Recensione del film La banda Baader Meinhof, Uli Edel
“Non si prenda troppo a cuore il mio caso.
Un’esistenza borghese è l’ultima cosa cui aspiro.”
Gudrun Ensslin
Nel 1966 in Germania Ovest il 95% del Bundestag è controllato dalla coalizione Spd-Cdu, partito di ispirazione socialdemocratica il primo, democristiana il secondo. Il cancelliere è Kurt Georg Kiesinger, che fino al 1945 era stato membro del partito nazista, dove rappresentava un collegamento tra il ministero della Propaganda e quello degli Esteri. Questo scatena la protesta di una larga fascia di giovani, molti dei quali non hanno mai perdonato ai propri genitori di essere rimasti indifferenti o addirittura avere contribuito materialmente all’ascesa di Hitler.
Questa frattura generazionale è di centrale importanza per capire le motivazioni che stanno alla base della formazione di gruppi armati di estrema sinistra quali la Raf (Rote Armee Fraktion) nel 1970 o la Rz (Revolutionäre Zellen) nel 1973. Non bisogna infatti dimenticare che i regimi fascisti di António de Olivera Salazar, a cui nel 1968 succede Marcelo Gaetano, in Portogallo e Francisco Franco in Spagna continuano a mietere vittime rispettivamente fino al 1974 e il 1975, e lo stesso accade in Grecia, tra il 1967 e il 1974, con quello dei colonnelli. Un ritorno del nazifascismo anche nei Paesi liberati – si pensi alla quantità di bombe esplose in Italia a partire dal 1969 nell’ambito della strategia della tensione – o la sua prosecuzione sotto nuove forme apparentemente democratiche è una possibilità dotata di un’inquietante concretezza.
Del resto in Germania Ovest il caso di Kiesinger non costituisce certo un’eccezione. Già tra il 1953 e il 1963, un altro ex nazista, Hans Globke, che peraltro nel 1935 aveva contribuito alla stesura delle leggi razziali, è il più stretto collaboratore di Konrad Adenauer, primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca. Lungi dall’essere stata compiuta una reale epurazione, il riciclaggio di ex funzionari nazisti negli apparati dello Stato rappresenta la norma, come d’altronde accade in Italia con quelli fascisti. Oltre a ciò, la ri-militarizzazione della Germania Ovest, come quella di tutti gli altri Paesi europei sotto l’egemonia statunitense, si struttura in chiave atlantista e filoisraeliana, e lo Stato tedesco è coinvolto attivamente nella guerra in Vietnam in qualità di esportatore di armi.
Ulteriori motivi di dissenso riguardano la censura e il controllo poliziesco: già nel 1956 il Partito comunista di Germania era stato reso illegale, e le proteste dei movimenti extraparlamentari vengono puntualmente represse nel sangue.
Il film La banda Baader Meinhof di Uli Edel ha il merito di descrivere dettagliatamente questa situazione, in modo da offrire una cornice storica alla formazione del gruppo rivoluzionario, evitandone così una demonizzazione acritica. Non per niente una delle scene iniziali riguarda la protesta del 2 giugno 1967 davanti alla Deutsche Oper a Berlino Ovest in occasione della visita di Mohammad Reza Pahlavi in compagnia della moglie. La polizia tedesca lascia prima che i manifestanti vengano picchiati dagli agenti dello scià di Persia, per poi partecipare lei stessa al massacro. Nel corso dei disordini, Karl-Heinz Kurras, un poliziotto in borghese, spara in testa a Benno Ohnesorg, uno studente di letteratura romanza di ventisette anni, che muore prima dell’arrivo dell’ambulanza.
Kurras viene poi assolto il 23 novembre dello stesso anno, e in seguito a ciò – anche se tale evento non viene riportato nell’opera di Edel – in una riunione della Lega socialista degli studenti tedeschi, Gudrun Ensslin dichiara: “Ci uccideranno tutti. Sapete bene con che tipo di maiali stiamo combattendo. Questa è la generazione di Auschwitz. Loro hanno le armi e noi no. Dobbiamo armarci!”
