Michele Biella, Gian Mario Felicetti
Vita da rider, incollati a una app: chi sono, chi glielo fa fare, come funziona un lavoro che è cercare lavoro ogni giorno: inchiesta dentro il cottimo, il ranking, il caporalato, e cambierà qualcosa con la nuova legge?
25 febbraio 2021. La magistratura arriva sulla questione rider: “È emerso senza ombra di dubbio che il tipo di lavoro è subordinato, sono a pieno titolo inseriti nell’organizzazione d’impresa”. Obbligo per le quattro principali aziende che operano in Italia ad assumere oltre 60.000 lavoratori e pagare ammende per 733 milioni totali: 90 giorni per mettersi in regola ed estinguere il reato, altrimenti la procura invierà i decreti ingiuntivi e il procedimento andrà avanti. Tra dati, interviste a rider e giornalismo inside story, la nostra inchiesta del 2019 aveva anticipato tutto.
Glovo, Deliveroo, cottimo, ranking, piattaforme, caporalato. A settembre la procura di Milano apre un’inchiesta per far luce sull’uso di account in subappalto e in generale sull’attività dei rider (nel mirino anche la sicurezza del fattorino e l’igiene del contenitore porta-vivande) e il governo approva un decreto legge, da convertire entro 60 giorni, contenente alcune norme volte a trasformare la natura del rapporto lavorativo tra azienda e rider (autonomo o subordinato), la retribuzione (a cottimo oppure oraria) e le tutele. L’informazione mainstream si lancia sulla figura del rider e inizia a raccontarla. Semplificandola e fornendone una narrazione distorta o parziale, producendo due immagini opposte: da una parte i migranti coinvolti in nuove forme di caporalato digitale, dall’altra gli italiani soddisfatti che guadagnano 3.000 euro al mese. A novembre Report sui Rai 3 ha il pregio di mostrare la dinamica di sfruttamento legata al funzionamento della piattaforma, ma ignora completamente la questione del caporalato.
I rider sono dunque italiani giovani e felici di lavorare a cottimo oppure migranti, regolari e non, che sforano nell’illegalità? È possibile che un settore economico così in crescita si regga su questi due estremi? Da chi è composta davvero la maggioranza dei rider? E che cosa rappresentano oggi per il mondo del lavoro?
Dati… ma dati a chi?
La difficoltà principale per chi cerca di mettere a fuoco le caratteristiche del fenomeno rider risiede nell’inesistenza di dati statistici. Quanti sono in Italia? Quanti di loro hanno contratti attivi con le piattaforme e quanti effettivamente lavorano in ciascuna città/area? Quanti sono in servizio in ciascun turno e quanti riescono a vedersi assegnata almeno una consegna? Quanto guadagnano mediamente? Quali sono le classi di età, sesso, nazionalità ecc.?
Essendo per la maggior parte inquadrati in contratti di lavoro autonomo occasionale a ritenuta d’acconto, i rider sono lavoratori che non compaiono nelle statistiche Inps o Inail, e le aziende non sono tenute a dichiarare il numero dei contratti. Gli unici dati disponibili diventano quindi quelli dei sondaggi effettuati tra i rider dalle imprese stesse e poi resi pubblici. Ma è ovvio che i risultati non sono affidabili, perché non è possibile sapere in che modo sono stati svolti: quanti fattorini, in percentuale sul totale, hanno risposto? Come è stata verificata l’identità di chi ha compilato il sondaggio (era davvero un rider?, e l’ha compilato una sola volta?)? La stessa Inps, che nel suo “XVII Rapporto Annuale” del 2018 (1) ha cercato di produrre un quadro sui lavoratori del food delivery, è dovuta ricorrere ai questionari interni realizzati da Deliveroo e Foodora.
Stessa sorte per Banca d’Italia (2), che in un report di dicembre 2018 ha almeno cercato di estrapolare numeri anche dai pochi dati disponibili dei contratti sottoscritti e dai bilanci aziendali. Se ne ricava, a fine 2017, una stima di 7.650 rider totali, operativi principalmente nelle città di Milano, Torino, Roma, Firenze, in gran parte studenti di nazionalità italiana sotto i trent’anni, con una paga media oraria di 6 euro. Tuttavia sono numeri che non fotografano più la realtà attuale, non solo perché ormai datati ma anche perché in parte basati sui contratti di Collaborazione Coordinata e Continuativa firmati da Foodora, che assumeva in tale forma e, nel 2017, era una delle principali piattaforme di food delivery: oggi non esiste più – il ramo italiano è stato assorbito da Glovo a fine 2018 – e i contratti Cococo non li sottoscrive più nessuna azienda del settore.
Un’idea dell’oggi può darla Milano, con uno studio condotto sul campo tra novembre 2018 e gennaio 2019 a cura del “Dipartimento di Studi Sociali e Politici” dell’università Statale (3), che conferma quanto anche noi abbiamo raccolto con le nostre interviste tra maggio e agosto di quest’anno. Su un campione di 218 rider, il 97% sono uomini sotto i trent’anni (85%), stranieri per il 66%, provenienti perlopiù da Nord Africa, Medio Oriente, Africa occidentale, Asia meridionale, Sudamerica; quella del rider è la loro principale attività remunerata e il 18% è in Italia da meno di due anni; il 6% non conosce la lingua italiana e il 34% “poco”, l’1% non ha il permesso di soggiorno e il 10% si rifiuta di rispondere su questo aspetto. Sul totale (italiani e stranieri) appena il 15% è studente e solo il 19% dichiara di lavorare meno di 30 ore settimanali (il 29% ne lavora più di 50). In tutto questo, segnala il report, esiste “una piccola percentuale di esperti e senior (meglio equipaggiati, più motivati, con molte ore lavorative/giorno, meglio retribuiti)”.
