Una delle cose più curiose che capitano di frequente a noi europei, quando pensiamo agli Stati Uniti d’America, è che pensiamo solo agli spazi urbani. È vero che, nell’immaginario di molti, gli USA sono associati alla Monument Valley o ai deserti con cactus dei film western (e magari si trattava del deserto dietro Almeria, in Spagna…) ma il fatto è che il nostro immaginario di europei, quando si parla degli USA, associa invariabilmente quel Paese alle foreste urbane che chiamiamo metropoli. Lo scenario è verticale e il materiale è invariabilmente cemento+acciaio, con intrusione di mattoni rossi per gli edifici più vecchi. Una delle conseguenze di questa associazione, del tutto plausibile sul profilo culturale, è che molti studiosi di architettura e di sociologia si sono appassionati all’ideologia, o se volete allo spirito e/o alla poetica che c’è dietro all’ideazione degli edifici e degli spazi metropolitani.
Nell’unico viaggio che ho fatto in USA mi sono innamorato, a Chicago, dell’architettura di Frank Lloyd Wright. Ma prima di lui avevo conosciuto quel genio ancora incompreso che è Robert Pirsig, autore prima de Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta e poi di Lila: una indagine sulle moralità. Mentre il primo romanzo è diventato patrimonio di un’intera generazione di rocker, il secondo non ha avuto altrettanta fortuna. Non so dire esattamente se questo dipenda dall’essere decisamente molto più filosofico del precedente. Forse sì, ma tutto il romanzo, esattamente come il precedente, ha come tema collaterale il viaggiare – il che è molto, molto americano. Stavolta il protagonista, Fedro, abbandona la motocicletta e scende con la sua barca dai grandi laghi del Nord verso l’oceano Atlantico. Una delle descrizioni più stupefacenti di questo viaggio è quella che riguarda l’architettura vittoriana che ancora è possibile incontrare percorrendo il fiume Hudson. Se non avete voglia di leggere il romanzo, allora pensate che New York City ha cinquecento miglia di linea costiera: per chi non lo sapesse, la linea costiera non è soltanto la parte di terra emersa che sta di fronte al mare, ma tutta l’estensione delle terre emerse lungo i bracci di mare. Cosicché, se pensate ai fiordi della Norvegia, e a quanto è frastagliata la costa della Norvegia stessa, potreste un giorno scoprire come somma meraviglia che quel Paese nordico ha più linea costiera di tutto il Canada.
Orbene, quello che la maggior parte di noi non sa, è non solo che NYC ha una così grande estensione di costa interna, ma che le rive lungo il fiume Hudson erano un unico lunghissimo molo pieno di attività lavorative, dalla siderurgia alla carpenteria navale, il che significa che lungo l’Hudson c’erano anche magazzini e strutture di distribuzione. Non fu infrequente vedere delle navi da guerra che attraccavano lungo l’Upper West Side fino agli anni ‘50. Ma oltre agli spazi e superfici lavorative ci furono anche delle zone residenziali concepite sugli standard architettonici dell’Inghilterra vittoriana, e se non foste avvisati che siete a NYC potreste sicuramente pensare di essere a Londra. Se seguite questo link https://untappedcities.com/2013/08/06/thirteen-of-nycs-most-important-architectural-sites-on-the-hudson-river/ potrete fare un giro sui siti architettonicamente più importanti della zona.
Ora, tanto per essere precisi, il mio interesse architettonico è puramente casuale. Mi è tornata in mente la serie di letture a cui alludevo quando mi sono trovato per le mani, a sorpresa, un album del mio caro Lou Reed. Nei suoi ultimi anni di vita il nostro, assieme alla sua stratosferica consorte Laurie Anderson, ha partecipato ai progetti più svariati, tra cui The Raven, nel 2003. Lungi dall’essere un disco davvero eccezionale (è semplicemente troppo indulgente e sfocato) questo concept album, basato sulle opere di Edgar Allan Poe, con cantanti ospiti tra cui Bowie, Antony Hegarty, Willem Dafoe e Steve Buscemi, contributi di Ornette Coleman e dame Laurie Anderson, e persino un’infarinatura di ritmi programmati, mi fece scoprire che l’Easy-Rocking Lou era finalmente scomparso. Dopo quattro anni di silenzio ha visto la luce Hudson River Wind Meditations, l’album in studio sicuramente più ignorato di tutta la sua carriera. Non mi stupirebbe che molti dei suoi fan storici ne ignorassero tuttora l’esistenza.
