Libertà di stampa al servizio del sistema dominante: pesi e misure intorno a Charlie Hebdo
L’attentato del 7 gennaio contro la sede parigina della rivista Charlie Hebdo ha riportato in primo piano il dibattito sulla libertà di stampa. La manifestazione imponente di solidarietà dell’11 gennaio, con i potenti del mondo alla guida del corteo (la cosiddetta marcia repubblicana) che ha coinvolto più di un milione e mezzo di cittadini nella sola Parigi e altri due milioni nel resto di Francia, ha commosso il mondo. Je suis Charlie è stato il refrain che è rimbalzato ovunque via twitter e new media sull’onda emotiva del massacro, e per qualche giorno l’Occidente ha vissuto l’ebbrezza di sentirsi finalmente unito e compatto contro il ‘nemico comune’. Tre milioni di copie del nuovo numero di Charlie Hebdo (con Maometto in copertina che piange tenendo in mano – anche lui – un cartello con scritto Je suis Charlie) sono andate esaurite in poche ore (pare che alle sette di mattina fosse già tutto sold out), e ne sono state ristampate quattro milioni per soddisfare le richieste inevase.
In Italia Il Fatto Quotidiano del 14 gennaio, con la rivista satirica in allegato obbligatorio, ha venduto 300.000 copie (la sua solita tiratura, dati ADS, è intorno alle 90.000, con vendite effettive poco sotto le 41.000), un successo tale che gli editori hanno deciso di riproporre Charlie Hebdo anche nell’edizione del giorno successivo (altre 200.000 copie, stando a quanto dichiarato da Il Fatto stesso), e poi ancora venerdì 16 ma questa volta, bontà loro, come possibilità di acquisto facoltativo. A dare una mano alle vendite il premier Matteo Renzi, che alle telecamere di La7 (Le invasioni barbariche), ha dichiarato: “Oggi ho comprato Charlie Hebdo con Il Fatto Quotidiano che ha fatto un’iniziativa bella. È stato commovente leggere il giornale e vedere sui social e non solo file di francesi che facevano la coda per comprare quel giornale”.
Je suis Charlie
Un altro a cui i fratelli Kouachi hanno fatto un gran favore (involontario, ci scommettiamo), è stato lo scrittore francese Michel Houellebecq, da noi sconosciuto ai più ma una star assoluta (o quasi) oltralpe. A lui era dedicata l’ultima copertina prima della strage della rivista, la quale lo considera un maestro indiscusso (dimostrando, al di là di ogni dubbio, che il sense of humour francese non ha limiti).
Nel 2001 aveva dichiarato alla rivista Lire, in seguito all’uscita del suo libro Piattaforma: “La religione più stupida è l’Islam. La lettura del Corano lascia prostrati… prostrati”; dopo l’attentato (e per il nuovo libro) si è affrettato a cambiare idea: “Ho riletto con attenzione il Corano, e una lettura onesta porta a supporre un’intesa con le altre religioni monoteiste, che è già molto. Un lettore onesto del Corano non ne conclude affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente” (1). Se oggi è sincero, che gli sia venuto in mente a suo tempo di esprimere una tale opinione sull’Islam senza un’attenta lettura del suo libro sacro, è una cosa che lascia prostrati noi.
Secondo Giuseppe Rizzo, Houellebecq è “uno che bluffa, uno che esagera: i nomi che saltano fuori più spesso sono quelli di Zola e Flaubert, ma il pensiero corretto è dire che Houellebecq è uno scrittore mediocre” (2). Invece il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista di Charlie Hebdo morto nell’attentato, era di tutt’altra opinione, come si affretta a riportare Stefano Montefiori sul Corsera: “Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a Sottomissione, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica” (3).
Sottomissione era il libro più atteso dell’anno, e da giorni monopolizzava le prime pagine di tutti i giornali (anche questo può accadere solo in Francia: che il nuovo romanzo del più discusso scrittore nazionale si aggiudichi le copertine). Il libro “mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano.
Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah” (4). Sarà di sicuro un caso che Montefiori e Houellebecq abbiano lo stesso editore, il gruppo Rcs.
Je ne suis pas Charlie
Nei giorni a seguire, man mano che l’onda emotiva scemava, qualche voce dissonante, certo non inneggiante al massacro – nessuno in Occidente si azzarderebbe mai a sostenere il terrorismo contro il diritto di satira, anche se sospettiamo che a qualcuno l’idea non dispiacerebbe – ma sostenendo la necessità di limiti alla libertà di stampa, ha cominciato a farsi sentire. In primis papa Francesco (il cattolicesimo è stato spesso vittima di attacchi pesanti da parte della rivista francese), che in viaggio per le Filippine il 15 gennaio ha dichiarato ai cronisti: “È una aberrazione uccidere in nome di Dio” ma “non si può insultare la fede degli altri”.
“Non si può prendere in giro la fede. C’è un limite, quello della dignità di ogni religione”. Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata “sono due diritti umani fondamentali”. Scherza sui fanti ma lascia stare i santi, come dice il vecchio adagio. Anche il grande vecchio del giornalismo laico di casa nostra, Eugenio Scalfari, scrive su Repubblica del 18 gennaio: “A me personalmente Charlie Hebdo è un giornale che non piace affatto e non indosserei alcuna insegna dove sopra sta scritto Io sono Charlie. Purtroppo alcuni di loro hanno pagato con la morte quella satira volutamente provocatoria e me ne rincresce moltissimo, ma non sono Charlie” (5).
A dire il vero, chi scrive non è nemmeno sicuro che quella della rivista francese sia definibile come satira, e non invece come dileggio, sarcasmo o umorismo grottesco. Se ha ragione il nostro ordinamento, che definisce satira “quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene” (6), ci pare difficile che quella pubblicata da Charlie Hebdo lo sia.
L’affaire Siné
A ben vedere tuttavia, la direzione della rivista che passa oggi come il simbolo universale della libertà di stampa, non è una accesa sostenitrice del diritto al dissenso, e capita che i suoi dipendenti ne facciano le spese. Il 2 luglio 2008 venne pubblicato su Charlie Hebdo un testo a firma Maurice Siné (storico disegnatore e caricaturista), in cui si dileggiava Jean Sarkozy, figlio del presidente della Repubblica allora da poco rieletto: “Jean Sarkozy, degno figlio di suo padre e già consigliere dell’Alta Senna, è uscito praticamente fra gli applausi dal suo processo per la fuga in scooter. I giudici l’hanno addirittura assolto! C’è da dire che il ricorrente è arabo. Non è tutto: ha appena dichiarato che vuole convertirsi all’ebraismo prima di sposare la sua fidanzata, ebrea ed erede dei fondatori di Darty [nota catena francese di negozi di elettronica, n.d.a.]. Farà strada nella vita, il bambino!” (7).
Il commento sull’opportunismo del virgulto presidenziale era passato praticamente inosservato fino a quando, sei giorni più tardi, Claude Askolovitch (un giornalista francese), su segnalazione dell’entourage di Sarkozy, denunciò su RTL quello che definiva “un articolo antisemita in un giornale che non lo è”. L’allora direttore della rivista, Philippe Val, impose a Siné di scusarsi pubblicamente, ma il disegnatore scelse la linea dura, che avrebbe portato il 15 luglio 2008 al suo licenziamento. Alla controversia che si scatenò poi prese parte il fior fiore dell’intellighenzia francese, com’era prevedibile visti i temi della querelle: antisemitismo vs accuse di antisemitismo, antisionismo vs critica alle politiche di Israele, ma soprattutto la possibilità di dissentire nella rivista che solo poco tempo prima aveva pubblicato le famigerate caricature di Maometto del giornale danese Jyllands-Posten.
