Politica ed economia, federalismo e Cosa nostra
“Oggi i siciliani non hanno più bisogno di armi perché per difendere la nostra terra c’è l’autonomia, ben più efficace della polvere da sparo”.
Raffaele Lombardo, 7 aprile 2008
Le ragioni che hanno condotto la Lega Nord, il Popolo delle Libertà e il Movimento per l’Autonomia del Sud (Mpa) ad associarsi, sono state l’argomento meno trattato della scorsa campagna elettorale.
Visto come una delle tante stramberie della politica italiana, il singolare connubio è passato indenne al setaccio dei corsivisti che di tutto hanno questionato fuorché di questo. A parte qualche giornalista che si è preso la briga di sottolineare i nomi dei vari candidati in odore di mafia, per il resto è stato silenzio assoluto. Nessuna emozione, nessun brivido sembra avere attraversato alcuna schiena di fronte alle istanze separatiste-autonomiste, uscite dalla bocca di gente che si candidava a governare il Paese. Eppure, l’abbinamento Sud/Potere avrebbe dovuto stuzzicare l’intelletto di qualcuno, dal momento che laggiù, per dirla con il tipico sdegno leghista, esiste ancora un fenomeno chiamato Mafia. Ora: due sono le cose. O in questi anni gli strepiti di Bossi sul secessionismo hanno immunizzato le orecchie degli italiani, élite intellettuali comprese. Oppure quel Sud appare ormai troppo distante agli occhi dei cittadini del Nord. Quasi che la deregulation federalista fosse ormai per tutti un dato culturale acquisito cui manchi solamente la sanzione giuridico-politica.
Resta il silenzio dei giornali. Curioso, perché scartabellando tra libri e saggi, non è difficile rintracciare impronte nel passato prossimo dell’Italia che permettano di intuire che cosa si stia muovendo lungo la linea dell’orizzonte, sull’asse dell’alleanza Bossi-Lombardo- Berlusconi. Sarebbe a dire che leggere buoni libri serve sempre.
“Una delle tante volte che mi ritrovai con Miccichè, il Potente e il Monachino, il discorso cadde sull’on. Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania. Io, che allora consideravo Bossi un nemico della Sicilia, dissi: «Perché un’altra volta non lo ammazziamo?» Al che il Miccichè Borino esclamò: «Ma che, sei pazzo? Bossi è giusto». Il Miccichè spiegò quindi che la Lega Nord, e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un pupo, quanto il senatore Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia cristiana e della Massoneria che faceva capo all’on. Andreotti. Il Miccichè spiegò che dopo la Lega del Nord sarebbe nata anche una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa nostra, ma in effetti al servizio di Cosa nostra; e in questo modo, «noi saremmo divenuti Stato»”.
Sono parole di Leonardo Messina, un pentito considerato assai credibile dagli inquirenti, durante l’interrogatorio reso ai magistrati della Procura di Palermo nel 1993.
Nel suo saggio edito nel 2002, La Trattativa, il giornalista Maurizio Torrealta raccoglie le deposizioni di pentiti, politici, generali dei Ros riguardanti la stagione delle stragi mafiose del 1992 e 1993, nel tentativo di aprire uno squarcio sul silenzio e fare luce sulle ragioni che hanno indotto la mafia, nel corso di quei due anni, a muovere un pesante attacco armato contro lo Stato, per avviare un progetto separatista a lunga scadenza, di cui le forti istanze federaliste attualmente in atto, potrebbero apparire ideale coda politica.
