di Erika Gramaglia |
Riforma dei contratti collettivi e del diritto di sciopero: sempre più poveri i primi, sempre più limitato il secondo
“C’è la diffusa tendenza da parte delle imprese a considerarti un beneficato, per la sola ragione che pagano il tuo lavoro”.
Enzo Biagi
Il lavoro nobilita l’uomo. Questo sancisce il senso comune, attribuendo alla laboriosità la grandezza dell’essere umano, senza preoccuparsi di definire i modi in cui questa grandezza si concretizza. Peggio, senza specificare a quale uomo ci si riferisca. Secondo l’Ires, nel quarto Rapporto sui salari pubblicato il 27 marzo scorso, le retribuzioni nette in Italia stagnano dal 1993. Le cause: da una parte la crescente pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente, dall’altra l’inflazione, cresciuta del 41,6% in quindici anni, che congiuntamente hanno eroso il potere di acquisto dei salari. Ne consegue che all’aumento delle retribuzioni lorde, prodotto dall’aumento della produttività, non ha corrisposto un effettivo aumento di potere di acquisto. Contestualmente, dal 1995 al 2006, i profitti netti delle maggiori imprese industriali sono cresciuti di circa il 75%, mentre la crescita delle retribuzioni si è attestata intorno al 5%. Sono anche aumentate le diseguaglianze sociali nella distribuzione del reddito: tra il 2000 e il 2008 il reddito medio annuo di una famiglia operaia è sceso di circa 1.600 euro, mentre la perdita per le famiglie dei colletti bianchi ammonta a 1.680 euro, a fronte di un aumento di 9.140 euro per professionisti e imprenditori (al netto dell’evasione fiscale…). A questi dati si aggiungano quelli resi noti a febbraio dall’Istat, relativi al crollo degli ordinativi dell’industria italiana, calati a gennaio 2009 del 31% su base annua; il dato peggiore dal gennaio 1991, come quello sul fatturato, diminuito del 20%. La logica conseguenza è stata la crescita esponenziale del ricorso da parte delle imprese alla cassa integrazione ordinaria, aumentata nel mese di marzo del 925% rispetto allo stesso mese del 2008, in base alle rilevazioni Inps che evidenziano anche una crescita del 589% nel primo trimestre del 2009. Com’è prevedibile, nello stesso periodo è aumentato il ricorso agli ammortizzatori sociali, soprattutto nel settore meccanico, seguito dal metallurgico e dal chimico.
Questo il quadro all’alba della crisi, funesto per alcuni, denso di opportunità per altri. Si tratta solo di decidere da che parte stare, se offrire lavoro o sfruttare quello altrui. E di capire da che parte tira il vento della politica, visto che da questa discendono le regole del gioco.
Il tema del lavoro e delle sue implicazioni socio-economiche, inteso come categoria giuridica, ha origini relativamente recenti. Solo nel XIX secolo, con la seconda rivoluzione industriale e l’insorgere dei primi conflitti sociali, il lavoro diventa materia giuridica. L’interesse iniziale delle istituzioni è però improntato alla repressione più che alla tutela delle masse operaie, ree di avanzare richieste assurde agli occhi del padronato capitalista, di cui lo Stato era diretta espressione. Lo sciopero, unico mezzo del proletariato industriale per rivendicare i propri diritti, rimane un delitto, perciò penalmente sanzionato, fino al 1889, quando il codice penale Zanardelli – il primo codice penale italiano – lo derubrica a illecito civile, mantenendo però in capo al datore di lavoro la facoltà di chiedere un risarcimento – che poteva giungere fino al licenziamento – per il danno subito in conseguenza dell’astensione dal lavoro.
Durante il ventennio fascista, con l’introduzione nel 1926 dell’ordinamento corporativo e l’emanazione del codice penale Rocco nel 1931, si ritorna alla repressione penale. Scelta
imprescindibile per un regime espressione dei padroni del vapore, detentori dei mezzi di
produzione. In quest’ambito era perciò naturale arginare lo sciopero con metodi sanzionatori, rendendolo sostanzialmente inutile.