Siné venne portato in giudizio davanti al tribunale di Lione dalla Licra (Lega internazionale contro il razzismo e l’antisionismo) per incitamento all’odio razziale (non per la prima volta: già nel 1985 la stessa Licra lo aveva accusato di propositi antisemiti), ma, proprio come era accaduto in passato, il 24 febbraio 2009 i giudici lo prosciolsero da tutte le accuse, considerando che avesse fatto un uso legittimo del suo diritto di satira. Il tribunale condannò invece gli editori di Charlie Hebdo a pagare a Siné i danni (40.000 euro in prima istanza, poi accresciuti in appello a 90.000) per il licenziamento senza giusta causa.
Il 24 luglio 2008 Pierre Rimbert, su Le monde diplomatique, pubblica un articolo intitolato “Antisemitismo: scacco al ricatto”, in cui denuncia come l’utilizzo strumentale dell’accusa di antisemitismo sia una strategia frequente da parte dell’establishment culturale per liberarsi di un avversario indesiderabile: “Dall’inizio degli anni ’90 non si contano più gli avversari dell’imperialismo, del neoliberismo, dei media dominanti… qualificati di antisemitismo, addirittura di essere ‘nazi’ da parte di qualche guardiano dell’ordine sociale. […] Solo, questa volta, la cosa sembra rivoltarsi contro i suoi istigatori”(8).
Insomma, pare che nella ‘tollerante’ Europa dei nostri giorni ci siano due pesi e due misure: una libertà di stampa totale, garantita dal sistema politico-economico agli avversari dell’Islam (il nuovo nemico dell’Occidente) e, almeno in parte, alle voci critiche contro la chiesa cattolica (soprattutto fuori dall’Italia), mentre Israele e l’ebraismo in genere insieme al sistema economico dominante godono di una protezione extra contro ‘antisemiti’, ‘comunisti’ e disfattisti vari. Certo, conseguenze culturali del vulnus dell’Olocausto e della guerra fredda. Oppure no?
Je suis nigérien
Si fa un gran parlare dei diritti, costituzionali e non, che devono essere garantiti ai media, ma si evita sempre più spesso di ricordare a quali doveri dovrebbero essere soggetti editori e giornalisti, primo fra tutti il dovere di diffondere le notizie. L’8 gennaio in Nigeria, il Paese più popoloso e multietnico dell’Africa e la prima economia del continente, il gruppo fondamentalista islamico Boko Haram, affiliato ad al Qaeda, ha completamente distrutto una città e dato alle fiamme diversi villaggi sulle rive del lago Ciad, nel nord-est del Paese: 2.000 le vittime stimate.
Quello che Amnesty International descrive come l’eccidio più terribile mai avvenuto, tanto che le autorità hanno smesso di contare i cadaveri abbandonati per le strade, è passato quasi inosservato mentre il mondo piangeva le dodici vittime del giornale francese. The Guardian, riportando la notizia, cita un tweet di Max Abrahams, terrorism analyst, che nota: “È vergognoso come 2.000 persone uccise nel più grande massacro di Boko Haram non abbiano quasi nessuna copertura mediatica”(9). Riportare le notizie in Nigeria è notoriamente difficile: i giornalisti sono uno dei bersagli dichiarati di Boko Haram e, contrariamente a quel che accade a Parigi, la gente del posto è isolata e ha grandi difficoltà di accesso ai mezzi di comunicazione, internet compreso. “Cosa rende un massacro più degno di copertura mediatica di un altro?”, si chiede dunque il giornale inglese.