Stabilito questo, sui dati relativi a retribuzione e tutele si entra nel caos: ogni azienda applica ‘regole’ sue, una situazione che stride rispetto all’omogeneità del tipo di lavoro del rider.
La retribuzione è un vero rompicapo: il concetto di ‘paga media’ rappresentativa della categoria non esiste. Ogni piattaforma calcola in modo differente la tariffa: dal cottimo, a una base oraria, al misto consegna+distanza chilometrica, fino a logiche intermedie su cui manca una spiegazione trasparente (e per Glovo e Deliveroo le tariffe sono anche diverse da una città all’altra). Inoltre il numero di ore che si possono prenotare e di consegne, all’interno dell’ora, che si possono effettuare, è variabile, e segue anche una ciclicità stagionale. Non sorprende quindi che gli stessi rider da noi intervistati, a volte facessero fatica a dare un’indicazione coerente di quanto riescono a mettersi in tasca a fine mese: la cifra ricevuta ‘mediamente’ per ogni corsa, il numero ‘medio’ di consegne a settimana e il reddito settimanale ‘medio’ divergevano platealmente.
Nell’ambito delle tutele, le assicurazioni private integrative (vista la mancanza di iscrizione all’Inail), quando ci sono, sono le più svariate e coprono garanzie diverse (danni a terzi, infortuni), con regole differenti da piattaforma a piattaforma e anche in base al mezzo utilizzato.
Oltre ai dati, un ulteriore aspetto su cui le imprese non forniscono informazioni è il funzionamento dell’algoritmo: le logiche con cui vengono assegnati i turni e le consegne all’interno del turno, e con cui è valutato il lavoratore. Cosa vuol dire quindi, nella pratica, fare il rider?
Vita da rider: hai voluto la bicicletta?
Caccia alle ore: un lavoro che è cercare lavoro, ogni giorno
“Oggi devo cercare le ore, fai così, se c’è un coso bianco, tocchi e diventa verde. Oggi lavoro due ore. Ieri quattro. Domani… devo ancora cercarle, non c’è niente”. “Tu devi stare là così e appena si libera un turno… io impazzivo perché devi sempre tenere d’occhio il telefono”. Il primo a parlare è Didier (4), ivoriano in Italia da tre anni, lavora da poco per Glovo, il secondo è Sandro, dal 2017 con Deliveroo: la caccia agli slot (i turni) disponibili è una costante nella loro vita lavorativa. Anche perché sono scanditi ogni ora e conviene riuscire a prenotarne due/tre consecutivi, per non avere tempi morti. Ma la decisione non spetta al rider. È la app a offrire la possibilità, e uno slot può ‘aprirsi’ in qualunque momento, sulla base della necessità o del fatto che un rider si è cancellato, e ‘chiudersi’ nel giro di pochi secondi: quindi più tempo si resta con la faccia sul proprio smartphone e loggati alla app, maggiori probabilità ci sono di prenotarsi nei turni desiderati, battendo sul tempo gli altri rider in una estenuante logica competitiva. Si finisce dunque con il dovere stare ansiosamente incollati al calendario della piattaforma anche fuori dall’orario di lavoro: tempo, ovviamente, non quantificabile e non retribuito.
Soprattutto all’inizio, le prime due o tre settimane, trovare slot liberi è molto difficile: “Io sono nuovo, due settimane. Altri ragazzi che lavorano da tanto tempo, hanno tanti giorni” dice Didier, costretto a cercarsi le ore di volta in volta.
Inside story: in sella a Deliveroo (leggi…)
Ma la caccia disperata allo slot sembra non essere l’unica opzione. “Sono in tanti che si scambiano le ore… c’è chi le vende addirittura. Se non hai ore vai davanti ai McDonald’s, c’è sempre qualcuno di questi qui, magari hanno le ore, tu glielo dici: «Senti, te la pago, ti do 1 euro l’ora». Io non l’ho mai fatto, ma regalata sì”. Lo racconta Mario, sessantenne che da qualche mese arrotonda con Glovo: lavora come cuoco dalle 10:00 alle 15:00 e poi fa il rider. All’inizio anche lui aveva difficoltà a trovare turni liberi: “Un amico mi ha indirizzato in questa fase, lui già lavorava con Glovo da un anno. Praticamente le prime ore me le ha passate lui. Ora lavoro una decina di ore a settimana, ma devi stare sempre lì a cercarle”. Ma com’è possibile passare un turno da un account a un altro? “Se prenoti uno slot, finché non hai il simbolino del lucchetto lo puoi cancellare. Se tu sai che lui lo cancella sei avvantaggiato e riesci a prenderlo subito”.
Ci sono poi alcuni slot che prevedono incentivi economici, per esempio gli orari notturni o quando c’è maltempo. Mario racconta di aver “lavorato fino alle tre del mattino, di solito sono sigarette (Glovo non consegna solo cibo, ma qualunque cosa venga richiesta dal cliente, n.d.a.). A volte si aprono delle ore con uno stemmino viola, sono quelle che ti danno subito 4 euro, però sono impossibili, alle cinque del mattino”. Luca, glover di lunga data, dice che di notte viene “svegliato da un BIP BIP del telefono che avvisa che gli ordini mi aspettano”; essendo turni che non ha prenotato non è obbligato ad accettarli per mantenere il suo punteggio, però gli rimane addosso la sensazione di un meccanismo che “annulla la tua vita privata e chiede sempre”.
Già, il punteggio, ossia il ranking. Come funziona?