L’assetto costituzionale del dopoguerra, spinto dalla necessità di riformare il sistema corporativistico, non poteva non tener conto della accresciuta rilevanza del mondo del lavoro. La Costituzione pone l’attenzione sul tema in ben 2 dei 12 articoli che compongono la sezione dedicata ai principi fondamentali. L’articolo 1 stabilisce che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, quale elemento basilare della vita collettiva, attribuendo allo Stato il compito di perseguire una politica di difesa sociale, volta all’eliminazione delle diseguaglianze economiche, attraverso la promozione e la tutela di ogni attività lavorativa. L’articolo 4 impone alla Repubblica di riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro e di promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto; pone inoltre in capo al cittadino il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Questi principi vengono ripresi nel Titolo III, che definisce i rapporti di lavoro e di proprietà. È questa una delle parti più innovative della carta costituzionale e più di altre nasce dal compromesso ideologico tra le posizioni delle forze cattolico-liberali, propense alla conservazione del sistema economico capitalista basato sulla libertà di iniziativa economica e sulla libera proprietà dei mezzi di produzione, e i partiti di sinistra, che intendevano limitare i privilegi del capitale attraverso la previsione di strumenti correttivi a tutela dei diritti della classe lavoratrice subordinata, nel tentativo di migliorare il rapporto palesemente squilibrato tra proprietà e forza lavoro. Tali strumenti sono oggetto degli articoli 39 e 40, che introducono nell’ordinamento dello Stato la libertà sindacale e il diritto di sciopero, argomenti che meritano un’analisi più approfondita.
L’articolo 39 stabilisce che l’organizzazione sindacale è libera e pluralista, sovvertendo il sistema fascista del sindacato unico sottoposto a rigidi controlli statali. Condizione necessaria posta dal costituente per l’efficacia dell’attività sindacale è l’obbligo della registrazione presso uffici locali o centrali, demandando ogni ulteriore definizione attuativa alla legge ordinaria – che però non è mai stata promulgata – tranne per l’obbligo in capo al sindacato di dotarsi di una struttura interna a base democratica. La registrazione attribuisce ai sindacati la personalità giuridica da cui discende – rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti – la capacità di stipulare contratti collettivi nazionali di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto di riferisce. Nel quadro costituzionale così definito, il ruolo affidato al sindacato quale espressione delle istanze dei lavoratori sembra essere di importanza preminente. Tuttavia, perché si passi dall’enunciazione di principio alla sua effettiva attuazione, almeno da un punto di vista giuridico, dovranno passare ventidue anni e un autunno caldo.
La polveriera scoppia tra il settembre e il dicembre del 1969 quando, in concomitanza al rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro, cinque milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura e di altri settori indicono una serie di scioperi e manifestazioni, determinati a far sentire il peso delle proprie rivendicazioni – molto più ampie di quelle espresse fino ad allora dai sindacati ufficiali, troppo introdotti alla politica per essere veramente incisivi. Si verifica un fenomeno nuovo: la lotta si destruttura, passando dai vertici dei sindacati ai lavoratori, che si organizzano in comitati di base, i cobas o sindacati di categoria, indipendenti dai sindacati nazionali. Il fenomeno dell’associazionismo di fabbrica diventa incontrollabile e rende impossibile protrarre ancora il vuoto legislativo relativo ai diritti dei lavoratori. La classe politica, messa alle strette, licenzierà il 20 maggio del 1970 la legge 300: lo Statuto dei lavoratori. Il testo realizza finalmente le aspirazioni del costituente, prevedendo una serie di diritti in capo al lavoratore, quali la libertà di opinione (art. 1), il divieto di controllo dell’attività produttiva da parte del datore di lavoro con mezzi audiovisivi (art. 4), il rafforzamento della libertà sindacale (art. 14) attraverso la previsione del diritto del lavoratore al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa (art. 18) e il riconoscimento della libertà di assemblea (art. 20); ma soprattutto l’articolo 19, che ricomprende nelle rappresentanze sindacali, oltre alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, anche quelle non affiliate alle predette confederazioni ma firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva, garantendo così ai neonati cobas un riconoscimento politico e giuridico.