Secondo Reporters sans frontières, nel 2014 sono stati uccisi nel mondo 66 giornalisti, 11 assistenti ai media e 19 netizens (bloggers, cittadini giornalisti e altre figure del web): per nessuno di loro l’establishment si è disturbato a marciare in massa. “Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hebdo senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo” ha dichiarato il segretario generale di Reporters sans Frontières, Christophe Deloire (10) “Sarebbe inaccettabile – ha continuato Deloire – se i rappresentanti di Paesi che riducono i giornalisti al silenzio dovessero trarre vantaggio dallo sfogo emotivo attuale per cercare di migliorare la propria immagine internazionale e continuare poi di ritorno a casa con le politiche repressive. Non dobbiamo permettere che i predatori della libertà di stampa sputino sulle tombe di Charlie Hebdo”.
Invece è proprio quel che è avvenuto, come ha acutamente notato Daniel Wickham, giornalista freelance per l’Indipendent, l’Huffington Post e altre testate inglesi. Con una serie di 21 tweet, comprensivi di fonti, ha citato tutti i potenti del mondo che, mentre partecipano a Parigi alla marcia in difesa della libertà di stampa (degli altri), fanno in modo o permettono che in patria i giornalisti dissenzienti vengano uccisi, incarcerati, picchiati, minacciati o comunque oppressi in vari modi: il re di Giordania, il primo ministro turco, il primo ministro di Israele, il ministro degli Esteri egiziano, il ministro degli Esteri algerino, il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, il primo ministro della Tunisia, il primo ministro della Georgia, il primo ministro della Bulgaria, il segretario di Stato degli Usa, il primo ministro greco, il segretario generale della Nato, il presidente del Mali, il ministro degli Esteri del Bahrain, lo sceicco del Qatar, il presidente palestinese, il primo ministro sloveno, il primo ministro irlandese, il primo ministro polacco, il primo ministro inglese, e infine l’ambasciatore saudita in Francia (11).
Je suis italien
Fortunatamente nella lista degli ipocriti il primo ministro italiano Matteo Renzi, almeno per questa volta, non compare, e tuttavia l’Italia non è messa bene in quanto a libertà di stampa. Secondo la classifica stilata ogni anno proprio da Reporters sans Frontières, siamo al 49° posto su 180, dietro non solo alle prime della classe Finlandia, Olanda e Norvegia, ma a quasi tutte le nazioni europee. Ci precedono infatti, per citare solo il nostro continente, il Lussemburgo (4°), il Liechtenstein (6°), la Danimarca (7°), l’Islanda (8°), la Svezia (10°), l’Estonia (11°), l’Austria (12°), la Repubblica Ceca (13°), la Germania (14°), la Svizzera (15°), l’Irlanda (16°), la Polonia (19°), la Slovacchia (20°), il Belgio (23°), il Portogallo (30°), la Lituania (32°), il Regno Unito (33°), la Slovenia (34°), la Spagna (35°), la Lettonia (37°), la Francia (39°) e la Romania (45°). Siamo il fanalino di coda dunque, anche se in miglioramento rispetto al 2013 (eravamo al 57° posto). Colpa delle grandi concentrazioni che si sono divorate l’editoria indipendente, di scuole che insegnano male o non insegnano affatto il mestiere e di un comportamento professionale incline troppo spesso ai compromessi e non solo (in fondo i giornalisti, come i politici, sono lo specchio del Paese).
Ma anche di poche leggi a tutela della libertà di stampa, soprattutto per quanto riguarda i nuovi media, destinatari di un boom di accessi nell’ultimo anno, e di leggi in arrivo che addirittura la ridurranno. Come sostiene l’associazione Articolo 21, convinta che la nuova norma sulla diffamazione, che potrebbe essere presto approvata, rischia di peggiorare le cose. Invece di essere, come era stata pensata all’origine, “una riforma della legge sulla stampa per eliminare la pena del carcere per i giornalisti, a tutela dei diritti fondamentali di cronaca e di critica”, il testo già licenziato al Senato rischia di ottenere l’effetto opposto.