Detto per inciso, non è un libro che induca a serenità. Dalla lettura delle deposizioni si evince che in tutti questi anni agli italiani è stato taciuto che: nell’estate del 1992, la mafia ha messo in atto un colpo di stato, un vero e proprio progetto eversivo bloccato, dopo la strage di Capaci, da trattative segrete tra apparati delle istituzioni e i vertici di Cosa nostra; che tali trattative hanno contribuito ad accelerare l’esecuzione della condanna a morte, già precedentemente decisa dalla cupola, di Borsellino (giunto a conoscenza dei contatti tra agenti del Ros e i capi mafia); che a quest’ultima strage non furono estranei i servizi segreti; che il prezzo di questa trattativa per Provenzano sia stata la ‘vendita’ di Totò Riina, e per la polizia la ‘dimenticanza’ di perquisire la casa del boss subito dopo l’arresto; che nel frattempo, in funzione autonomista e separatista, elementi della massoneria come Licio Gelli (to’, chi si rivede) e dell’estremismo di destra come Stefano Delle Chiaie (to’…) hanno fondato in tutto il Sud decine di leghe e leghine, per un progetto la cui carica si è in seguito esaurita alla fine del ’93, in coincidenza con la nascita di un nuovo soggetto politico, su cui la mafia ha puntato per risolvere i problemi più immediati; che queste nuove leghe hanno stabilito dei rapporti con la Lega Nord; che all’interno della Lega Nord, soprattutto alle sue origini, vi sono state forti influenze esercitate da personaggi legati alla massoneria.
Elementi tolti i quali diviene impossibile ricondurre a una trama di senso gli sviluppi politici del passato che oggi, per una singolare coincidenza, sembrano destinati a condensarsi nell’alleanza autonomista tra Bossi e Lombardo.
Dichiarazione dopo dichiarazione, nel saggio di Torrealta prende forma l’intero progetto mafioso, ben preciso e strutturato, di cui la componente armata è stata solamente la tappa iniziale. Per prima cosa chiamare lo Stato a trattare e così prendere tempo. In seguito mettere in pratica la strategia di Provenzano divenuta celebre con il nome di Sommersione. Cioè cambiare pelle in maniera lenta e invisibile adeguandosi ai tempi.
In un altro illuminante saggio del 2004, Amici come prima, Francesco Forgione, membro della Commissione regionale antimafia, affronta da una prospettiva prettamente politica questa seconda fase della rinascita della mafia e della sua trasformazione in Sistema. Sono gli anni che vanno dal 1994 al 2003 e che segnano un processo che l’autore definisce di transizione. È una trama che procede parallela alla nascita della Seconda Repubblica e che evidenzia clamorosi intrecci e legami consequenziali tra le due vicende, spesso al punto di diventare una; tanto da sollevare il dubbio che la Seconda Repubblica, altro non sia che una storia non ancora conclusa, che un domani potrebbe intitolarsi: come la mafia arrivò a farsi Stato.
Quella che si muove a garanzia di questo traghettamento da un passato di stragi a un futuro di autonomia federalista, è la Sicilia (ma è più giusto dire l’Italia tutta) del Gattopardo, del trasformismo ai massimi livelli. Scrive Forgione, assumendo il punto di vista della mafia: “Bisogna raccogliere quell’eredità politica, di relazioni e di consenso; ridare orgoglio e rappresentanza a quella trama di potere e, nello stesso tempo, presentarsi come novità, se non come la vera rottura con quel passato, agli occhi di un’opinione pubblica ancora colpita dalle vicende di Tangentopoli e dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio. Serve una grande operazione politica ma anche di marketing e di immagine di cui solo gli uomini di Publitalia possono esser capaci. Del resto, il loro capo indiscusso e braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, è siciliano, e sarà lui il regista della nascita del movimento azzurro nella sua terra”.
Il legame, tuttavia, tra Berlusconi e la mafia, secondo diverse dichiarazioni di pentiti, tra le quali quella di Salvatore Cancemi, risale ad anni precedenti: “Nel ’90-’91, il Riina mi ha mandato a chiamare e mi disse che c’era la Fininvest, appunto di Berlusconi e Dell’Utri, che era interessata a comprare tutta la vecchia Palermo […], che interessava a queste persone […]. Il Riina Salvatore mi disse che erano queste persone che lui aveva per le mani per… per queste cose, diciamo questi benefici, chiamiamoli così, per queste cose che noi speravamo, diciamo, di avere. E infatti di queste persone a Riina ci mandavano duecento milioni, un contributo per Cosa nostra. […] Quindi io vi posso dire queste cose che io ho vissuto direttamente; vi posso dire che il Riina Salvatore a me mi diceva che lui si incontrava, sì, con queste persone”.