Inside story: in sella a Glovo (leggi…)
Il ranking e la app: lavorare alle dipendenze di un algoritmo
Chiamato anche “punteggio di eccellenza”, il ranking è una sorta di voto che la app assegna a ogni lavoratore: l’algoritmo è segreto, ma alcuni meccanismi sono noti. Glovo, per esempio, assegna un punteggio da zero a 100, ma non da subito: “Quando ho fatto la cinquantesima consegna, parto da zero (Glovo sul proprio sito scrive invece che si parte con un ranking calcolato sulla base delle prime cinquanta consegne: è uno di quei dettagli su cui non si riesce ad avere certezza, n.d.a.). Quando fai le consegne negli orari con il diamantino, sale il punteggio. Se si lamenta il cliente, ti fanno scendere” spiega Mario. Nella pagina di informazione sul ranking nella app di Glovo, viene citato anche l’accettare gli ordini come fattore di incremento del punteggio, e gli orari con il diamantino sono quelli con più necessità di rider, solitamente nel week end tra le 20:00 e le 22:00.
Clienti e ristoranti poi “possono dare feedback positivi/negativi”. Secondo Mario, capita spesso che un cliente si lamenti e lasci una valutazione negativa, per situazioni non causate dal rider: “Per esempio c’è un problema con McDonald’s: le bibite non le chiudono bene, le strade sono quelle che sono… il liquido fuoriesce, danneggia il sacchetto e quando arrivi è a metà, si incazzano e se la prendono con il rider”. E Glovo? “Puoi dare tutte le spiegazioni che vuoi ma è un problema che si registra in automatico”. La valutazione negativa può arrivare anche se si impiega troppo a fare una consegna: “Il tempo è calcolato sui chilometri. Se lo superi, ti scendono i punti; lo vedi in automatico, ma giorni dopo. Magari il cliente chiama e si lamenta. Il tempo di solito è sufficiente, ma capita che ci sia traffico o che non parta la moto”.
La questione del ranking non è ovviamente la possibilità di essere eletto rider del mese, ma l’impatto che ha sulla possibilità di lavorare e quindi guadagnare. In base al proprio punteggio si possono prenotare i turni prima o dopo (“ti si aprono gli slot prima degli altri rider” spiega Mario): questo vuol dire avere maggiore scelta sia sulla quantità delle ore sia sulla qualità, ovvero orari ‘comodi’ e remunerativi. Luca racconta: “Lavoro 8 ore al giorno, 5 il sabato, 3 la domenica. Devo fare anche sabato e domenica altrimenti mi viene abbassato il punteggio. Lo chiamano ‘orario diamante’. Ho il punteggio massimo, ma devo comunque mantenerlo, devo far sì che non venga degradato se non lavoro nella giornata festiva. L’orario lo scelgo in base a quello che loro mi permettono di scegliere, che si basa sul ranking. Quindi se ho un basso ranking devo prendere gli orari scomodi. Ma se ho un ranking alto, devo prendere gli orari di sabato e domenica perché altrimenti verrei degradato in una posizione più bassa. Sono obbligato”. C’è quindi da riflettere sulla tanto sbandierata ‘autonomia’ del rider nella scelta dell’orario di lavoro.
È chiaro dunque che non basta sottoscrivere il contratto con Glovo e Deliveroo per entrare nel ‘sistema’ e iniziare a lavorare. Il primo passo è prendere i pochi slot che la piattaforma mette a disposizione dei nuovi rider, a qualunque ora e in qualsiasi giorno; se il lavoratore dimostra la sua massima disponibilità, pian piano arriva ad avere un ranking; dopodiché, se vuol continuare a lavorare, deve mantenerlo alto. È un circuito a strozzo.
È evidente a questo punto che la dinamica del ‘passarsi’ delle ore, gratuitamente o dietro compenso, che crea anche meccanismi di caporalato, è insita nella struttura stessa dell’organizzazione del lavoro instaurata dalle imprese, sia attraverso il ranking che per la forma digitale del rapporto di lavoro: è l’applicazione sullo smartphone che ‘comanda’ il lavoro al rider, non una relazione con un essere umano, e questo permette di scambiarsi l’account, nonostante ci sia una foto del rider e quindi sia il ristoratore che il cliente, in teoria, possano verificare l’identità del lavoratore che fa la consegna.
Andrea lavora come educatore in uno dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) di Milano, le strutture destinate ai richiedenti asilo in attesa di regolarizzazione; il suo conta un centinaio di ospiti. Contattato a inizio agosto – prima quindi che diventasse pubblica l’inchiesta aperta dalla procura milanese – ci ha rivelato che la maggior parte dei soggiornanti al Centro lavora almeno occasionalmente come rider, come attività principale o complementare (nel giro di un anno, da metà 2018, da meno di dieci sono passati a essere circa ottanta), ma non tutti in regola: alcuni si prestano gli account gratuitamente per permettere a un amico di tirare su qualche soldo, altri si fanno pagare una piccola percentuale; ma c’è anche chi è sprovvisto di documenti e utilizza completamente account altrui, anche di persone esterne al Centro. Due fenomeni ben diversi, l’aiuto gratuito e il caporalato, ma entrambi sintomo di una situazione di fragilità economica.
John, originario del Benin e ospite dello stesso Centro, lavora con Uber Eats e dice di non essere coinvolto, ma di sapere di episodi di prestiti di account in amicizia; afferma che meno di una ventina tra i ragazzi del CAS hanno contratti regolari con le piattaforme, mentre ci lavorano di fatto più persone, ma non si sbilancia oltre. John lavora in realtà per Uber Flash – così conosciuta informalmente tra i rider, ma si tratta della società Flash Road City, storica azienda milanese di pony express a cui Uber subappalta le consegne con ristoratori con alto volume di ordini come McDonald’s – e ci racconta che nel gruppo Whatsapp di lavoro, i responsabili hanno minacciato spesso di bloccare l’account a chi fosse stato scoperto a far lavorare qualcun altro al proprio posto, segno che il fenomeno era conosciuto. In ogni caso l’account personale di ogni rider alla piattaforma Uber è collegato alla SIM e quindi al numero di telefono e per questo, spiega John, è rischioso trasferirlo a qualcun altro: devi dare lo smartphone, e se ti beccano perdi il lavoro.