Il 2 aprile 1968 alle parole seguono i fatti, dal momento che è proprio lei, interpretata nel film da Johanna Wokalek, con Andreas Baader (Moritz Blebtreu), Thorwald Proll e Horst Söhnlein a piazzare due bombe incendiarie, poi esplose nottetempo, in altrettanti centri commerciali di Francoforte, come atto dimostrativo contro l’indifferenza per la guerra in Vietnam. Appena due giorni dopo vengono tutti arrestati, e al processo, tra i giornalisti accorsi per seguire la vicenda, c’è anche Ulrike Meinhof (Martina Gedeck). Si ha qui la prima tappa del percorso di coscienza che porterà la Meinhof a fare la scelta della lotta armata. Resta infatti colpita dalle parole dei genitori di Gudrun Ensslin, i quali, intervistati, sostengono di avere trovato liberatorio il gesto della figlia, che si è innalzata così a uno stato di “sacra autorealizzazione”.
Nel frattempo, l’11 aprile 1968, una settimana dopo l’assassinio di Martin Luther King e due mesi prima di quello di Robert Kennedy, Josep Bachman (Tom Schilling) spara tre colpi di pistola a bruciapelo contro Rudy Dutschke (Sebastian Blomberg), leader del Movimento studentesco tedesco, ferendolo gravemente (1). Subito si scatena una protesta davanti alla sede del quotidiano Bild-Zeitung, di proprietà di Axel Springer, fautore di una massiccia propaganda contro la sinistra extraparlamentare, che in un’edizione aveva titolato Stop Dutschke ora. Altrimenti è guerra civile. A questa manifestazione partecipa anche Ulrike Meinhof, che evita l’arresto solo in virtù del suo status di giornalista.
Viene così sottolineata la differenza tra lei e gli altri attivisti – tra le parole e i fatti. Questo tema si riaffaccia più volte nell’opera di Edel, per esempio quando la Ensslin, intervistata, le dice se pensa di “cambiare qualcosa con le sue masturbazioni intellettuali”; oppure, dopo che la Meinhof le confida di avere girato un film su una casa di accoglienza dove le ragazze vengono trattate come schiave, senza riuscire a ottenere alcun miglioramento della loro condizione: “Devi tracciare una linea netta che ti divida da coloro che vuoi combattere. Insomma, devi liberarti dal sistema e tagliare tutti i ponti dietro di te”.
Il 31 ottobre 1968 Gudrun Ensslin, Andreas Baader, Thorwald Proll e Horst Söhnlein vengono condannati a tre anni di reclusione ciascuno, per poi essere rilasciati nel giugno del 1969 in attesa che la Corte federale si esprima sul ricorso. Nel novembre dello stesso anno viene richiesta nuovamente la loro carcerazione, ma solo Horst Söhnlein rispetta l’ordine. Tutti gli altri fuggono prima in Francia, dove vengono ospitati per qualche tempo da Régis Debray, regista di idee rivoluzionarie e amico di Che Guevara (parte che però viene omessa nel film), poi in Italia. Qui sono raggiunti dall’avvocato Horst Mahler (Simon Licht), che li sprona a tornare in Germania Ovest per formare un gruppo clandestino di lotta armata, ma già nell’aprile del 1970 Andreas Baader viene nuovamente arrestato in seguito a un controllo stradale. Gudrun Ensslin è però decisa a organizzare la sua evasione, e Ulrike Meinhof è con lei. Inizialmente avrebbe dovuto solo fingere di intervistare Baader presso l’Istituto centrale tedesco di Berlino Ovest e, in seguito all’irruzione della Ensslin e altre due persone armate, restare lì a recitare la parte della vittima innocente.
Ma è a questo punto che la Meinhof decide di “tracciare una linea netta che la divida da coloro che vuole combattere”, e il salto che compie dalla finestra a pianoterra dell’Istituto al seguito di Baader, Ensslin e gli altri può essere letto in termini cinematografici come dotato di un forte valore simbolico. È il 14 maggio 1970, una data che sarà poi ricordata come quella della fondazione della Raf da parte di Gudrun Ensslin, Andreas Baader, Ulrike Meinhof e Horst Mahler.
L’addestramento militare avviene in un campo del Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) in Cisgiordania.