Prevede infatti sanzioni pecuniarie fino a 50 mila euro, che appaiono da un lato inefficaci per i grandi gruppi editoriali e dall’altro potenzialmente devastanti per l’informazione indipendente, in particolare per le piccole testate online; un diritto di rettifica immediata e integrale al testo ritenuto lesivo della dignità dall’interessato, senza possibilità di replica o commento né del giornalista né del direttore responsabile, che prescinde, nei presupposti della richiesta, dalla falsità della notizia o dal carattere diffamatorio dell’informazione; l’introduzione di una sorta di generico diritto all’oblio che consentirebbe indiscriminate richieste di rimozione di informazioni e notizie dal web se ritenute diffamatorie o contenenti dati personali ipoteticamente trattati in violazione di disposizioni di legge (e questo non verrebbe applicato alle sole testate giornalistiche registrate, ma a qualsiasi fonte informativa, sia essa un sito generico, un blog, un aggregatore di notizie o un motore di ricerca).
Secondo le associazioni promotrici della petizione contro il disegno di legge (www.nodiffamazione.it), le nuove norme hanno “il sapore di un inaccettabile ‘mettetevi in riga’, per quei giornalisti coraggiosi, blogger e freelance che difendono il diritto dei cittadini a essere informati per fare scelte libere e consapevoli”. Inoltre, “la mancanza di norme che sanzionino richieste e azioni giudiziarie temerarie o infondate non fa che aggravare un quadro di potenziale pressione sull’informazione che la sola eliminazione del carcere come sanzione non è sufficiente a scongiurare e che anzi con la nuova legge si aggrava”(12).
Je suis Marina
Che il rischio sia reale lo dimostra il caso che vede imputata Marina Morpurgo, per anni inviata de L’Unità e poi caporedattore del settimanale Diario. Per cominciare l’anno nuovo il pm Anna Landi della procura di Foggia ha pensato bene di emettere ai danni della giornalista un decreto di citazione diretta a giudizio, ossia un provvedimento previsto dall’ordinamento per i reati punibili con una reclusione non superiore ai quattro anni, che non necessita del vaglio di un giudice per le indagini preliminari. L’accusa è quella di “diffamazione a mezzo stampa” per aver “offeso l’onore” della Scuola di Formazione Professionale Siri, “denigrandone su un social network la campagna pubblicitaria”.
Ecco come Pietro Falco racconta il caso su L’Espresso (13): “All’origine della vicenda, c’è un manifesto che immortala una bambina bionda, di circa 6 o 7 anni, intenta a passarsi un rossetto sulle labbra con espressione ammiccante. Sopra la foto, una dichiarazione perentoria a caratteri cubitali: «Farò l’estetista, ho sempre avuto le idee chiare». Quando se lo ritrova davanti, Morpurgo si indigna: «Trovavo quell’immagine del tutto inappropriata e addirittura inquietante, per l’utilizzo a scopi pubblicitari di una bimba ritratta in quel modo, e per la maniera in cui veniva ancora considerata la donna, a dispetto di tutte le battaglie di emancipazione degli ultimi decenni». E così decide di pubblicare il manifesto sulla propria bacheca di Facebook, chiosandolo con una serie di commenti.
Le considerazioni riportate nell’atto d’accusa della procura e riferite a momenti diversi sono queste: «Anche io ho sempre avuto le idee chiare: chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato e impiumato [citazione tratta dai vecchi fumetti di Paperino, n.d.a.]… I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti… Complimenti per la rappresentazione della donna che offrite… Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi risvegliati?». A quel punto, passano diverse settimane prima che la titolare della scuola, Maria Laura Sica, decida di sporgere querela. E il pm Anna Landi ritiene di ravvisarvi indizi sufficienti per aprire un fascicolo e iscrivere la giornalista nel registro degli indagati. Il resto è storia di oggi. A nulla è valsa la memoria difensiva presentata dall’avvocato Carmela Caputo, che poneva obiezioni sia di metodo («Con riferimento a facebook o a social network analoghi, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione non si è ancora pronunciata»), che di merito («Le espressioni incriminate sono state riportate sulla pagina personale della Morpurgo, frequentata esclusivamente da suoi amici.