Abbiamo poi verificato che anche in questo caso non c’è uniformità tra le diverse piattaforme. Con Glovo basta conoscere user e password del rider, si scarica l’app sul proprio telefono e si accede – se, oltre all’accesso, sia poi possibile anche prenotare slot e dunque lavorare, non ci è stato possibile verificarlo. Con Deliveroo sembra esserci un vincolo sulla SIM, come con Uber, alla quale viene inviato un codice di sicurezza, quindi c’è almeno un legame tra la app e il numero di telefono.
Cottimo e retribuzione: il salario è una lotteria
Al centro del recente dibattito pubblico sul lavoro del rider c’è stata la forma di retribuzione, che allo stato attuale vede prevalere il cottimo, ovvero un compenso legato alla quantità di lavoro svolto (il numero delle consegne) e non una retribuzione a tempo basata su una paga oraria. Tradotto in ‘riderese’: se ti prenoti in uno slot e in quell’ora non ti vengono assegnate consegne, il tuo tempo vale zero. Ma succede davvero? “Hai voglia! La mattina dalle 10 fino alle 12 a volte hai lo slot ma non ti arrivano ordini, ma sei comunque impegnato ad aspettare” dice Mario. Come abbiamo già evidenziato, ogni azienda del food delivery calcola la retribuzione in modo differente, ma due sono le variabili in gioco: il numero di consegne e la distanza percorsa. Sandro taglia corto: “Vedo tanta gente più schizzata. Per il fatto del punteggio e che sei pagato solo per le consegne che fai, la gente è ossessionata dal dover essere puntuale e fare un sacco di strada”. Mario è netto: “È ovvio. Se sei a cottimo è normale, più consegne fai e più guadagni”. Ed è così che si vedono rider andare contromano, o sfrecciare lungo i marciapiedi, o passare con il rosso, e sempre più la cronaca riporta di incidenti in cui sono coinvolti. E ricordiamo, come sopra accennato, che i rider non hanno tutela Inail e ogni impresa di food delivery si regola come vuole nel fornire o meno, e con quali coperture, assicurazioni private nei confronti di fattorini che, formalmente, sono lavoratori autonomi.
Sulla carta, è possibile arrivare a guadagnare cifre con cui sostenersi, ma si tratta di fare i conti di quante ore bisogna pedalare per arrivarci: Mario racconta che ha seguito un amico che “lavorava pure lui come cuoco, e ha cominciato a fare il rider e mi diceva: «Riesco a guadagnare 100/120 euro al giorno» lordi, con partita Iva. Lavorava 9, 10 o 12 ore al giorno. Con qualche giorno di riposo, portava a casa 1.800 euro al mese”. Indicativamente 10 euro lordi l’ora, dunque; senza conoscere i dettagli fiscali personali è impossibile calcolare a quale cifra netta corrisponda, ma nel migliore dei casi parliamo di 8 euro, per 180 ore mensili di lavoro. Mario, forse concentrando il lavoro negli orari di punta, riesce a fare meglio: afferma di lavorare normalmente 3 ore al giorno, una decina totali alla settimana, guadagnando 300/400 euro lordi ogni due settimane, quindi arriva anche a 20 euro l’ora, pari a 16 euro netti. Per entrambi si deve poi sottrarre il costo della benzina, dato che utilizzano lo scooter e non la bicicletta, e forse è questo a fare la differenza: “Col motorino riesco a fare quattro consegne in un’ora” dice Mario, “poi dipende: più è lontano, più tempo ci metti. A volte quando chiudi la consegna se ne apre subito un’altra, però nelle ore più calde, dalle 20:00 alle 22:00; dopo cominciano a calare”.
Didier, rider novizio, mostra il riepilogo fornito dalla app: 67 euro lordi per le prime due settimane, ma già 42 euro nei tre giorni successivi. In un’ora, in bici, riesce a fare “una consegna o due”, variamente retribuite: 7 euro lordi, 8, 4, 5, 4, 4, 5 euro sono le ultime che ha effettuato. Altri rider ciclisti ci confermano, normalmente, un massimo di tre consegne all’ora.
Deliveroo, che oggi ha fama di essere la piattaforma che “paga meglio”, fino a dicembre 2019 garantisce un’integrazione per arrivare a un corrispettivo minimo orario di 7,50 euro lordi qualora la cifra totale delle consegne proposte dalla piattaforma rimanga al di sotto (non se il rider rifiuta qualche consegna, però); ma sembra essere l’unica a farlo.
Uber Eats funziona ancora diversamente. Non sottoscrive contratti con i rider, è il ristorante che di volta in volta registra la collaborazione con il singolo fattorino. Oppure subappalta le consegne a una ditta terza, la Flash Road City, già citata. John racconta che Flash non recluta online ma tramite passaparola: lui ci è arrivato grazie a un altro rider, che lo ha proposto al “capo”. Anche quello di Flash è un contratto di prestazione occasionale, della durata di un anno, con retribuzione a cottimo: 3 euro netti a consegna (3,75 meno la ritenuta d’acconto), fissi, indipendentemente dai chilometri. È meno di quello che pagherebbe Uber e che compare sulla app – la piattaforma è unica per tutti i rider Uber – ed è ovvio, visto che Flash da qualche parte trarrà il proprio guadagno. Ma con Flash si fanno più consegne, dice John, soprattutto d’estate quando gli ordini scarseggiano (probabilmente dipende dal fatto che l’azienda milanese ha in appalto i McDonald’s) e riesce a portare a casa sui 700 euro netti al mese rendendosi disponibile 10 ore al giorno, 4 giorni a settimana: la sua retribuzione media è quindi poco più di 4 euro all’ora. Con Uber non ci sono orari da prenotare, racconta sempre John, ognuno si mette online quando vuole, col rischio ancora maggiore rispetto al meccanismo degli slot di Deliveroo e Glovo di non vedersi assegnata alcuna consegna; il ranking si basa sui giudizi dei clienti e sul “tasso di accettazione” delle consegne che vengono proposte: più ne accetti, più ne avrai. Di certo condizioni generali peggiori rispetto alle altre compagnie di food delivery, eppure molti ragazzi come John ci lavorano. Il motivo, secondo lui, è la rapidità con cui si può iniziare a lavorare, rispetto alle altre piattaforme con cui capita di dovere attendere mesi. Poi c’è anche l’aspetto dei documenti richiesti per il contratto. Il permesso di soggiorno valido 2 anni è tendenzialmente accettato, mentre chi è richiedente asilo con permesso di 6 mesi ha meno scelta, nonostante la legge lo consenta: Deliveroo sembra escluderli, Glovo pare aver ripreso ad accettarli quest’estate, dopo che per diverso tempo li aveva rifiutati. Quando John ha cominciato solo Uber lo consentiva, e per questo lì è finito, come molti altri stranieri che conosce.
