di Guido Salvini e Claudio Del Bello |
Incontro dibattito sul saggio Valerio Verbano. Ucciso da chi, come, perché di Valerio Lazzaretti (Odradek edizioni, 2011) alla libreria Odradek di Milano, 5 maggio 2011
Guido Salvini. Affrontare una vicenda come quella dell’uccisione di Valerio Verbano non è semplice, nonostante siano passati tanti anni. Per la sua complessità e perché è un caso ancora aperto dal punto di vista giudiziario. Ebbene, il libro di Lazzaretti è invece davvero completo e meticoloso: raccoglie tutte le fonti giudiziarie e racconta in modo esaustivo il contesto storico-politico in cui avviene l’omicidio e in cui vive la Roma di quegli anni. Come magistrato mi ha colpito il metodo di ricerca utilizzato dall’Autore – che è un archivista, e questo collima perfettamente con il lavoro approfondito e di prima mano fatto sulla documentazione. Lazzaretti parte dagli indizi raccolti subito dopo quel 22 febbraio 1980 – giorno dell’omicidio – e racconta con una precisione estrema tutti i fatti di terrorismo accaduti intorno, prima e dopo l’uccisione di Verbano. Lazzaretti lascia aperto l’ultimo capitolo, credo volutamente. Si comprende tuttavia che gli elementi esposti via via nel libro – e che i giudici avevano già, in qualche modo – offrono una traccia che può portare oggi all’individuazione dei responsabili. Penso che nel saggio volutamente non siano citati alcuni elementi, e cioè quelli che hanno riportato alla recente riapertura delle indagini, per non creare, ovviamente, un’interferenza con il lavoro attuale della magistratura. Credo, insomma, che l’Autore sappia di più di quanto ha scritto. Speriamo quindi che questo libro possa avere, fra uno, due, tre anni, un completamento, con il risultato, spero positivo, della nuova indagine in corso.
Ma veniamo al fatto. Siamo a Roma, in un famiglia della piccola borghesia di estrazione antifascista: il padre, iscritto al Pci, è un dipendente del ministero degli Interni, la madre è un’infermiera. Una vita tranquilla nel quartiere Monte Sacro, un quartiere importante di Roma. Nel 1961 nasce Valerio, che dopo l’adolescenza sceglie, proprio per l’origine famigliare, di iscriversi al liceo scientifico Archimede. Non è una scelta casuale, poiché Roma in quegli anni è divisa a macchia di leopardo: ci sono i quartieri di destra e quelli di sinistra, le scuole di destra e quelle di sinistra. Il liceo Archimede è frequentato da molti ragazzi di sinistra, al contrario per esempio del liceo Giulio Cesare che è invece ‘territorio’ della borghesia romana di destra. Valerio inizia la sua attività politica, in un collettivo che si appoggia sia al liceo sia al quartiere, coniugando la militanza politica con la sua grande passione, la fotografia. Riceve infatti in regalo dal padre una macchina fotografica con il teleobiettivo, e pensa addirittura di diventare reporter, in quella vita adulta che non avrà mai – quando viene ucciso ha appena diciannove anni.
Roma vive in quell’epoca una situazione durissima, perché a differenza di Milano non c’è solo San Babila ‘nera’ e il resto della città dove l’estrema destra ha poco spazio, ma vie e addirittura interi quartieri in cui il ‘rosso’ non si avventura, se non a suo rischio, e viceversa.
Verbano svolge dapprima un’attività di documentazione molto importante sugli sfratti nei quartieri popolari, documentati a fini di rappresentazione politica, poi usa il teleobiettivo per quell’attività di catalogazione, schedatura e documentazione dell’ambiente eversivo della destra romana; redige un vero e proprio fascicolo, poi chiamato Dossier Nar (Nuclei armati rivoluzionari), nel quale raccoglie nomi, foto, luoghi di riunione, amicizie politiche e presunti legami dei neofascisti con gli apparati dello Stato. Un’attività che possiamo definire di controinformazione, così com’era intesa in quegli anni, e che lo espone molto: qualche mese prima dell’omicidio, riceve infatti una serie di telefonate di minaccia. Inizia a essere coinvolto in una serie di episodi, in uno dei quali ferisce un giovane di destra e viene a sua volta ferito da una martellata – e il dettaglio del martello è importante, come si vedrà successivamente, perché ritorna nella rivendicazione dell’omicidio.
