Il conto in Svizzera di Attilio Fontana: la Lombardia, la Lega Nord e l’evasione fiscale
Il 16 aprile 2020, in piena emergenza Covid, Aria Spa (la centrale acquisti della Lombardia) ordina direttamente, senza alcuna gara di appalto, alla società Dama Spa (che produce il marchio di abbigliamento Paul&Shark), una fornitura di 75.000 camici per medici e infermieri e 7.000 set sanitari per un valore complessivo di 513.000 euro. La moglie del governatore Attilio Fontana, Roberta Dini, possiede il 10% di Dama Spa tramite la società Divadue Srl, mentre il restante 90%, attraverso una fiduciaria svizzera, è di proprietà di Andrea Dini, fratello di Roberta e dunque cognato del presidente della Regione, che ricopre anche il ruolo di amministratore delegato dell’azienda di famiglia. Il 20 maggio la Dama Spa storna la fattura, dopo che i media hanno iniziato a porre al governatore e a Dini domande scomode circa un possibile conflitto di interessi. Si tratterebbe di un equivoco, dichiara Andrea Dini all’inviato di Report Giorgio Mottola: “Quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha male interpretato, ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto, perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione” (1). Da parte sua Fontana chiarisce: “Non sapevo nulla e non sono intervenuto in alcun modo”. In verità, ma lo scopriremo solo a settembre (dopo la pubblicazione dei messaggi telefonici che si sono scambiati fra febbraio e marzo Andrea e Roberta Dini), a causa del coronavirus la Dama Spa aveva visto crollare il suo fatturato e cercava di riconvertirsi nelle forniture sanitarie per rimediare, almeno parzialmente, a una situazione finanziaria che i fratelli consideravano drammatica (2).
Presumibilmente, dopo l’inopportuno interessamento dei media, Attilio Fontana (“Atti” per gli amici), per evitare altri imbarazzi istituzionali in un momento in cui già si trovava nell’occhio del ciclone a causa della gestione discutibile della pandemia, convince i Dini a rinunciare all’affare, ma in cambio è ‘costretto’ a ripagare la famiglia di tasca sua – almeno parzialmente – per il mancato introito. Così il 19 maggio (casualmente, il giorno prima che Andrea Dini trasformi la fornitura in donazione), Fontana dà mandato all’Unione Fiduciaria Spa, la società fiduciaria che gestisce il patrimonio del governatore, di effettuare un bonifico di 250.000 euro dal suo conto svizzero UBS a favore della Dama Spa: la causale del bonifico si riferisce specificamente alla fornitura di camici.
E qui per Atti le cose si mettono male: Unione Fiduciaria blocca il bonifico perché l’entità della somma, la qualifica del cliente (PEP, acronimo per “Persona Politicamente Esposta”), la mancanza di una causale ‘coerente’ e la provvista da un conto svizzero violano i protocolli antiriciclaggio della fiduciaria, che invia a Bankitalia un SOS, ossia una “Segnalazione di Operazione Sospetta”. Bankitalia, a sua volta, allerta il nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza, che gira il fascicolo alla procura di Milano. Così il 25 luglio scorso il governatore viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di “frode in pubbliche forniture”, nell’inchiesta in cui risultano indagati anche Andrea Dini e Filippo Bongiovanni, il direttore generale dimissionario di Aria Spa.
L’interesse dei media ora è tutto per quel conto svizzero. Emerge che il governatore conserva all’UBS un tesoretto di 5,3 milioni di euro. Che Fontana fosse più che benestante già si sapeva, in parte era stato candidato alla presidenza della Regione anche per quello (“Siccome è ricco di famiglia, bisogno di rubare non ne ha”, si diceva negli ambienti della Lega [3]), ma così tanti soldi? E da dove vengono? I rumors si rincorrono, e così il 27 luglio Atti decide di rilasciare un’intervista esclusiva a Francesco Bei di Repubblica (4), per dire la sua sulla vicenda e spiegare la provenienza del denaro.