Tirando le somme, a parte il picco di 16 euro di Mario, parliamo quindi di una fascia che va dai 4 agli 8 euro netti orari, sui quali, è bene ricordarlo, non si vanno a sommare né ferie, né malattie, né tredicesime, né Tfr… nulla. C’è inoltre un aspetto di cui generalmente non si tiene conto: l’assegnazione delle consegne avviene entro l’orario dello slot, ma spesso l’ultima si completa oltre il tempo del turno. Un quarto d’ora o mezz’ora extra, nonché la possibilità di trovarsi lontano dal punto di partenza e dover quindi pedalare di più per rientrare, cambia i termini di calcolo della retribuzione: di fatto si finisce per lavorare più a lungo ma si continua a ragionare su una paga oraria.
Eppur si muovono: ma chi glielo fa fare?
Se questo è il quadro, perché tanti rider per le strade?
“Ho cercato un altro lavoro ma non c’è lavoro… adesso faccio questo, è più facile” dice Didier. Anche John racconta di aver provato a cercare in altri settori ma senza risultato, a causa anche della scarsa conoscenza della lingua italiana – come rider, il livello necessario è invece molto basico. Lo conferma anche Andrea: molti richiedenti asilo sono contenti di poter avere subito un’occupazione e riescono anche a portare a casa retribuzioni sufficienti a sopravvivere. Meglio che lavorare sfruttati come lavapiatti (magari in nero) nelle cucine dei ristoranti, raccontano alcuni. Si rendono ben presto conto tuttavia, sottolinea Andrea, che non può essere un lavoro a lungo termine, stupiti di vedere italiani non più giovani in giro con una borsa termica sulle spalle.
“Faccio il cuoco da quarant’anni”, dice Mario. “Prima potevo fare più ore, ero giovane e mi stancavo meno. Adesso fisicamente non ce la faccio più a fare orario pieno, a stare in cucina tutto il giorno a duecento gradi”. E quindi è diventato anche rider. “In motorino che fatica fai? È più libero come lavoro, e poi riesci a riposare un po’. Poi lavori da solo, non ti rompe le scatole nessuno, se hai sete ti fermi e bevi qualcosa. Comunque è un secondo lavoro perché il primo è quello di cuoco”.
Dunque chi sono?
Possiamo quindi provare a tirare le fila sulla figura attuale del rider, rispetto alla narrazione proposta tra settembre e novembre dai media, almeno su Milano – ed è qualcosa che chiunque circoli per la città meneghina coglie al volo.
Rider felici del cottimo non ne abbiamo incontrati, per quanto sicuramente esisteranno in minima percentuale, come registrato dallo studio riportato dell’università Statale di Milano; che arrivino a guadagnare anche 3.000 euro al mese sarà forse possibile, facendo quante ore non ci è chiaro visto le cifre che abbiamo registrato nelle interviste.
Il caporalato esiste, sarà l’inchiesta della magistratura a dire con quale incidenza – a settembre ha dichiarato di aver scoperto tre rider irregolari su trenta fermati.
Nel mezzo di questi due estremi c’è la massa dei rider: la maggioranza stranieri per i quali è l’unico lavoro al quale poter accedere rapidamente e con facilità, una minima parte di italiani non più giovani per i quali rappresenta o un secondo lavoro con cui arrivare a fine mese oppure la principale occupazione.
Una fotografia che mostra come il settore del food delivery si regga ormai sullo sfruttamento del bisogno di lavoro di migranti che ne fanno la propria attività, una forza lavoro socialmente più fragile, e quindi più ricattabile, rispetto a quella su cui si basava precedentemente, ossia studenti italiani a cui bastava arrotondare. Che ancora esistono, ma anche per loro il ‘lavoretto’ è cambiato.
È sempre stato così? Smart si nasce o si diventa?
“Ho firmato il contratto con Deliveroo a ottobre del 2017, seguendo un amico. Studiavo all’università e per me era perfetto. Tre ore a sera, quindi dalle 7:00 alle 10:00, con la bicicletta con cui mi trovo molto bene.” Sandro è una memoria storica, e racconta gli inizi di quello che era un lavoretto per studenti. Non c’era neppure un’applicazione unica per smartphone: “C’era Telegram per comunicare, Staffomatic, un’applicazione che usano le aziende per dare i turni ai dipendenti, per prenotare i turni su Internet, e poi c’era l’app con cui interagivi con gli ordini”.
Anche il ranking e la prenotazione degli slot erano un’altra cosa: “C’era un primitivo punteggio che si basava, diciamo, sull’esperienza. Facevo richiesta dei turni che volevo fare e per la settimana dopo me ne affidavano un po’ a seconda di quanta esperienza avevo. Però prima facevo richiesta io, con le mie priorità, e poi loro decidevano”.