Era proprio su questo contatto che Borsellino stava indagando prima di morire, e alla domanda che il pm Di Matteo rivolge a Cancemi, se ci fosse un collegamento tra le stragi da una parte e gli obiettivi politici che Riina voleva raggiungere con i nuovi amici dall’altra, il collaboratore di giustizia risponde: “… Io le posso dire con assoluta certezza che Riina, quando parlava di queste cose, metteva nel mezzo questi nomi, diciamo di persone. Quando lui faceva il ragionamento che si dovevano cambiare queste leggi (la 41bis, per esempio, entrata in vigore dopo l’omicidio di Borsellino e la sua scorta, n.d.a), lui diceva che queste persone noi li dobbiamo garantire ora e nel futuro di più […]. Noi queste persone li dobbiamo garantire, queste persone ci dobbiamo stare vicino, che questi sono quelli che a noi ci devono portare bene”.
Quella della sommersione è stata la fase più lunga e complessa, per via della compromissione che chiedeva alla mafia con elementi esogeni ai suoi meccanismi interni. La Democrazia cristiana – caduto il muro di Berlino e terminata la funzione anticomunista affidata a Cosa nostra nel dopoguerra – le aveva voltato le spalle. Il successivo attacco da parte dello Stato, concluso nel 1992 con la raffica di ergastoli piovuta su boss e picciotti messi in carcere dal pool antimafia, l’aveva costretta alla mossa più azzardata: l’assalto militare e la contemporanea fondazione di leghe e leghine del Sud. Una strategia binaria con l’obiettivo non dichiarato della conquista dello Stato. La messa in atto di un meccanismo simile alle istanze separatiste avanzate dall’Eta nei Paesi Baschi e dall’Ira nell’Irlanda del Nord, seppure con finalità e ideali molto differenti dai loro. Una strategia che tuttavia aveva il difetto di prevedere tempi di sviluppo eccessivamente lunghi. La mafia non era nelle condizioni di aspettare, e la formazione delle tante leghe nell’ottica di un’alleanza con Bossi non avrebbe garantito un successo a breve termine. La 41bis, il regime di carcere duro e gli ergastoli rischiavano di incentivare il fenomeno del pentitismo.
Sarebbe stata, secondo i pentiti, la nascita del Polo delle Libertà a sollevare Cosa nostra dall’impasse. E Forgione, in maniera didattica, dimostra in che modo Forza Italia e l’Udc avrebbero contribuito alla ricostruzione dei rapporti della mafia con il territorio. “I partiti del Polo scelgono la strada del radicamento capillare nel territorio. Sanno che nell’isola il terreno è fertile, che le istanze dello scambio politico mafioso vivono nel ventre molle della società e sono decisivi per determinare gli equilibri politici e il consenso elettorale. Comune per comune, i costruttori di Forza Italia e del Polo recuperano tutto il vecchio personale politico apparentemente evaporato allo scoppio delle prime inchieste della magistratura. Riallacciano rapporti con gli esponenti di quelle classi dirigenti locali e con quella rete di uomini rappresentativi di un sistema di potere diffuso sul territorio che da sempre, in Sicilia, rappresentano interessi di frontiera con quelli di Cosa nostra. […] Nei club azzurri, dopo poche settimane si ritrova la società che conta: imprenditori, professionisti, commercianti, ex assessori e consiglieri comunali della Prima Repubblica, operai e gente del popolo. Sono la rappresentanza in piccolo di un vero e proprio blocco sociale già egemone nella società siciliana e soprattutto nel suo ventre molle. Nei quartieri periferici, ad animare i club azzurri sono spesso i capipopolo; capi di quell’esercito di precari, sottoproletari, ex carcerati ma anche di lavoratori impegnati in progetti utili…”
Un capolavoro di Realpolitik, terminato con la conquista di 61 seggi su 61 alle elezioni del 2001, dietro la quale s’intravedeva il trionfo di quei poteri forti che da sempre comandano alle spalle della politica ‘politicata’. L’ennesimo successo di chi domina senza bisogno di venire eletto e che può essere definito solamente attraverso astrazioni come ‘la massoneria’, ‘il mondo imprenditoriale’, ‘i servizi segreti deviati’, ‘la politica’. Parole delegittimate dal linguaggio per la loro stessa vaghezza. Parole dietro cui si può fare solo della letteratura, come Dante quando descrive Lucifero, di cui non vede il volto, immobile, piantato nel ghiaccio mentre sbrana i corpi di Giuda, Bruto e Cassio. Ancora oggi è la descrizione più efficace per definire il famoso Terzo livello cui davano la caccia Falcone e Borsellino.