Circa il bonifico incriminato, il governatore dichiara di aver spontaneamente considerato di alleviare in qualche modo il peso economico dell’operazione del cognato, partecipando personalmente alla copertura di una parte del valore della fornitura. “Si è trattato di una decisione spontanea, volontaria e dovuta al rammarico di constatare che il mio legame di affinità aveva solo svantaggiato un’a-zienda legata alla mia famiglia” (ma perché avrebbe svantaggiato l’azienda se l’intenzione di Dini era davvero quella di fare una donazione?). Quanto al conto svizzero, Atti ne rivendica la perfetta legittimità: “Quel conto non solo è perfettamente legale e frutto del lavoro dei miei genitori, ma è dichiarato, pubblico e trasparente; è riportato nella mia dichiarazione patrimoniale pubblicata sin dal primo giorno del mio mandato sui siti regionali come la legge prevede”.
Il denaro, in verità, è stato gestito fino al 2015 da due trust alle Bahamas ed è poi ‘emerso’ tramite una procedura chiamata voluntary disclosure. Ma da dove provenivano questi soldi e perché stavano all’estero? “Quello all’estero era un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo di moda a quei tempi […]. Morta mia mamma, a 93 anni, io l’ho ereditato e l’ho dichiarato nel rispetto delle leggi italiane e pagando il dovuto”, dichiara Fontana. “Sua madre faceva la dentista, erano soldi frutto di evasione fiscale?”, lo incalza il giornalista. “Ma che dice? I miei hanno sempre pagato tutte le tasse, mio papà era dipendente della mutua, mia madre era una super-fifona, figurarsi evadere… Non so davvero dirle perché portassero fuori i loro risparmi. Comunque era un conto non operativo da decine di anni, penso almeno dalla metà degli anni Ottanta”.
Un cumulo di sciocchezze, e i media non ci mettono molto a scoprirlo.
Come detto, i 5,3 milioni del conto svizzero sono emersi da un procedimento di voluntary disclosure (traducibile in italiano con “collaborazione volontaria”) varato dal governo Renzi nel 2015 (5). Come si legge sul sito dell’Agenzia delle entrate, la voluntary disclosure “consente ai contribuenti che detengono illecitamente (il corsivo è dell’autore) patrimoni all’estero di regolarizzare la propria posizione denunciando spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione degli obblighi di monitoraggio. Ai contribuenti che aderiscono a questo strumento, l’Agenzia delle Entrate assicura sconti fino alla metà delle sanzioni, mentre le imposte e gli interessi dovuti sui capitali rientrati dall’estero devono invece essere versati per intero”. (6). Altro che madre fifona! E infatti Atti è costretto a correggere il tiro: a proposito del trust alle Bahamas che, a quanto pare, ha occultato per 23 anni il conto di Lugano, dichiara – sempre a Repubblica – qualche giorno dopo: “Escludo che mia madre sia mai stata alle Bahamas. Se i miei genitori hanno commesso delle violazioni, non spetta a me giudicarli. Ma non posso essere io a dover rispondere della loro condotta” (7). Tuttavia ribadisce che fino alla morte della madre, avvenuta il 6 giugno del 2015, il denaro era illecitamente detenuto a sua insaputa.
Prendiamo per buone le sue parole, anche se Fontana è un avvocato d’affari e “non può non sapere del trust nelle isole caraibiche, non fosse altro perché dal 2005 ne è il beneficiario” (8). Inoltre, dal 1997 al 2005 il governatore ha avuto la procura sul conto svizzero da cui è stato creato il trust, e per ottenere la procura su un conto bisogna recarsi personalmente in banca per depositare la firma (9). Si può inoltre arguire che uno strumento di ingegneria finanziaria come il trust è senz’altro più familiare a un legale specializzato nel ramo societario, come Atti, che non a una coppia di medici come i suoi genitori.
Fontana però ha ragione su un punto: portare i soldi all’estero è stato di moda per molto tempo, almeno nell’ambiente da cui il governatore proviene, quello della ricca borghesia lombarda. E qui bisogna fare una piccola digressione storica.