Differente anche il reclutamento: “C’era questo tutorial online da guardare che ti spiegava bene in cosa consisteva il lavoro, poi ho avuto un colloquio pratico, nel senso che un ragazzo mi ha portato in giro per un’ora mentre lui lavorava; era uno dei primi dipendenti, lavorava tutti i giorni e tutto il giorno, ogni tanto sulla bici, ogni tanto in ufficio. Dopo questa guida, se ti valutavano idoneo potevi andare nel loro centro Deliveroo a firmare il contratto (lavoratore autonomo in ritenuta d’acconto, n.d.a.). Dopo ti davano una password per collegarti a questo sito di assegnazione turni. Ti davano un week end per provare a fare tutto da solo, un turno di tre ore dalle 19:00 alle 22:00, di solito il sabato. Facevi quello, la settimana dopo ti uscivano i turni. E un paio di settimane per andare a regime”.
Funzionava diversamente anche l’orario di lavoro: “Erano turni da tre ore per cui ne prendevi uno ed eri a posto. C’erano anche quelli da un’ora, c’era un po’ di overlap. C’era dalle 19:00 alle 22:00, dalle 19:00 alle 21:00, dalle 20:00 alle 23:00. Mi ricordo che all’inizio li mettevo tutti perché non sapevo ancora come funzionava, poi ho visto che mi davano sempre tra le 19:00 e le 22:00 e ho detto «Prendo sempre quello». Lavorando cinque giorni, facevo 10-15 ore a settimana”. Per cancellarsi, bastava inviare un messaggio su Telegram e si era a posto. “Mi è capitato una volta di saltare un turno senza avvisare, e sono ripartito da un solo turno disponibile il sabato. Ma aveva senso perché comunque era una questione di affidabilità.”
La retribuzione? “7 euro all’ora lordi, fissi, più 1,50 euro a consegna. Per i chilometri non c’era tariffa, era più tranquilla la gestione della zona.” Facendo i conti, con tre consegne all’ora si arrivava a 11,50 euro, che diventavano circa 9 netti una volta tolto il 20% della ritenuta d’acconto.
Le cose in Deliveroo sono cominciate a cambiare nel 2018: “A metà anno i ragazzi nuovi che si iscrivevano non potevano più avere il mio contratto, ma dovevano sottoscriverne uno diverso. Potevi scegliere se essere pagato fisso a consegna, indipendentemente dai chilometri (5 euro lordi, n.d.a.) oppure con quella che loro chiamano Dynamic Fee, che vuol dire un po’ a consegna un po’ a chilometro, come Glovo. E a me arrivavano degli incentivi tipo: «Ti diamo 50 euro se cambi contratto da ore a consegne… È basato sulle vostre esigenze, per premiare gli aspetti migliori»”. Alla fine, racconta Sandro, “ho dovuto cambiare contratto perché scadeva a fine 2018, e adesso è solo Dynamic Fee, pagato a consegna una base di 3 euro più un tot a chilometro”. Dunque il fisso orario è sparito (anche se, come già accennato, fino a dicembre 2019 è in vigore una sorta di minimo orario garantito di 7,50 euro lordi), ed è di fatto arrivato il cottimo. Se la parte non fissa della retribuzione varia a discrezione delle stime dell’algoritmo “in base alla distanza e al tempo necessari a completare la consegna”, secondo il sito di Deliveroo, in un primo periodo la piattaforma comunicava addirittura di mese in mese la tariffa totale minima che una consegna sarebbe stata pagata, stabilita “in base alla domanda dei clienti”: insomma, per il lavoratore sempre meno certezze circa l’ammontare della retribuzione.
Tuttavia, nota Sandro, “con il nuovo contratto guadagni anche di più, non guadagni di meno. Non prendi mai meno di 4 euro a consegna”. Le stesse tre consegne di prima diventano quindi almeno 12 euro. Ma, come evidenzia Sandro, “se lavori poco guadagni di meno. Dal punto di vista di Deliveroo è molto efficiente. Credo sia questa la loro tattica: assumono un sacco di gente dove tutti devono lottare per avere un turno, e ottieni solo un’ora e lavori come un pazzo. La cosa terribile di Deliveroo non è tanto la condizione in cui ti pagano, ma il modo in cui ti rapportano al lavoro”.
Di sicuro stipulare contratti di lavoro autonomo non costa niente, per cui alle aziende conviene avere più rider possibili a disposizione: Mario racconta che a Glovo “continuano a cercare e ti dicono che se porti un amico ti danno dei soldi. Tu gli dai la tua mail e loro ti caricano 30 euro quando il tuo amico riesce a fare un tot di consegne”. Se inoltre, per garantire il servizio a fronte dell’imprevedibilità del numero di ordini, si permette la prenotazione di uno stesso slot a più rider rispetto alla necessità media – e sono dati che l’algoritmo ha sicuramente – si fa presto a fare un semplice ragionamento: se il sistema del cottimo conviene alle compagnie di food delivery e ai rider che riescono a fare tre consegne all’ora, a rimetterci sarà qualcun altro; ovvero, coloro ai quali vengono assegnati meno ordini e restano a disposizione nell’attesa – per strada, con la sacca in evidenza, divenendo anche portatori di pubblicità gratuita.
La conclusione di Sandro è amara: “All’inizio eravamo bilanciati, forse più italiani che stranieri. Faccio parte di quella fetta di dipendenti che sta diminuendo. Non ci sono più tanti ragazzi che fanno l’università come me. C’è stato un boom all’inizio, e adesso, tanti disperati…”
Norme per normalizzare
Il 3 settembre il governo approva il decreto legge 101/2019. L’art. 1 riguarda i rider, e prevede due livelli di tutela: applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a chi esercita il lavoro in maniera continuativa; un pacchetto minimo di diritti inderogabili per i rider occasionali, quali: pagamento a cottimo possibile ma “in misura non prevalente”, e una paga oraria “riconosciut[a] a condizione che, per ciascuna ora lavorativa, il lavoratore accetti almeno una chiamata”. Viene inoltre estesa a tutti i rider la copertura assicurativa Inail. Essendo un decreto, entro 60 giorni deve essere approvato dal Parlamento o decade. Appena viene calendarizzato il passaggio nelle Commissioni al Senato, le piattaforme corrono ai ripari.
