente utile e positiva” (17).
Concludendo, bisogna fare alcune riflessioni: solo nel 2015 la Cgil perde 700.000 tessere. 7.000 solo la Fiom. Tra quelle rimaste vi è uno strapotere della categoria dei pensionati. Ergo, rimane chi non lavora più. Un risultato per cui la Cgil deve incolpare solo se stessa, nella persona dei suoi dirigenti e burocrati, sempre pronti a scendere in piazza se a fare manovre impopolari è la destra, facendo dell’antiberlusconismo l’unico richiamo identitario, ma prona a firmare accordi al ribasso con un governo cosiddetto di centrosinistra che fa politiche a favore di Confindustria e della troika. Lo sfondamento a sinistra teorizzato nei tardi anni ‘70 dal leader missino Pino Rauti sarà portato avanti dalla Lega di Matteo Salvini, anche grazie all’asse con l’Ugl? Sono riflessioni che a sinistra vanno fatte.
1) Paolo Berizzi, Elezioni in Italia, il flop dei neofascisti: Forza Nuova e CasaPound non sfondano, Repubblica, 5 marzo 2018
2) “Votare Lega senza la parola ‘Nord’ nel simbolo? «Nello statuto rimane» e si tratta di «una mascherata per il Sud». Così Umberto Bossi, oggi pomeriggio al seggio di via Fabriano, ha commentato rispondendo a una domanda di Omnimilano. Il fondatore della Lega è arrivato al seggio intorno alle 18 e ha atteso con gli altri elettori, per circa mezzora, il turno per votare stringendo qualche mano tra i presenti”. Elezioni, Bossi al seggio in via Fabriano: Lega senza ‘Nord’? In statuto resta, in omnimilano.it, 4 marzo 2018
3) Andrea Tundo, Elezioni, così la Lega prova a prendersi il Sud: il mix di riciclati e volti nuovi può valere 25 seggi dall’Umbria alla Sicilia, Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2018
4) Cfr. Ilvo Diamanti, Destra e sinistra perdono il proprio popolo. M5s come la vecchia Dc: interclassista, Repubblica, 11 marzo 2013
5) Cfr. lo studio della Cgia di Mestre Partite Iva più a rischio povertà di lavoratori dipendenti e pensionati, 7 ottobre 2017, e gli articoli de Il Giornale (Carlo Lottieri, Altro che autonomi evasori: ora sono loro i nuovi poveri, 29 novembre 2015), di Adnkronos (Partite Iva, i nuovi poveri, 7 ottobre 2017) e dell’Espresso (Francesca Sironi, Ecco chi sono i nuovi poveri nell’Italia ingiusta, 19 febbraio 2018
6) Lorenzo De Sio, Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero: se il PD è il partito delle élite), Centro italiano studi elettorali Luiss, 6 marzo 2018
7) Cfr. Fabio Poletti, Il Pd è diventato il partito più borghese di Milano: cresce in via della Spiega e corso Monforte, La Stampa, 15 marzo 2018. L’inchiesta, fatta per le strade di Milano, rivela inoltre che Forza Italia tiene, mentre 5 stelle ottiene ottimi risultati nella zona dell’Ortomercato, e chi spadroneggia nelle periferie è la Lega
8) Cfr. F.P., La sinistra crolla ovunque, ma ai Parioli si continua a lottare, Linkiesta. it, 5 marzo 2018
9) Roma, il ricco quartiere Parioli si scopre rosso, L’aria che tira, 30 maggio 2014 https://www.youtube.com/watch?v=q74ZB53SFFE. Cfr. Alessandra Paolini, Rosso Parioli quartiere più dem. “Votavamo destra siamo con Renzi”, Repubblica, 28 maggio 2014: “Cosa è accaduto? I pariolini sono diventati ‘comunisti’? Alvaro Gargani, patron dell’omonima gastronomia gourmet di viale Parioli – tortellini a 48 euro al chilo e colf in fila dentro la divisa da lavoro – sorride. E non sembra sorpreso. «Io sono di destra, lo sono sempre stato: ma stavolta ho votato Pd». E racconta come questo ribaltone dei Parioli, un po’ se lo aspettava. Perché in quella ‘pizzicheria’ di lusso con bottarga e tartufi in vetrina, il signor Gargani ci sta dal ‘60. Dice orgoglioso: «Montezemolo mi diceva sempre “Alva’, qui da te passa tutta l’Italia che conta”. E stavolta anche chi conta si è stufato. E ha messo la croce su Renzi. Perché, ditemi voi, a destra c’era qualcuno da votare? Sono talmente arrabbiato che ho fatto fatica a non dare la preferenza a Grillo». E l’elenco delle cose che vorrebbe da questa vittoria del Pd sono tante. Diminuire le tasse alle piccole aziende, ad esempio «perché ho 16 dipendenti a cui voglio bene e si incassa sempre meno».” Quando si parla di destra radicata ai Parioli s’intende in origine il Movimento sociale italiano, gli eredi di Alleanza nazionale e il centrodestra in generale
10) Cfr. M.L. Andriola, Alain de Benoist e Matteo Salvini: una Lega Nord “al di là della destra e della sinistra”, Paginauno n. 36/2014, e il mio saggio La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Edizioni Paginauno, 2014
11) Cfr. M.L. Andriola, Alle radici del fascioleghismo. Gli anni 2000: la Lega e il revisionismo anti-risorgimentale, Paginauno n. 47/2016 e, in maniera molto più approfondita, il mio saggio accademico L’immaginario anti-risorgimentale della destra italiana, di prossima pubblicazione presso il Giornale di Storia Contemporanea
12) Cfr. M.L. Andriola, Il Talebano, il think tank dietro la Lega di Salvini, Lettera43.it, 28 marzo 2016, e la lettera di risposta dell’esponente del gruppo Fabrizio Fratus, Lettera43 ecco chi siamo, Lettera43.it, 30 marzo 2016
13) Cit. in http://vincenzosofo.com/ al link “Chi sono”
14) Le citazioni sono tutte prese dalle corrispondenze di Fabio Poletti, Nel paese dell’orgoglio operaio. “Dimenticati dalla sinistra”, e Gli operai sedotti da Salvini. “Ora ci abbassi le tasse e mandi via gli irregolari”, entrambe su La Stampa, 15 febbraio 2018 e 6 marzo 2018
15) D’Alema: Riunirò la sinistra in convento, intervista concessa a Valentino Parlato, Il manifesto, 31 ottobre 1995
16) Giuseppe Pipitone, Elezioni 2018, il sorpasso della Lega passa dal Sud: un milione di voti e 23 eletti. E a Lampedusa Salvini prende il 15%, Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2018
17) Fabio Pasini, La destra sociale di Salvini, dopo Alemanno e Storace si prende anche l’Ugl. Con la Melony ora è derby. Chi vincerà?, ilcomizio.it, 4 gennaio 2018