Dagli anni ’50 ai ’70: evasione sì, conto in Svizzera no
Dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta, la lotta all’evasione fiscale non è mai stata una priorità per i governi che si sono succeduti alla guida del Paese (ricostruzione del dopoguerra, boom economico, crisi anni ’70, binomio fondi neri-corruzione… tante le ragioni e non entriamo qui nel merito).
Dal momento che per quarant’anni i controlli tributari sono stati una rarità e i consumi erano effettuati esclusivamente in contanti, per imprenditori, commercianti e professionisti era semplicissimo lavorare in nero, costruendosi tesoretti segreti che venivano gelosamente conservati in casseforti private, cassette di sicurezza e conti in Svizzera. Quest’ultima opzione aveva il pregio di proteggere il malloppo da eventuali sconvolgimenti politici – vittoria elettorale del Pci e possibili imposte patrimoniali – svalutazioni della lira – il franco svizzero era una certezza di stabilità, moneta rifugio per eccellenza – e qualsivoglia altro accadimento, visto anche il segreto bancario custodito meglio di quello del confessionale.
Sembrerebbe tutto molto semplice, con gli occhi di oggi: il Sciur (o la Siura) Brambilla di turno si alza, prende la valigia con i milioni di lire in contanti faticosamente – si fa per dire – sottratti alle grinfie del fisco, sale in macchina, attraversa il confine, sceglie una banca e apre un conto cifrato, dopodiché se ne torna a casa felice e contento. In realtà il processo era molto più complicato perché, se l’evasione fiscale in quegli anni è sempre stata ‘tollerata’, l’esportazione di denaro è stata uniformemente combattuta, e per ottime ragioni.
Le norme valutarie hanno, da sempre, rappresentato uno strumento a tutela dell’economia nazionale, intesa in senso lato, attraverso il controllo dei mezzi di pagamento da e verso l’estero. Ripercorrendo la legislazione valutaria, il primo step normativo è costituito dalla legge n. 786 /1956 (c.d. legge valutaria), che instaurava un regime a impostazione negativa secondo il quale “tutto è vietato ad eccezione di ciò che è espressamente consentito”. L’art.2 della leg-ge recitava infatti: “Ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e i non residenti, esclusi i contratti di vendita di merci per l’esportazione nonché i contratti di acquisto di merci per l’importazione, se non in base ad autorizzazioni ministeriali. Ai residenti è fatto divieto di effettuare esportazioni ed importazioni di merci se non in base ad autorizzazioni ministeriali […]” (corsivi dell’autore). L’art. 4 specificava: “I residenti non possono ricevere pagamenti da non residenti o effettuare pagamenti a non residenti, direttamente o per conto dei medesimi […]”, e l’art. 5 impediva “di possedere quote di partecipazione in società aventi la sede fuori del territorio della Repubblica, nonché titoli azionari e obbligazionari emessi o pagabili all’estero se non in base ad autorizzazioni ministeriali […]” (corsivo dell’autore). Salva l’applicazione delle norme penali, a coloro che effettuavano operazioni in violazione del decreto si applicavano sanzioni amministrative.
Esportare valuta era dunque illegale, a prescindere dal fatto che il denaro trasferito all’estero fosse stato regolarmente denunciato al fisco oppure no, a meno di ottenere una specifica dispensa ministeriale. Il regime di cambi fissi instaurato con Bretton Woods imponeva infatti un ferreo controllo dei flussi valutari in entrata e in uscita, e non era pensabile che la popolazione fosse lasciata libera di movimentare la lira a proprio piacimento.