Campagne mediatiche e sindacati giallo-glovo
È qui che entra in gioco il gruppo di rider italiani favorevoli al mantenimento del cottimo, citati all’inizio. Sono l’“Associazione rider contro il decreto” e, felici di farsi la guerra l’uno l’altro a colpi di pedale, ricevono visibilità sulle pagine dei quotidiani e affermano di rappresentare i veri interessi della categoria. Portano in dono 800 firme in calce a una “lettera aperta” contenente le loro richieste, una petizione effettuata online. Sottoscrivibile da chiunque, come abbiamo verificato, non solo da lavoratori rider, e anche più volte dalla stessa persona inserendo un nome falso. Di fatto quindi, un documento senza alcuna rappresentatività. Eppure apre loro le porte della Commissione del Senato il 2 ottobre. Dopo appena quattro giorni, l’Espresso rivela come il gruppo sia stato costituito su iniziativa di Glovo. L’azienda non si è limitata ad aiutare tecnicamente o suggerire gli appropriati strumenti informatici ai ‘promotori’ della petizione, ma è stata parte attiva e volutamente occulta del processo di creazione, organizzando un incontro nella sede aziendale per la realizzazione dell’iniziativa e decidendo tatticamente di non voler apparire tra i fautori, pure essendone il motore. Quando si dice ‘sindacato giallo’. Decisiva per lo smascheramento del teatrino la collaborazione di Deliverance Milano – un “collettivo politico di precari e fattorini attivi nel delivery food” che denuncia da tempo il fenomeno del caporalato digitale, l’uso della tecnologia per favorire lo sfruttamento e gli effetti negativi del cottimo – che ha fornito un audio dell’incontro presso gli uffici di Glovo.
Nel frattempo, il 27 settembre, Assodelivery (associazione di categoria che riunisce le big del settore, Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber Eats e Social Food e, parole loro, rappresenta oltre il 90% del mercato italiano) propone ai lavoratori delle piattaforme un questionario approfondito, realizzato in italiano e in inglese. Appaltato a SWG, il sondaggio mira a individuare la composizione sociale dei rider e il loro rapporto con il lavoro, e presenta 25 domande, molte tecniche e alcune incomprensibili senza conoscenza della legislazione italiana, e quindi non certo alla portata dei rider stranieri. Per esempio: “Quanto sarebbe d’accordo con l’introduzione delle seguenti misure? 1) Miglioramento nelle modalità di gestione del ranking, 2) Introduzione di compenso orario, 3) Obbligo per il committente di assicurazione pubblica per infortunio (Inail), 4) Corsi di sicurezza stradale gratuiti, 5) Trasparenza sui sistemi di ranking delle piattaforme, 6) Obbligo per il committente di assicurazione per infortunio (pubblica o privata), 7) Distribuzione gratuita di caschi e luci”. Oppure esplicite richieste di opinione in merito al decreto legge in fase di discussione in Parlamento, come: “Secondo lei, chi dovrebbe occuparsi di tutelare i rider?”. Con possibilità di scegliere tra sindacati, ristoratori, piattaforme, Stato, clienti o i rider stessi.
Il primo ottobre, Wired (5) rende noto che il questionario può essere compilato più volte da chiunque abbia accesso al link – ed è così, lo verifichiamo anche noi – e dunque, come ogni sondaggio effettuato dalle aziende di food delivery, i risultati non sono affidabili. Più che voler restituire una fotografia realistica quindi, il questionario sembra volersi focalizzare sulla fascia ‘alta’ dei rider, magari presentandola poi come la condizione media; ignorando la maggioranza che arrabattandosi fuori dai riflettori garantisce, competendo al ribasso sulle proprie condizioni di lavoro, la tenuta del business.
Verso la conversione in legge
Il 2 novembre, al fotofinish, il decreto viene modificato e convertito nella legge 128/2019. Passa l’impostazione iniziale, con i rider ‘continuativi’ che passano sotto la disciplina dei lavoratori subordinati e quelli ‘occasionali’ protetti da nuove tutele. Per questi ultimi le organizzazioni sindacali e datoriali hanno 12 mesi di tempo per stipulare contratti che definiscano “criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente”; in caso non lo facciano, i contratti privati tra rider e piattaforme non possono prevedere una retribuzione a cottimo e al rider deve essere garantito “un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti”. È inoltre aggiunto che deve essere “garantita un’indennità integrativa non inferiore al 10% per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli” ed è vietata “l’esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione”. I rider occasionali devono, inoltre, essere iscritti all’Inail entro tre mesi.
Il cottimo nudo e crudo dunque è abolito anche se potrebbe restare come parte della retribuzione, vista la libertà concessa a sindacati e associazioni padronali di sottoscrivere contratti con un non meglio definito “compenso complessivo” – e non è specificato, a differenza del decreto originario di settembre, che non deve essere prevalente nella retribuzione. Il meccanismo competitivo del ranking non viene toccato, salvo per il divieto di essere abbassato se si rifiuta una consegna, e quindi rimane in vigore nella dinamica competitiva di prenotazione degli slot. Ma la cosa più importante è il perdurare del rapporto di lavoro occasionale.
Rientrante nelle maglie dell’art. 2222 del codice civile, il contratto di lavoro autonomo occasionale, anche oggi sottoscritto dalle piattaforme, è caratterizzato da una mancanza di continuità/abitualità, ma non c’è alcuna regola chiara che identifichi la definizione di ‘abitualità’; al riguardo, lo stesso Ministero delle Finanze ha sottolineato, nella circolare n. 7/1496 del 30 aprile 1977, l’incertezza esistente sull’argomento quando, al fine di distinguere l’”abitualità” dall’”occasionalità”, ha rimandato a una valutazione da assumere “caso per caso sulla base delle situazioni di fatto riscontrabili in concreto”; e lì siamo rimasti. Chi e come deciderà quindi se un rider presta il suo lavoro in modo continuativo oppure occasionale?