Quello tra mafia e massoneria è il punto d’incontro su cui poggia buona parte della storia italiana del secondo Novecento. Numerosi sono i capi mafia appartenenti anche a quest’ultima, ed è proprio all’interno dei corpi massonici che nascono i contatti con gli imprenditori e con le istituzioni che amministrano il potere.
Secondo quanto emerge dalle varie dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in tale centro di raccolta dei poteri forti, alla fine degli anni Ottanta è stato perfezionato, da una cupola di corleonesi, esponenti della massoneria e uomini dei servizi segreti, il piano per ricostruire l’Italia, dopo il crollo dei vecchi partiti, divisa in una federazione di regioni, che consegnerebbe il meridione nelle mani di una criminalità organizzata ormai fattasi Sistema; perfettamente inserita all’interno di un regime democratico, in cui sfumano i confini tra traffici legali e illegali. E certamente, oggi, a due anni dell’entrata in vigore del Trattato dell’area di libero scambio del Mediterraneo, si può azzardare qualche congettura su che cosa potrebbe accadere, qualora la mafia, già padrona militare del meridione, già detentrice di una considerevole ricchezza finanziaria e imprenditoriale, riuscisse a mettere la mani sul potere amministrativo di un ipotetico Stato federale del Sud e farsi essa stessa, in tal modo, Stato. Ed è facile ipotizzare quali vantaggi e, soprattutto, quali effetti comporterebbe per la popolazione meridionale, già oppressa e impoverita sotto un sistema nazionale centralizzato.
Potrebbe trasformare il meridione in una piccola Cina del Mediterraneo. E proprio in quest’ultima congettura, in questa logica affaristica, l’impresa di Cosa nostra rivela per intero la propria portata.
La deregulation che ne seguirebbe, sull’onda dell’inerzia normativa in tema di mercato del lavoro in atto da anni nell’economia globalizzata, renderebbe il Sistema medesimo, crocevia di un immane traffico commerciale. Polo attrattivo, cioè, di insediamenti produttivi per le industrie continentali, Nord Italia compreso, oltre che centro di richiamo dall’estero di capitali di investimento e di speculazioni. Il che accrediterebbe il Sud dell’Italia come nuovo paradiso fiscale e porterebbe a compimento una dinamica propria al capitalismo, che vuole che, a una iniziale forma di anarchia commerciale, segua inevitabilmente, in là nel tempo, una successiva integrazione all’interno dei vecchi equilibri del mercato. Nell’adempimento di una delle più stringenti esigenze del capitalismo, perennemente bisognoso di nuove piattaforme off-shore che riconducano alla legalità la parte consistente del capitale guadagnato illegalmente.
Un progetto politico in cui, al solito, Cosa nostra può permettersi di restare nell’ombra. Perché, tanto, ci penserà Bossi, per sublime ‘paradosso’, a servirle lo Stato su un piatto d’argento.