Qui si stabilisce che le due figlie della Meinhof, momentaneamente stanziate nella Valle del Belice in Sicilia insieme ad alcuni hippy tedeschi, siano trasferite in un campo di guerriglieri palestinesi; ma Stefan Aust (Volker Bruch), un amico del padre, le raggiunge per portarle via con sé prima che ciò accada. Questo episodio è importante per capire la determinazione della Meinhof e il sacrificio che è disposta a compiere pur di combattere per le proprie idee. “Liberarsi del sistema e tagliare tutti i ponti dietro di sé” vuol dire infatti perdere definitivamente anche gli affetti più profondi nati in seno al mondo che si è abbandonato.
Del resto anche Gudrun Ensslin ha già un figlio quando decide di entrare in clandestinità, così come Andreas Baader. Tornato in Germania Ovest, il gruppo organizza per prima cosa alcune rapine – o espropri proletari – a scopo di autofinanziamento. Horst Mahler viene arrestato quasi subito, l’8 ottobre 1970. Meno di un anno dopo, il 15 luglio 1971, ad Amburgo la polizia uccide Petra Schelm (Alexandra Maria Lara), una militante della Raf di appena vent’anni. Da parte dell’organizzazione armata iniziano i primi attentati dinamitardi, tutti compiuti nel giro di pochi giorni: l’11 maggio 1972 un ordigno esplode in una caserma statunitense a Francoforte sul Meno, provocando la morte dell’ufficiale Paul A. Bloomquist; il 12 maggio in un’azione analoga contro una caserma di polizia ad Augusta restano feriti cinque ufficiali; il 16 maggio a Karlsruhe una bomba piazzata sotto l’automobile del giudice Buddenberg ferisce gravemente la moglie; il 19 maggio viene colpita la sede dell’Axel Spring Verlag ad Amburgo (2); il 24 maggio due detonazioni consecutive scuotono il Circolo Ufficiali e l’Army Security Agency statunitense a Heidelberg, provocando tre morti e cinque feriti.
Si arriva così al primo giugno 1972, data in cui Andreas Baader, Holger Meins (Stipe Erceg) e Jan-Carl Raspe (Niels-Bruno Schmidt) vengono arrestati. Poco dopo la polizia sorprende anche Gudrun Ensslin e Ulrike Meinhof, il 7 giugno la prima, il 15 la seconda. La detenzione preventiva, in attesa dell’inizio del processo, dura tre anni e avviene in regime di isolamento, il che scatena le proteste dei prigionieri, culminate nel 1974 in uno sciopero della fame. Il governo mantiene la linea dura, e il 9 novembre di quello stesso anno Holger Meins muore di inedia – un caso che ricorda da vicino, anticipandolo, quello di Bobby Sands e degli altri sei militanti dell’Ira e tre dell’Inla, lasciati anch’essi morire di fame nel carcere di Long Kesh tra maggio e agosto del 1981.
Fuori però una seconda generazione della Raf si sta mobilitando per liberare i prigionieri. Già nel settembre del 1972 alle Olimpiadi di Monaco, in cambio del rilascio di nove atleti israeliani, l’organizzazione palestinese Settembre Nero chiede la scarcerazione, tra gli altri, di Ulrike Meinhof, Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Su questa stessa linea, il 24 aprile 1975 un commando della Raf occupa l’ambasciata tedesca a Stoccolma, prendendo in ostaggio dodici persone.
Helmut Schmidt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca dal 1974 al 1982, rifiuta di trattare, e ciò provoca la morte dell’addetto militare von Mirbach, di quello al settore economico Hillegaart e dei militanti Ulrich Wessel e Sigfried Hausner. Quest’ultimo, in particolare, viene estradato in fin di vita e, in mancanza di cure mediche adeguate, si spegne pochi giorni dopo nell’infermeria del carcere di Stammheim.
Il 9 maggio 1976, a un anno dall’inizio del processo, Ulrike Meinhof viene trovata morta nella sua cella. La versione ufficiale è che si sia suicidata, ma nelle conclusioni della Commissione internazionale di inchiesta presentate a Parigi nel 1979 si legge: “Non è stato prodotto un solo dubbio che Ulrike non fosse più viva al momento dell’impiccagione. Al contrario si può dimostrare
che fosse già morta”. Ed è proprio questo l’aspetto più problematico del film di Edel: l’ipotesi dell’omicidio politico non viene nemmeno accennata, se non nei cori dei manifestanti durante le proteste seguite alla morte della Meinhof: “Ulrike Meinhof, è stato omicidio!”. Del resto l’opera è dichiaratamente ispirata all’omonimo saggio di Stefan Aust, molto critico nei confronti della Raf, dov’è sostenuta, appunto, la versione del suicidio.