Le comunicazioni lì pubblicate non sono visibili a tutti, ma solo al gruppo di amici del titolare della bacheca. Difetterebbe, quindi, il requisito strutturale richiesto dal comma 3 dell’articolo 595 del codice penale»). Ma soprattutto, a essere interpellato era un principio fondamentale, come quello sancito dall’articolo 21 della Costituzione: la facoltà di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. «È inaccettabile – argomenta nella nota l’avvocato Caputo – che una stimatissima professionista venga indagata non per aver detto il falso, o denigrato persone o enti, bensì semplicemente per aver espresso un’opinione che può piacere o non piacere, ma che deve comunque ritenersi più che legittima e manifestata nei limiti della legalità. È inaccettabile che la signora Morpurgo si ritrovi nel registro degli indagati per aver esercitato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, utilizzando l’ironia e il sarcasmo per polemizzare su un manifesto discutibile, che appare fortemente lesivo dell’infanzia”.
Questo significa che chiunque decidesse di postare sul proprio profilo facebook, per fare un esempio, una pubblicità di automobili che parcheggiano da sole e chiosasse che la considera sessista perché la protagonista è una donna – chi scrive sfida a trovare un testimonial uomo per i sistemi di park assist (come tutti sanno, sono le donne a non saper parcheggiare) – potrebbe venire iscritto nel registro degli indagati per aver leso l’onore della casa automobilistica di turno, “denigrandone su un social network la campagna pubblicitaria”. Se il buon giorno si vede dal mattino, quest’anno non promette bene per la libertà di stampa.
Se non siamo tutti Charlie, siamo tutti Marina.
1) S. Montefiori, Michel Houellebecq: «Niente in Francia sarà più come prima. Sì, ho paura anch’io…», Corriere della Sera, 14 gennaio 2015
2) Rizzo esprime giudizi ben più forti su Houellebecq, rimandiamo all’articolo per una lettura integrale: G. Rizzo, Michel Houellebecq è una carogna, Internazionale, 17 gennaio 2015
3) S. Montefiori, Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro, Corriere della Sera, 8 gennaio 2015
4) Ibidem
5) E. Scalfari, Il pugno di Francesco e la lezione di Voltaire, La Repubblica, 18 gennaio 2015
6) Prima sezione penale della Corte di Cassazione, sentenza n. 9246/2006
7) Un cittadino francese di origini arabe, M’Hamed Bellouti, aveva accusato Jean Sarkozy di avere danneggiato con lo scooter il retro della sua BMW il 14 ottobre 2005 a Place de la Concorde a Parigi, e di essersi poi dato alla fuga. M’Hamed Bellouti e la persona che viaggiava con lui hanno raccontato al giudice di aver fotografato con il cellulare il numero di targa, senza aver tuttavia riconosciuto il conducente, che indossava il casco; Jean Sarkozy è stato assolto
8) P. Rimbert, Antisémitisme: l’échec d’un chantage, Le monde diplomatique, 24 luglio 2008
9) Jared Keller, One Student’s Epic Tweets Call Out the Biggest Hypocrites Marching for Free Speech In Paris, World.Mic, 11 gennaio 2015
10) Ibidem
11) Ibidem. E inoltre: Daniel Wickham, The Paris march was an emotional display, but it was full of hypocrisy on press freedom, The Independent, 12 gennaio 2015
12) #Nodiffamazione. La nuova legge è sbagliata. Firma la petizione su Change.org (già oltre 6.000 adesioni), Articolo 21, 12 gennaio 2015
13) Pietro Falco, A processo per un commento su Facebook. Ora il giudice deve decidere se è diffamazione, L’Espresso, 9 gennaio 2015