È il 22 febbraio 1980, ed è una giornata normale. I famigliari di Verbano verso le 13.00 tornano a casa, immagino che la madre prepari il pranzo, e attendono che il figlio arrivi, come previsto, un’ora dopo, finite le lezioni. Ma quando il campanello suona non arriva Valerio, irrompono tre uomini, più o meno mascherati – sono chiaramente dei giovani, poco più dell’età di Valerio – con due pistole, e fanno qualcosa credo di unico nella storia degli omicidi politici: legano e imbavagliano i genitori con del nastro adesivo, li tengono sottomira e aspettano. Penso che l’aspetto più terribile di questa vicenda sia proprio questo, l’attesa: perché i genitori capiscono che quando il figlio arriverà a casa succederà qualcosa di catastrofico, e loro non possono impedirlo. Il ragazzo torna, entra nell’abitazione e i tre giovani lo aggrediscono. Verbano non è un ragazzino indifeso, era un esperto di arti marziali, per cui reagisce con decisione. L’azione – non lo sappiamo – poteva essere programmata solo come una gambizzazione o un interrogatorio; doveva per certo essere un rito umiliante, Valerio doveva essere legato con il guinzaglio per cani – che viene poi ritrovato in casa – forse fotografato; sta di fatto che si trasforma rapidamente in omicidio perché Valerio si difende. Un primo neofascista spara, ma il proiettile non va a segno, mentre il secondo lo ferisce mortalmente e Verbano muore qualche ora dopo in ospedale.
Il dettaglio dell’arma utilizzata è importante, nel libro ne è anche riportata una fotografia: è una pistola con un lungo tubo, un manicotto, che funge da silenziatore. Quella nella foto non è l’arma che ha ucciso ma l’altra, abbandonata dagli assassini nella casa. È un elemento assai indicativo perché una vecchia pistola come questa, una calibro 7.65 con il silenziatore, acquistata nei giri della malavita, è a Roma un po’ il marchio di fabbrica dei gruppi di estrema destra dell’epoca; un’arma assolutamente identica, per tipologia, ha ucciso due anni prima a Milano Fausto e Iaio, nel marzo del 1978. Gli assassini di Valerio lasciano inoltre sul posto un passamontagna e uno zucchetto di lana, che probabilmente perdono nella fase concitata dell’agguato.
L’omicidio ha una grandissima risonanza, proprio per la militanza politica di Verbano, e scatena non solo le prevedibili azioni dei gruppi dell’Autonomia e di altri, che ai margini delle manifestazioni compiono episodi di violenza, ma addirittura una carica con lacrimogeni della polizia sui manifestanti all’interno del cimitero del Verano, dove Valerio viene sepolto. A dimostrazione dell’estrema tensione del momento.
L’omicidio è attribuibile fin da subito all’area dell’estrema destra, in particolare al gruppo dei Nar, ma le indagini della magistratura non approdano a nulla e presentano anzi gravi errori, come la mancata conservazione di quel passamontagna e di quello zucchetto, distrutti recentemente, benché la prova del Dna, come tante indagini ci insegnano, avrebbe potuto portare a qualche nuova traccia.
Nella storia di questo delitto, l’aspetto delle rivendicazioni è molto importante, perché consente di avere una cartina di tornasole della Roma di quel periodo – nel giro di due/tre anni vengono uccisi qualcosa come venti ragazzi tra i quindici e i vent’anni, e non in atti di terrorismo classici come quelli delle Brigate rosse o dei Nar o nelle stragi, ma ammazzati da coetanei, sottocasa o in scontri; un paio sono addirittura uccisi per caso, ragazzi che si trovavano in luoghi di sinistra ma che con la politica avevano poco a che fare, e ragazzi che si trovavano in luoghi di ritrovo della destra uccisi solo perché frequentavano un certo bar.