Negli anni Settanta, a causa della svalutazione della lira (crollo Bretton Woods, crisi petrolifera ecc.), la legislazione divenne ancora più restrittiva: per impedire il deflusso dei capitali verso l’estero, la legge 159/1976 intitolata Disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie trasforma in fattispecie penali l’esportazione di valuta e la costituzione di capitali all’estero, punibili addirittura con la reclusione: “Chiunque, senza l’autorizzazione prevista dalle norme in materia valutaria, esporta con qualsiasi mezzo fuori del territorio dello Stato valuta nazionale o estera, titoli azionari o obbligazionari, titoli di credito, ovvero altri mezzi di pagamento, è punito con la multa […]. Chiunque costituisce fuori del territorio dello Stato, a favore proprio o di altri, disponibilità valutarie o attività di qualsiasi genere senza l’autorizzazione prevista dalle norme in materia valutaria, è punito con la multa […]. Nei casi previsti dai commi precedenti, se il valore dei beni esportati ovvero delle disponibilità o attività supera complessivamente 5 milioni di lire, la pena è della reclusione da uno a sei anni e della multa dal doppio al quadruplo del valore predetto […]” (art.1).
Difficilmente quindi la ricca borghesia lombarda (fra cui la “super-fifona” madre di Atti) attraversava personalmente la frontiera con i biglietti di banca nella borsetta o nel portabagagli, correndo il rischio di finire in galera: per trasferire il contante esisteva un professionista apposito, il cosiddetto spallone (termine mutuato dal gergo del contrabbando d’antan), il quale agiva per conto dei proprietari del denaro (o del loro commercialista o avvocato di fiducia) e il cui compito era appunto quello di spostare materialmente i capitali dall’Italia alla Svizzera. Il nome non deve trarre in inganno: lo spallone moderno non è più il piccolo criminale che di notte, zaino in spalla, attraversa il confine sui monti per passare attraverso le maglie della polizia di frontiera, ma è un cittadino insospettabile che, per la più semplice delle ragioni, attraversa quotidianamente il confine ed è ben conosciuto dai finanzieri che controllano i valichi: stiamo parlando del frontaliero, cioè del cittadino italiano che abita in genere nelle zone del comasco e del varesotto e che, ogni giorno, attraversa il confine per recarsi al lavoro in Svizzera. Uomini e donne insospettabili, fra cui una zia di chi scrive (quasi coetanea della madre di Fontana e come lei defunta da qualche anno), che integravano lo stipendio elvetico facendo la cortesia (molto ben retribuita) a imprenditori, commercianti e artigiani di traghettare dall’altra parte i ‘risparmi di una vita’.
Anni ’80: l’inversione di tendenza
È solo dalla metà degli anni Ottanta che la tendenza normativa si inverte, per arrivare gradualmente fino alla completa liberalizzazione della circolazione dei capitali, un passaggio scritto nel Trattato CEE che ha dato vita al Mercato comune europeo. Tutto inizia con la legge 599/1986, che ha attribuito al governo la delega per l’emanazione di decreti sulla base del nuovo principio della “libertà delle relazioni economiche e finanziarie con l’estero”. In forza di tale delega, è stato prima emanato il D.P.R. 454/1987, poi sostituito dal D.P.R. 148/1988 (Testo Unico Valutario), a tutt’oggi vigente, il quale ha un’impostazione opposta a quella della precedente legge valutaria ed è modellato sul principio che “tutto è consentito tranne ciò che è espressamente vietato”. Le fattispecie penali valutarie sono state, invece, depenalizzate dalla legge 455/1988.
Tuttavia un importante correttivo al principio generale del nuovo quadro normativo è stato apportato con il decreto legge 167/1990 dal titolo Rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori (convertito dalla legge n. 227/1990), che rispondeva all’esigenza da parte dell’Erario di monitorare i trasferimenti di valuta da e verso l’estero, allo scopo di evitare che i capitali nazionali, grazie all’apertura delle frontiere valutarie, si sottraessero agli obblighi connessi alle imposte (guarda caso). Il sistema si basa sulla “canalizzazione, attraverso gli intermediari abilitati, dei trasferimenti transfrontalieri” (cioè i trasferimenti devono avvenire attraverso una banca); contestualmente, è vietato ai residenti in Italia di portare con sé verso o dall’estero somme eccedenti i 20 milioni di lire (cifra poi modificata in 12.500 euro).
In sostanza, dunque, dal 1988 chiunque è libero di trasferire su un conto corrente svizzero (o comunque straniero) la quantità di denaro che desidera, a patto che queste somme siano state regolarmente denunciate al fisco.