E se il rider occasionale avrà una retribuzione mista, cottimo+fisso orario, e una maggiorazione in caso di lavoro notturno, maltempo e week end, di fatto non ci discostiamo molto dall’attuale contratto di Deliveroo – ed evitiamo di chiederci quando le “condizioni meteorologiche” sono considerate “sfavorevoli”: due gocce d’acqua o acquazzone? Temperatura sottozero e/o 40 gradi all’ombra?
Senza contare che il caporalato sarà ancora possibile.
È il futuro?
Il documento presentato da Assodelivery in Commissione Senato parla di 20.000 rider in tutta Italia: lo 0,08% dei lavoratori totali, dipendenti e autonomi, del Paese. Una percentuale infinitesimale. Perché quindi focalizzare la propria attenzione sui rider?
Da una parte perché il cottimo pensavamo di averlo lasciato nel Novecento, perlomeno ufficialmente – il lavoro nero purtroppo viaggia su altre regole. Dall’altra perché i rider ci parlano di futuro.
Nelle memorie presentate durante la conversione in legge del decreto (6), l’Inps ha lamentato, “l’inconsistenza informativa e la mancanza di tracciabilità degli eventi” di reclutamento dei rider e dell’esecuzione degli ordini, “l’indisponibilità di dati storici e di contesto […] anche ai fini della prevenzione infortuni e malattie professionali, l’assenza di una regolamentazione sui kit di sicurezza e di trasporto” e soprattutto “l’assenza di controlli sugli algoritmi della piattaforma al fine di garantire il bilanciamento degli interessi in gioco e il rispetto dei diritti fondamentali di uguaglianza e non discriminazione con riferimento alla pianificazione delle prestazioni di lavoro”. Già il 23 luglio, nel workshop “Rider e OMLP nello scenario della Gig Economy”, sempre l’Inps aveva proposto un registro digitale per rider e aziende contenente informazioni sulle politiche delle piattaforme verso rider e clienti, certificazione delle informazioni sui rider, tracciatura delle consegne in tempo reale; dati che dovrebbero essere in mano agli enti per monitorare le condizioni di lavoro.
Quanto l’aspetto digitale sia cruciale nella cosiddetta gig economy, di cui i rider fanno parte, è più che evidente.
La segretezza degli algoritmi è un problema, dal momento che regolano il lavoro stesso dei rider, e quindi i target di efficienza che le aziende impongono ai lavoratori; oltretutto regolano anche criteri di organizzazione del lavoro che devono rispondere a vincoli di legge (non discriminazione, per esempio). Conoscere, controllare e verificare è dunque impossibile.
L’algoritmo impone anche una etero-direzione (quando, dove e come lavorare, scegliendo anche il rider, tra tutti quelli disponibili in quel turno, a cui affidare la consegna), in una subordinazione macchina-uomo che oltre a essere un cambio di paradigma nel lavoro, crea non poche difficoltà. Mario non ha mezzi termini: “C’è l’app che funziona alla c… Ogni tanto va in tilt, non ti chiude gli ordini, oppure non so. Un sacco di problemi. Non ti si apre. Mandano spesso gli aggiornamenti, ma è sempre una m…” C’è una chat di supporto, racconta, ma nel fine settimana spesso non rispondono. E può capitare che “ti mandano in un locale che è chiuso, non puoi ritirare, glielo dici, non puoi avvisare nessuno, non ti risponde nessuno, sei bloccato, hai questa consegna aperta e perdi tutta l’ora dietro questo ordine che rimane aperto”. Stessa cosa per Luca: “Se ho un problema con un locale, o non trovo un cliente, devo affidarmi a una chat che scarica tutte le sue tempistiche sulla mia ora di lavoro. Tutte le loro problematiche si ripercuotono sul mio orario di lavoro. Se non trovo un cliente che fa un ordine e sto in strada ad aspettare lui, oppure vado in un locale a cui non è arrivato l’ordine, tutto si ripercuote sul mio lavoro”.
Per non parlare del meccanismo competitivo del ranking, impossibile da verificare quanto l’algoritmo, e della geolocalizzazione attuata dalla app anche, secondo interviste raccolte da Report di Rai 3, quando il rider è sloggato.
“Se protesto, domani mattina mi trovo l’account spento, vengo disconnesso. Poi come lavoro?” esclama Luca. E conclude: “Probabilmente il glover ideale che vorrebbero è una persona che vive per strada, dorme su qualche panchina con lo zaino vicino e aspetta il momento in cui arriva l’ordine, pronto a scattare in qualunque condizione sia. E tutto sommato ci si chiede: ma migliorerà per noi, o noi siamo l’apripista per tutti gli altri tipi di lavoro?”
2) Cfr. Cristina Giorgiantonio e Lucia Rizzica, Questioni di Economia e Finanza, Il lavoro nella gig economy. Evidenze dal mercato del food delivery in Italia, Occasional Papers n. 472, dicembre 2018 https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2018-0472/QEF_472_18.pdf
3) Cfr. https://www.slideshare.net/CristinaTajani/i-riders-a-milano-una-ricerca-di-carattere-ricognitivo
4) A titolo di tutela, per tutti i soggetti intervistati sono stati utilizzati nomi di fantasia
5) Cfr. L. Zorloni, Il nuovo decreto sui rider mette tutti contro tutti, Wired, 1 ottobre 2019 https://www.wired.it/economia/lavoro/2019/10/01/rider-decreto/
6) Cfr. http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/documenti/52221_documenti.htm