Subito dopo l’omicidio inizia la fase, classica, del depistaggio: una serie di volantini, firmati “Gruppo Proletario Organizzato Armato”, indica una pista di sinistra, come se Verbano fosse un delatore – un’ipotesi assurda, ma pare che esistesse un gruppo specifico, nell’area dell’estrema destra, che si occupava di mettere in circolazione questo tipo di volantini depistatori.
Alla fine, arriva anche il volantino vero, scritto da chi ha ucciso Valerio. Il libro di Lazzaretti lo riporta, e si può notare l’intestazione molto particolare: “Nar, comandi Thor, Balder e Tir”. Thor è quella divinità nibelungica che colpisce con un martello, e il martello riporta a quello scontro che Verbano aveva avuto poco tempo prima con un gruppo di neofascisti – tra questi vi era Nanni De Angelis, un personaggio importante della destra romana che morì anni dopo in circostanze legate a violenze da parte della polizia. Il volantino si può definire fascista in modo classico: scrivono di avere già colpito con il martello in vari quartieri e che altri martelli sono pronti a fare altrettanto, a sgombrare la strada dai piccoli vermi, come Autonomi, militanti del Pdup e del Movimento studentesco, in nome della rivoluzione fascista che vincerà. La rivendicazione è da ritenere sicuramente autentica perché cita alcuni particolari dell’omicidio e – aspetto molto importante – non è diretta solo all’esterno ma è anche un messaggio rivolto all’interno del mondo di destra.
Dobbiamo infatti ricordare che i Nar non erano un gruppo centralizzato come le Brigate rosse. Si poteva farne parte condividendo le idee e le scelte e agendo poi autonomamente, con licenza di qualificarsi tali; un po’ come è avvenuto per Al-Qaeda oggi.
Una volta raccolta l’‘ispirazione’ ideologica, un gruppo dichiara che agisce come agirebbero i Nar, ognuno compie azioni per suo conto e ha il diritto di farlo, autoiscrivendosi a quell’area e condividendo covi e armi.
Tuttavia accade qualcosa di molto particolare: compare subito dopo un volantino a firma Nar – quindi risalente allo stesso gruppo e che Fioravanti, in seguito, ha riconosciuto come scritto da lui e da altri dei suoi – nel quale si afferma che azioni come quella contro Verbano non devono più avvenire. Il nostro vero nemico è lo Stato, si legge nel volantino, abbiamo ormai già iniziato a colpire magistrati e poliziotti mentre ci sono ancora questi gruppi che pensano che la rivoluzione si possa fare continuando a uccidere i compagnetti – cioè gli adolescenti che sono dall’altra parte. Se riusciamo a stabilire un’intesa tattico-strategica con il fronte dell’ultra sinistra contro lo Stato parlamentare, democratico, borghese – continua il volantino – questo sarà il vero modo per avviare una rivoluzione.
Fioravanti quindi, uno dei capi storici dei Nar, sconfessa il gruppo che agisce ancora nella logica classica del neofascismo romano. In quel periodo infatti inizia a emergere una tendenza, per altro mai raccolta dagli interlocutori di sinistra, che si colloca all’interno di quello che viene chiamato lo ‘spontaneismo armato della destra’. Nascono una serie di formazioni che propongono all’area eversiva di sinistra un’alleanza tattica, per esempio il gruppo Terza Posizione, il cui nome indica appunto l’intenzione di non presentarsi né come capitalisti né come comunisti, ma di voler superare con ideologie che possono essere populiste, peroniste o chissà che altro, l’idea di essere su fronti opposti. In questa operazione c’è, con tutta evidenza, anche un senso di inferiorità dell’area eversiva di destra rispetto a gruppi come le Brigate rosse, Prima linea o altri, che ben altre capacità e progettualità avevano mostrato rispetto ai Nar.
Avvengono anche singolari passaggi di persone dalla destra alla sinistra, esiste addirittura, nella zona di Ostia, un’agenzia criminale di un certo Egidio Giuliani, che ricompare anche nella vicenda Verbano, che si occupa di documenti falsi, armi, silenziatori e che vende sia a esponenti di destra, sapendo che sono di destra, sia a esponenti di sinistra, sapendo che sono di sinistra. È chiaro che a un ricettatore qualsiasi non importa l’area politica del ‘cliente’, ma in questo caso quello che si teorizza è proprio un’azione contro lo Stato che può essere portata avanti dagli uni o dagli altri ma, almeno così lo teorizzava la nuova destra ‘spontaneista’, in sintonia.