Indubbiamente, per ottenere queste conquiste lo sciopero è stato il mezzo più efficace, soprattutto perché spontaneo, auto-organizzato, e perciò non gestibile attraverso l’asservimento coatto dei sindacati nazionali alle istituzioni. Il che ci riporta alla Costituzione, in particolare all’articolo 40, che come dicevamo, definisce la libertà di sciopero con una formulazione a dir poco concisa. Il dettato costituzionale si limita infatti a riconoscere il diritto allo sciopero, demandando la determinazione del suo ambito di esercizio alle leggi che lo regolano. Una formula viziosa, dato che tali norme sono state introdotte solo nel 1990 (legge 146), successivamente modificate nel 2000 (legge 83), e attengono esclusivamente alla regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Proprio questa mancanza di regole ha permesso alle lotte sindacali degli anni Settanta di avere un effetto dirompente sul sistema giuridico applicato al mondo del lavoro subordinato, apportando un notevole miglioramento alla condizione dei lavoratori. Ora questi diritti sembrano assodati, tanto che non appaiono meritare ulteriore attenzione da parte della quasi totalità delle associazioni sindacali nazionali. Questo sembra emergere dall’Accordo quadro firmato il 22 gennaio scorso da governo e parti sociali, eccezion fatta per la Cgil che, per inciso, è il sindacato che conta più iscritti.
Obiettivo ufficiale dell’accordo, che verrà applicato in via sperimentale per quattro anni e che delinea regole e procedure della negoziazione e della gestione collettiva in deroga al sistema vigente è, testualmente, lo sviluppo e la crescita occupazionale fondata sull’aumento della produttività, l’efficiente dinamica retributiva e il miglioramento di prodotti e servizi resi dalla pubbliche amministrazioni, accompagnato dall’impegno delle parti a definire criteri e modalità di un modello contrattuale comune per i settori pubblico e privato. L’accordo prevede il mantenimento dell’attuale sistema di contrattazione, che comprende il contratto collettivo nazionale di lavoro e la cosiddetta contrattazione di secondo livello, cioè accordi particolari tra datore di lavoro e dipendenti che, per espressa disposizione di legge, possono aumentare ma non diminuire la tutela del lavoratore. Cambiano i termini del rinnovo contrattuale, che avrà durata triennale – la procedura vigente prevede il rinnovo biennale per la parte economica e quadriennale per la parte normativa.
Ma la novità più importante riguarda la modifica del sistema di valutazione dei conguagli che, in corso di contratto, dovrebbero proteggere il potere d’acquisto dei lavoratori dall’inflazione, cioè dall’aumento dei prezzi. Il vecchio modello agganciava tali aumenti salariali all’indice dei prezzi al consumo (Ipc) italiano; d’ora in poi verrà utilizzato un nuovo indice costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. Eventuali differenze tra indice e inflazione reale dovranno essere riconciliate entro la durata del contratto. L’esperienza insegna che la copertura ex ante dall’inflazione, definita in modo previsionale in sede di rinnovo contrattuale, risulta spesso insufficiente, necessitando di conguagli ex post, che spesso vengono erogati alla fine del contratto. L’allungamento del periodo di vigenza da due a tre anni potrebbe di conseguenza comportare una minore copertura dei salari dalla riduzione del potere d’acquisto conseguente all’inflazione. Ma l’aspetto più inquietante risiede nella decisione che “il nuovo indice previsionale sarà applicato a un valore retributivo individuato dalle specifiche intese”. Per comprendere che cosa questo significhi dobbiamo distinguere tra retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto; queste ultime sono in media più alte, in quanto comprendono ulteriori poste economiche, quali gli straordinari, i contratti integrativi ed eventuali superminimi aziendali. Elementi che attengono sostanzialmente alla contrattazione di secondo livello, che l’accordo vuole incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, poiché “collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia e altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività, nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese”. La conseguenza è lapalissiana: aumentando il peso della contrattazione di secondo livello si ottiene specularmente una riduzione della quota di salario contrattuale, quella coperta dalla rivalutazione del potere di acquisto. Il tutto a favore delle imprese, che in questo periodo di recessione hanno bisogno di sostegno, tanto che l’accordo arriva a prevedere, in situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale, “apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria”.