Inutile dire che, anche con il nuovo orientamento normativo, le esportazioni di denaro all’insaputa delle autorità tributarie sono continuate, a dispetto delle politiche di lotta (reale o di facciata) all’evasione fiscale adottate dai vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese dagli anni Novanta in poi. Nonostante tre scudi fiscali (10), varati nel 2001, 2003 e 2009, che hanno rappresentato un’opportunità molto più favorevole della voluntary disclosure per legalizzare la posizione dei contribuenti evasori, c’è voluta la morte del segreto bancario svizzero, un processo innescato nel 2009 da un insieme di fattori (11) e giunto a compimento fra il 2016 e il 2018, perché il presidente dell’Associazione Svizzera dei Banchieri, Herbert Scheidt, potesse dichiarare: “Non ci sono più soldi in nero di clienti stranieri, nelle banche elvetiche”.
Lombardia, terra di evasori
Dato il regime di anonimato, nulla sappiamo dell’identità dei possessori dei capitali rientrati grazie allo scudo fiscale, ma conosciamo l’importo totale emerso – 85,1 miliardi di euro – e in quali Paesi venissero occultati: 60 miliardi in Svizzera; 7,3 miliardi in Lussemburgo; 4,1 miliardi nel Principato di Monaco e i restanti 13,7 miliardi in altri Paesi.
Diverso il caso della voluntary disclosure, uno strumento che permette di geolocalizzare le istanze di adesione. Ebbene, quasi la metà delle somme rientrate (o comunque dichiarate) appartengono a cittadini governati da Fontana: 26,9 miliardi di euro (circa 60 miliardi l’emerso totale), distribuiti su ben 63.000 richieste di partecipazione al provvedimento. Praticamente, una piccola città di ricchi evasori (di cui Atti avrebbe potuto felicemente candidarsi a sindaco). Secondo il ministero dell’Economia e delle Finanze, le somme emerse hanno generato un gettito fiscale di 3,8 miliardi di euro. Come era accaduto con gli scudi fiscali, la nazione preferita in cui custodire le somme sottratte al fisco si è rivelata la Svizzera (con un totale emerso di 41,5 miliardi, pari al 69,6% del totale). Un fatto ovvio, dicono i commenti, considerando che fra i migliori clienti italiani delle banche elvetiche ci sono proprio i lombardi, e che gli accordi tra Roma e Berna avevano reso particolarmente rischiosa la situazione di chi aveva un conto non denunciato nella Confederazione. A seguire, tra le mete privilegiate dagli evasori ‘ravveduti’ ci sono il Principato di Monaco, con il 7,7% dei capitali emersi, le Bahamas (3,7%), Singapore (2,3%), il Lussemburgo (2,2%), San Marino (1,9%), e il Liechtenstein (1,4%).
Questi dati, secondo l’Agenzia delle entrate, sono la conseguenza di un fenomeno molto semplice: si evade di più dove si produce e si guadagna di più. Non stupisce dunque che nel 2018 il procuratore di Milano Francesco Greco, nel suo intervento a un convegno organizzato da Bankitalia su criminalità e tutela delle imprese, abbia affermato: “La Lombardia è la terra degli evasori fiscali” (12).