È molto importante per esempio la scoperta del ruolo indiretto di Egidio Giuliani, personaggio ambiguo che riforniva di armi entrambi i campi, nell’omicidio Verbano. La compagna di Giuliani, Laura Lauricella – che interrogai anch’io a quei tempi – affermò, credo in modo plausibile, che il silenziatore montato sull’arma era stato ceduto da Giuliani a Roberto Nistri, membro dell’estrema destra romana, che a sua volta lo aveva consegnato a quelli che avevano poi ucciso Verbano.
Elementi su cui indagare insomma ce ne sono, partendo dalla vicenda del silenziatore, anche se i pentiti di destra parlano pochissimo sull’omicidio Verbano e non sappiamo perché: se perché non sanno o se più probabilmente perché non ne hanno voluto parlare, considerando che l’ambiente della destra eversiva non era molto ampio, circa duecento persone, non di più. Di sicuro gli assassini di Valerio non sono i capi dei Nar, i personaggi come Fioravanti, Cavallini, Belsito, che si sono resi responsabili di molte azioni ma non di questa, ma personaggi minori appartenenti a un sottogruppo che come una meteora nasce, colpisce e sparisce, e che rivendica solo questa azione tramite il volantino. Questo modus operandi è tipico delle organizzazioni di estrema destra, ed è ciò che ha reso difficile molte indagini. Ci sono gruppi che sono come momentanei aggregati, delle bolle che nascono e muoiono, si scindono e che vivono anche di amicizie, di quel comunitarismo che è molto forte nell’estrema destra.
Anche l’omicidio di Fausto e Iaio fu rivendicato con un volantino, considerato autentico, firmato da una formazione che nasce e muore con quell’azione, e che si chiamava “Esercito nazionale rivoluzionario Nar – brigata combattente Franco Anselmi” – Franco Anselmi era un camerata di Fioravanti, morto durante una rapina in un’armeria. Un gruppo formato probabilmente da personaggi non di primo piano e che proviene da Roma per uccidere a Milano, e questo è un altro elemento molto importante, insieme al tipo di arma, una calibro 7.65, la stessa utilizzata nell’omicidio di Verbano, che avvicina i due episodi.
Tra l’altro, anche Fausto e Iaio avevano fatto attività di controinformazione, forse non così ampia come quella di Valerio, ma di certo ciò li aveva esposti. Sono due storie, quella di Fausto e Iaio e quella di Verbano, che certamente hanno una notevole analogia.
La vicenda di Valerio Verbano si interseca in qualche modo, nel contesto giudiziario e politico dell’epoca, con la storia di Mario Amato, un magistrato della Procura di Roma, originario di Trento, a cui viene affidato l’incarico di indagare sui gruppi della destra eversiva romana.
Lo dico assolutamente senza parzialità: Mario Amato venne lasciato solo. L’impegno che comportava occuparsi della destra romana con la sua violenza diffusa e la sua potenza di fuoco, avrebbe avuto bisogno della costruzione di un pool di tre/quattro magistrati che si distribuissero
lavoro, incarichi e anche responsabilità e rischi; eppure questo non venne fatto e mancò un lavoro coordinato come quello contro le Brigate rosse. Mario Amato si ritrova da solo con seicento fascicoli, e nonostante il gravoso lavoro riesce per esempio a cogliere l’importanza di ricollegare all’area della destra eversiva una serie di fatti non rivendicati, come rapine di autofinanziamento, furti di macchine, scambi di documenti rubati, fatti che incrociati tra loro possono portare alla scoperta degli autori delle azioni politiche rivendicate.
Il giudice Amato fa un lavoro meticoloso e arriva a risultati significativi per quegli anni e in solitudine; studia la documentazione di Verbano e tra il ’78-79 dispone un certo numero di arresti nel mondo neofascista. Riesce quindi a portare avanti un’attività di contenimento, fino a quando i neofascisti romani ne colgono la pericolosità e l’intelligenza e lo uccidono, il 23 giugno
1980, quando, da solo e senza scorta, aspetta l’autobus a una fermata.