Stesso discorso vale per le morti in cella di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1977, dopo l’intervento all’aeroporto di Mogadiscio di una squadra antiterrorismo sul Boeing della Lufthansa dirottato il 13 ottobre da un commando palestinese e conseguente liberazione di tutti gli ostaggi. L’azione doveva essere a sostegno del rapimento da parte della Raf del presidente della Confindustria tedesca Hanns Martin Schleyer (3), detenuto tra il 5 settembre il 19 ottobre, data della sua uccisione. Poco prima l’Armata rossa giapponese era riuscita infatti a ottenere la liberazione di sei carcerati, nonché un riscatto di sei milioni di dollari, proprio dirottando un volo della Japan Airlines. Il fallimento dell’operazione avrebbe portato alla decisione da parte di Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller (Annika Kuhl) di suicidarsi.
Ma è proprio quest’ultima, sopravvissuta, a smentire tale versione dei fatti nel libro-intervista Raf: per noi era liberazione: “Nel corso degli anni c’erano state minacce di morte contro Andreas, Ulrike era morta, avevamo pensato che tali omicidi potessero succedere, non ci siamo mai sentiti sicuri in galera. Questo era un motivo per il quale volevamo restare uniti e non lasciarci dividere, per proteggerci a vicenda. Ma sapere che questo può avvenire è ben altro che viverlo in realtà. Da sola dovevo venirne a capo. Era un dolore totale che mi stordiva più della paura che qualcuno ci riprovasse”. Del resto, sempre secondo la versione ufficiale, proprio la Möller avrebbe tentato il suicidio tirandosi – da sola – quattro coltellate al petto, il che non sembra molto plausibile, soprattutto se si tiene conto del fatto che avrebbe utilizzato a questo scopo un coltellino da burro smussato.
Tuttavia, a parte queste omissioni, il film di Edel resta un’opera onesta che, come accennato sopra, ha il merito di offrire una contestualizzazione storica alla formazione della Raf, mostrando, tra l’altro, come l’organizzazione armata godesse di un ampio strato di simpatizzanti, soprattutto tra i giovani.
A questo proposito, le parole di Horst Herold (Bruno Ganz), direttore tra il 1971 e il 1981 della Bundeskriminalamt (Bka), l’equivalente dell’Fbi americana, sono emblematiche: “Anch’io credo che la creazione di un’unità speciale sia necessaria. Tuttavia misure simili non basteranno a risolvere in via definitiva un problema le cui radici sono da ricercare molto più in profondità. […] I palestinesi chiedono a Israele la restituzione delle loro terre, ma, siccome nessuno li ascolta, cercano di attirare l’attenzione per mezzo di atti terroristici che li portino alla ribalta mondiale. […] Cosa li ha spinti a fare il salto, è questo il nodo di tutta la questione. […] Dobbiamo chiederci se il terrorismo non rappresenti oggigiorno una nuova forma di guerra, se questo terrorismo non sostituisca la guerra globale, che per ora non si è ancora scatenata. […] Dobbiamo prendere coscienza di alcune verità fondamentali: che gli irrisolti problemi sociali del Terzo mondo, il conflitto mediorientale e la guerra americana nel Vietnam rappresentano dei problemi oggettivi, esistono davvero”.
Un’onestà condivisa da molti altri film tedeschi sullo stesso argomento, come Anni di piombo di Margarethe von Trotta o Il silenzio dopo lo sparo di Volker Schlöndorff. Un’onestà che purtroppo, nel raccontare la lotta armata, è spesso mancata al cinema italiano.
1) Tali lesioni avranno conseguenze sul lungo termine, determinando la morte di Dutschke nel 1979
2) L’attentato voleva essere soltanto dimostrativo, ma la chiamata in cui si avvisava della presenza dell’ordigno venne ignorata, e l’esplosione ferì diciassette persone
3) Ex membro del partito nazista, durante l’occupazione di Boemia e Moravia era stato gestore delle industrie lì presenti e dopo la caduta del regime aveva fatto carriera nella Cdu