La Lega e l’evasione
La stessa Lombardia che ha dato i natali alla Lega (Lombarda prima, Nord poi), nata ufficialmente nel 1991, ma salita politicamente alla ribalta per la prima volta con le lezioni politiche del 1992, quando ottenne 80 rappresentanti (55 eletti alla Camera, 25 al Senato) contro i 2 (un deputato e un senatore) rimediati alla precedente tornata elettorale. Le elezioni si sono tenute il 5 aprile, con Tangentopoli da poco esplosa e lo Stato messo sotto scacco dalla mafia (il 12 marzo era stato assassinato il luogotenente andreottiano Salvo Lima), e la Lega ha stupito tutti piazzandosi al quarto posto (con circa l’8,65% dei consensi a livello nazionale), dietro i tre principali partiti di massa – Dc, Pds (ex Pci) e Psi – che fino ad allora avevano avuto saldamente in mano i destini della Repubblica. Il movimento di Bossi ottiene oltre tre milioni di voti, tutti concentrati nelle valli alpine e nella parte alta della pianura padana. Una realtà di piccole e medie imprese che nei primi anni ‘90 hanno dovuto fare i conti con la frenata economica, l’avvio della globalizzazione, la concorrenza delle aziende che riuscivano a delocalizzare, tassi di interesse alti e cambio valutario forte; un e-sercito di professionisti, negozianti e artigiani, improvvisamente diventato orfano della ‘tutela tradizionale’ – leg-gi corruzione – di Dc e Psi e incapace di stare su un mercato che iniziava a divenire internazionale, è in cerca di un altro soggetto politico che ne protegga i conti in banca (compresi quelli in Svizzera).
Bossi è l’uomo giusto al momento giusto. Nella mente del Senatur gli interessi della piccola e media azienda sono il cuore della strategia leghista: già l’8 dicembre 1989, nel suo intervento al primo congresso della Lega Lombarda, Bossi chiariva come il federalismo, il faro della visione politica dei lumbard, fosse “profondamente legato alla necessità di costruire un’Europa in cui sia conservata la democrazia e in cui venga salvaguardato l’interesse della piccola e della media industria, destinato invece a scomparire” (13). Gli interessi della Lega e delle PMI lombarde, abituate a un trattamento fiscale di favore (non più sostenibile) coincidono. Ma com’è possibile fare gli interessi del proprio elettorato e nello stesso tempo candidarsi a forza di governo, in un Paese le cui leggi impongono di pagare le tasse? Il Senatur trova la quadra in una frase da manuale della politica: “Noi siamo una forza di governo transitoriamente all’opposizione” (14).
Ma il dubbio resta. In una lunga intervista collettiva di Repubblica a Bossi del 20 marzo 1992 (15), appena qualche giorno prima delle elezioni, si legge: “La Lega raccoglie voti e simpatie nelle province più ricche e tra i commercianti, i professionisti, i piccoli e medi imprenditori, cioè i ceti a cui il nostro sistema fiscale concede in pratica di non pagare le tasse. Lei come pensa di fronteggiare la grande evasione fiscale che c’è nel Paese?” e il Senatur risponde: “Sicuramente l’evasione fiscale è un problema vero e importante e direi che c’è una vasta area di tolleranza e di protezione da parte del regime […] Pagare le tasse è doveroso e sacrosanto, però è chiaro che chi paga le tasse pretende poi dei risultati da parte dello Stato e se questi non ci sono o sono troppo pochi c’è una reazione”. Questa strategia, chiamiamola ‘copertura ideologica dell’evasione’, si è rivelata vincente. La ricca borghesia lombarda non evade per avidità (non sia mai!) ma perché Roma non fa nulla per lei, o perché le imposte sono troppo alte, o perché non pagare le tasse è una forma di protesta verso l’immobilismo della politica, eccetera.
Così, strizzando l’occhio agli elettori-evasori del Nord, la Lega ha continuato la sua avanzata sulla scena politica. I titoli dei giornali dell’epoca lo testimoniano: “La lega all’attacco: sciopero fiscale” (24 giugno 1992); “Bossi dichiara guerra al fisco” (24 agosto 1992); “Bossi contro le tasse: da Nord a Sud” (12 luglio 1993), e così via (16).