Un’ultima considerazione, che ritengo molto importante. Ho apprezzato molto questo libro, per la sua serietà e completezza, tuttavia voglio prendere qualche distanza dalla prefazione dell’Editore. Non come magistrato ma come cittadino. Credo che nella prefazione manchi la capacità di dire che la morte di Verbano non trasforma la militanza nel suo mondo in qualcosa in cui sia possibile identificarsi: un impegno all’interno di un gruppo dell’Autonomia che come area contribuiva, in quegli anni, a innescare una violenza degenerata in ‘guerra privata’, incapace di avviare una vera trasformazione politica e umana della città e che ha provocato in quegli anni la morte, nella sola Roma, di decine di giovani.
Claudio Del Bello. Per prima cosa, rivendico fino in fondo la prefazione, ricordando che in quegli anni l’antifascismo ebbe una ripresa violenta e sanguinosa, ma in larghissima misura provocata. Di più. Ricordiamoci che l’antifascismo, più o meno militante, fu aggredito da due retoriche diverse, spesso collegate e dagli esiti paradossali: quella degli opposti estremismi e quella del superamento dell’antifascismo.
La prima retorica, ricorrente sui giornali della borghesia, tende a parificare fascisti e antifascisti quando lo scontro diventa violento. È un dispositivo mediatico e istituzionale che, come si vede ormai sempre più sfacciatamente, arriva fino a parificare partigiani e repubblichini, addirittura con disegni di legge.
La seconda retorica si mostra come via d’uscita offerta dai fascisti: unità contro il Sistema. E il libro di Lazzaretti documenta come fossero stati proprio i Nar a offrire una tregua per combattere insieme il Sistema. I ‘rossi-neri’, appunto. Ossia quell’area di provocazione che dice: né rossi né neri solo liberi pensieri. Esiste anche una corrente della sinistra, propriamente negriana, che afferma che è ora di smetterla con questo discorso su fascismo e antifascismo, perché i problemi sono altri, e il nemico è comune.
Il libro di Lazzaretti, tra le altre cose, getta in qualche modo luce anche su questo momento di turbolenza, che io non credo sia naturale, nativo. Non sono un dietrologo, anzi, ma in questo caso sono costretto a dire che dietro questi ricorrenti tentativi di mettere insieme rossi e neri c’è lo zampino di qualcuno; c’è un’intelligenza – per non chiamarla intelligence – che viene da lontano, dall’interno della storia delle stragi di Stato, con lo scopo di creare confusione e occasione di infiltrazione.
Ancora oggi. Su facebook, per esempio, esistono diversi profili e pagine che grossomodo fanno capo alla rivista Indipendenza, che ha un Nistri – il fratello di Roberto Nistri – tra i suoi fondatori. Su quel sito si trova l’antologia, che continuamente si rinnova, delle lotte contro il sistema ecc., e soprattutto la ricerca di una mitologia comune: dagli Arditi del popolo a Bobby Sands. Non è qualcosa che appartiene alla storia di Roma, che invece ha sempre avuto un antifascismo militante molto radicale ed esclusivo. Durante la Resistenza sono morte migliaia di persone in nove mesi, cosa che non è accaduta in nessuna altra città italiana e in nessuna altra capitale europea.
Successivamente, a cominciare dai primi anni Settanta, si è innescato uno scontro durissimo con un alto numero di morti, dal momento che non c’è stata alcuna forma di centralizzazione e la lotta politica è degenerata, fino ad arrivare a personaggi come Egidio Giuliani che forniva le armi sia ai gruppi di destra che a quelli di sinistra.
Non c’è differenza tra rossi e neri, tenta suadente il fascista. Non c’è differenza, fanno eco i giornali dei benpensanti: gli opposti estremismi. Si potrebbe anche concordare se il discorso si riferisse a bande giovanili in lotta per il controllo del territorio, o per diversa fede calcistica. Purtroppo a questo schema semplice non può essere ridotto quel periodo, questo episodio. Una parificazione – gli opposti estremismi – che è arrivata fino al cuore dell’elemento fondativo della Costituzione e della Repubblica. Lo stesso Stato tende a essere equidistante riguardo a princìpi e valori fondativi.