Inizia a essere chiaro chi pagherà il prezzo più alto per questa crisi. L’obiettivo, neanche tanto nascosto, è quello di ridurre l’efficacia del modello contrattuale nazionale, a favore delle esigenze particolaristiche delle imprese, che sarebbero sottoposte a vincoli salariali meno rigidi e, con il tasso di disoccupazione in aumento, potrebbero avvantaggiarsi di una corsa al ribasso delle retribuzioni, spostando il carico della ripresa dai profitti ai lavoratori. Una situazione che per certi versi ricorda il punto da cui siamo partiti, quell’autunno caldo di quarant’anni fa. Mancano solo gli scioperi e gli scontri di piazza, ma siamo sicuri che non torneranno? Di certo non lo è il governo che, preventivamente, ha messo mano ai possibili risvolti sociali della recessione con un disegno di legge delega, approvato il 27 febbraio scorso, per la riforma del diritto di sciopero nel settore dei trasporti. Il provvedimento intende realizzare “un migliore e più effettivo contemperamento tra esercizio del diritto di sciopero e il diritto alla mobilità e alla libera circolazione delle persone”, al fine di “favorire il funzionamento di un libero e responsabile sistema di buone relazioni industriali”. Per farlo limita fortemente il ricorso allo sciopero, dall’alto abilitando alla sua proclamazione solo le organizzazioni sindacali complessivamente dotate, a livello di settore, di un grado di rappresentatività superiore al 50% – e questo riduce l’incisività dei cobas, che nel settore dei trasporti sono particolarmente attivi – e introducendo l’istituto del referendum preventivo obbligatorio quando il grado di rap-presentatività delle associazioni sindacali che richiedono lo sciopero superi almeno il 20%; in questo caso la legittimità dell’astensione dal lavoro è condizionata al voto favorevole del 30% dei lavoratori interessati. Dal basso, prevedendo per via contrattuale una dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero da parte del singolo lavoratore. Il tutto in difesa della mobilità, ma non delle persone: delle ‘buone relazioni industriali’, ossia delle merci, ossia dei profitti.
La tutela si spinge anche oltre, subdolamente. Se il diritto di sciopero è garantito costituzionalmente, se non è possibile abolirlo, allora la sua funzione, che è la sospensione della produzione in senso lato, deve essere svuotata dall’interno, così da renderlo sostanzialmente inutile. Ed ecco lo sciopero “virtuale”, previsto per via contrattuale, che “può essere reso obbligatorio per determinate categorie professionali le quali, per le peculiarità della prestazione lavorativa e delle specifiche mansioni, determinino o possano determinare, in caso di astensione dal lavoro, la concreta impossibilità di erogare il servizio principale ed essenziale”. Il provvedimento ha ottenuto il plauso del ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che nella trasmissione Brunetta della domenica su Rtl 102.5 ha esternato tutta la sua soddisfazione per l’approvazione del disegno di legge. «Il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione, e Dio ce lo mantenga, ma non il diritto di arbitrio e di ricattare. Prendere in ostaggio i cittadini sulla base di un diritto costituzionalmente determinato suona fasullo, nel senso che gli ostaggi siamo noi e il diritto di sciopero qui non c’entra». E il vincolo del 50% «mi sembra una garanzia per evitare che proclamino uno sciopero tre dipendenti, magari in un ruolo delicato come il controllo di volo; questo non è un diritto, è un arbitrio, una violenza». Ed ecco il secondo passo sulla strada dell’oblio: la demonizzazione.
L’astensione dal lavoro non è più espressione di rivendicazioni sociali, ma un modo per ledere l’interesse altrui in modo gioiosamente sadico. Come dice Brunetta, «le democrazie ci sono per evitare le violenze dei pochi nei confronti dei tanti», ma chi sono i pochi? I lavoratori dipendenti sono circa la metà della popolazione italiana, è sufficiente per essere considerati tanti? Certo sono in grado di bloccare il Paese e le crisi economiche, si sa, incendiano gli animi. Se il Fondo monetario internazionale ha ragione, la disoccupazione in Italia continuerà a salire, passando dal 6,8% del 2008 all’8,9% previsto per quest’anno e al 10,5% nel 2010. Il disagio sociale crescerà ed evitare lo scontro diventerà sempre più difficile, a meno che non si agisca per tempo, sterilizzando i presupposti di ogni forma di lotta.
Azzardando una previsione, è lecito pensare che il settore dei trasporti sia solo il punto di partenza, una palestra, in vista di interventi più ampi su cui costruire il nuovo miracolo italiano.