Sono passati quasi trent’anni, il Senatur è vecchio e malandato, e anche Salvini in verità non sta troppo bene (politicamente), ma è ancora impossibile immaginare di governare la Lombardia senza la Lega. Attilio Fontana è del 1952, la sua compianta madre, Maria Giovanna Brunella, era del 1923, il loro patrimonio in Svizzera “non movimentato dagli anni 80” (in realtà nel 2010 il saldo si è ingrossato di 129.000 euro, nel 2011 è diminuito di mezzo milione, nel 2012 è cresciuto di 442.000 euro, di altri 200.000 euro nel 2013, a cui si aggiungono 600.000 euro nei due anni successivi [17]) non sappiamo esattamente quando sia nato, ma possiamo dire con certezza che la sua stessa esistenza ha costituito un reato fino al 1986, e che fino al 2015 al fisco italiano non è stata versata una lira. E come Fontana e la sua cara mamma, hanno fatto altri 63.000 cittadini lombardi, che hanno evaso le tasse dovute al nostro Paese su un patrimonio complessivo di 26,9 miliardi per anni e anni, e chissà quanti sono quelli che li hanno scudati qualche anno prima (su un totale di 85,1 miliardi). Così, mentre in Lombardia non ci so-no i soldi per pagare i medici, gli infermieri, mentre si tagliano i posti letto, le terapie intensive, i pronto soccorso; mentre mancano le mascherine, i guanti, i respiratori, i tamponi, Fontana regna sulla sua giunta leghista e sulla Lombardia, a cui, insieme alla sua famiglia, ha sottratto risorse per quarant’anni o forse più.
1) Repubblica, 7 giugno 2020 https://milano.repubblica.it/cronaca/2020/06/07/news/attilio_fontana_moglie_camici_coronavirus_regione_lombardia-258640796/
2) Cfr. Il fatto quotidiano, 25 settembre 2020 https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/09/25/caso-camici-alla-regione-lombardia-la-moglie-di-fontana-scrisse-al-fratello-chiama-lassessore-sembra-siano-molto-interessati/5943741/
3) Repubblica, 26 luglio 2020 https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/07/26/news/litigi_amori_business _la_dynasty_di_provincia_dietro_quei_camici_bianchi-262956151/
5) Art. 1 della legge 186/2014, intitolata Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale
7) Repubblica, 31 luglio 2020 https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/07/31/news/fontana_il_mistero _dell_eredita_taciuta_l_esistenza_dei_soldi_in_svizzera-263403630/
8) Ibidem
9) Cfr. Open, 2 agosto 2020 https://www.open.online/2020/08/02/il-tributarista-stufano-accusa-fontana-sapeva-di-quel-conto/
10) Lo scudo fiscale è un’agevolazione che permette il rimpatrio e/o la regolarizzazione di attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero, in violazione degli obblighi di monitoraggio, a fronte del pagamento di un’unica somma a titolo di imposte, interessi e sanzioni; la regolarizzazione avviene in regime di riservatezza totale (le banche che si occupano di far rientrare i fondi non possono dichiarare al fisco i nominativi dei proprietari dei capitali), e di non punibilità dei reati tributari correlati (come omessa e infedele dichiarazione dei redditi; falsa rappresentazione di scritture contabili obbligatorie; occultamento o distruzione di documenti; false comunicazioni sociali), che prevederebbero pene fino a 6 anni di reclusione
11) La crisi economica del 2008, che ha obbligato i Paesi della Ue ad approvare politiche tributarie più severe contro l’elusione e l’evasione; la lista Falciani e lo Swissleaks; ma soprattutto le pressioni delle banche USA perché il denaro contenuto nei conti correnti aperti dagli ebrei prima della seconda guerra mondiale venisse versato ai cittadini americani legittimi eredi
12) Repubblica, 23 ottobre 2018 https://milano.repubblica.it/cronaca/2018/10/23/news/lombardia_evasione _fiscale_allarme_procuratore_greco-209772293/
13) I Congresso Nazionale della Lega Lombarda, 8 dicembre 1989, audio dall’archivio di Radio radicale https://www.radioradicale.it/scheda/34261/i-congresso-nazionale-della-lega-lombarda
14) Repubblica, 20 marzo 1992 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/03/20/macche-protesta-io-salvero-italia.html
15) Ibidem
16) Titoli del Corriere della Sera, disponibili su https://www.nextquotidiano.it/lega-sciopero-fiscale/
17) Cfr. Il portale del Ticino, 30 luglio 2020 https://www.tio.ch/ticino/attualita/1452329/conto-fontana-lugano-euro-soldi