L’elemento che maggiormente tengo a sottolineare nella nota editoriale è che in ogni caso, senza voler giustificare la sua attività, Valerio Verbano è stato un compagno notevole, degno di essere ricordato con un’opera come questo libro, che ritengo di poter definire scientifico, soprattutto dopo le valutazioni del dottor Salvini. Verbano, poi, era un compagno medio quadratico, faceva quello che facevano gli altri, solo con più intelligenza; dopo i mesi passati in carcere – perché lo trovano mentre confeziona delle bottiglie incendiarie – è sicuramente più maturo e dai microfoni di Radio Onda Rossa prende posizione contro questo scontro indiscriminato.
Queste le ragioni politiche della scelta di pubblicare questo libro, ma ne esistono anche altre – e credo che un editore debba sempre giustificare le sue scelte editoriali.
Lazzaretti è un archivista, come sottolineato dal giudice Salvini, e sulla base del suo lavoro la Rai ha prodotto due ottimi documentari: uno su Valerio Verbano – lo si può trovare anche su YouTube – l’altro sul giudice Mario Amato. “La storia salvata dagli archivisti”, così ho iniziato la mia nota editoriale. E penso che occorra ricominciare proprio dagli archivisti, perché da un po’ di tempo molti storici sono intrigati dalla narrazione, dal plot, dal format, dalla fiction. Mi metto nei
panni di un giovane storico che si laurea all’università: ha davanti a sé vent’anni bui, perché deve lavorare a raccogliere, sulla base certo di un’ipotesi, di un’idea, la totalità dei documenti. Si dice ‘un brillante matematico di ventitre anni’ ma nessuno dirà mai ‘un brillante storico di venticinque anni’. Quindi se il giovane storico è sedotto dall’idea del successo non mi sento di condannarlo, ma lo tengo in sospetto.
Questo libro non ha un’introduzione né una conclusione. Lazzaretti non cerca di sedurre il lettore o di instradarlo. Questo libro è un processo indiziario – tra virgolette, ovviamente. Una via di mezzo tra la ricerca del giudice e quella dello storico, o forse, addirittura, anche la Storia dovrebbe essere un processo indiziario. Come editore non ho spinto l’Autore perché arrivasse a una conclusione, a far balenare davanti agli occhi del lettore dei nomi, perché credo che il punto non sia trovare l’assassino –un editore non ha la veste né la forza per stilare mandati di cattura, non ha il luogo in cui detenere e interrogare gli eventuali accusati – ma l’accertamento di che cosa è accaduto.
Lo storico e il giudice sono contigui, certamente hanno a che fare con carte e documenti, hanno l’onere di dover concludere, prima o poi, la loro vicenda, collegando prove, fatti, testimonianze in modo logico; mettendo insieme induzione e deduzione per arrivare a una formulazione. In realtà, la possibilità del giudice è molto ridotta, perché la morte del reo estingue il reato. Pensiamo alle tremende stragi nazifasciste: se il colpevole viene a morire, il giudice si ferma. Lo storico, al contrario, può occuparsi di qualsiasi evento. Quando il giudice si ferma, tocca allo storico continuare, se non con le stesse procedure, con la stessa logica.
La Storia, anche temporalmente, comincia quando finisce il potere, l’applicabilità, della giustizia. Il modo di scrivere e di applicare le leggi può variare, e di conseguenza può variare il lavoro del giudice, ma credo che molto meno possa variare il modo di fare lo storico. Per entrambe le professioni è importante la questione della contestualizzazione, a cui non si può sottrarre né il giudice né lo storico, e che si traduce nella completezza e nella totalità dei fatti, in un lavoro di classificazione dei dati e degli eventi per argomentare, concludere e soprattutto sottoporre a verifica. Un lavoro da scienziato, e per questa ragione definisco scientifico questo libro, perché non si occupa solo dell’omicidio di Valerio Verbano ma anche di tutto quello che ruota attorno.