Ho cominciato ad amare quest’album per diversi motivi: il primo è che una rockstar come Reed ha messo i piedi senza problemi fuori della sua comfort zone in un periodo in cui sarebbe stato facilissimo attenersi ai suoi cliché ordinari e avere comunque successo. Bella forza, direte voi. Uno famosissimo e stramiliardario può permettersi questa e altre stravaganze. Beh, allora, trovatemi altri dieci esempi di divi del rock che hanno fatto cose del genere e poi discutiamo. Il secondo motivo per cui ho amato e amo tuttora quest’album è che, modestamente, condivido con Lou Reed la passione per il Tai Chi. L’ho scoperto anni prima che divenisse di pubblico dominio grazie a una serie di amici newyorkesi; e se già adoravo Lou Reed questa circostanza me lo ha fatto amare ancora di più.
Facile dire che Reed abbia voluto crearsi a suo uso e consumo la perfetta colonna sonora per i suoi esercizi. Meno facile scendere in profondità e provare a fare due operazioni: a) sparatevi in cuffia l’album a occhi chiusi. Se potete, fatelo seduti proprio sulle rive dell’Hudson. Se no, cercatevi un ambiente metropolitano semi-industriale percorso da un fiume; b) provate a fare Tai Chi con questa musica; c) provate a mettere assieme le due operazioni, cioè fare Tai Chi in un ambiente di cui sub. a); in entrambe le situazioni di cui sub. a) potrete avere la percezione che la superficie del corso d’acqua sia liscia e calma, ma potrete anche avvertire correnti oscure e pericolose.
La mia personalissima conclusione è che solo gli animali veramente metropolitani come Reed e moltissimi di voi possono riuscire ad apprezzare questa musica anche senza fare Tai Chi. Io, se posso, faccio pratica in un ambiente naturale possibilmente silenzioso; se non posso, scelgo la stanza più silenziosa di casa mia e metto su della musica cinese antica per Guqin (come questa https://www.youtube.com/watch?v=h0AAFhx3RmA). Nei suoi ultimi anni di vita Reed era diventato un praticante esperto, nello stile Chen, il più marziale di tutti, e addirittura si portava il suo maestro sul palco perché si esibisse prima del concerto. Bizzarrie o capricci da divo? A me piace pensare che, più semplicemente, Reed avesse acquisito un differente stato mentale: calmo, centrato, perfettamente focalizzato su qui e ora, per quanto ci fosse ancora in lui qualche pennellata dell’oscurità in cui la sua anima aveva nuotato per anni. Ecco perché ho parlato di correnti oscure e pericolose guardando il corso d’acqua.
Meditazioni distribuisce delicatamente sull’ascoltatore, in modo pacifico ma inquietante, una brezza serale che serpeggia tra l’erba alta e incolta che cresce tra i ruderi industriali. La prima traccia, Move Your Heart, pulsa come il battito del cuore di un T-Rex nascosto negli edifici in rovina, usando continue e minuziose evoluzioni. Piuttosto che Iggy o Springsteen, qui vengono in mente Brian Eno e Aphex Twin. La traccia più lunga dell’album, Find Your Note, è una miscela glaciale di rumori fragorosi e suoni di cristalli (derivati probabilmente dalle manipolazioni elettroniche della chitarra di Reed). L’evocazione è potente e mi rimanda agli artisti sperimentali dell’elettronica negli anni ‘60 come Louis e Bebe Barron e Delia Derbyshire, pressoché sconosciuti qui da noi (e che io a mia volta ho conosciuto solo grazie ai soliti amici newyorkesi). Dopo questo, troviamo due tracce più brevi. Hudson River Wind è solo uno schizzo in miniatura in confronto ai pezzi precedenti, ma è comunque interessante la poetica della macchina che evoca, tra meccanismi che ronzano su frequenze alte e lo schiocco di frusta di una tormenta. Nel brano finale Wind Coda sono miscelati i temi di tutti e tre i brani precedenti, anche se spira costantemente l’idea di una non-risoluzione armonica e ritmica.
Ve l’ho detto, dovete provare.
E magari provate ad ascoltare in cuffia l’intero album leggendo queste riflessioni a proposito della meditazione, visto che il Tai Chi è meditazione in movimento: “Un monaco si reca all’interno della foresta, o sotto un grande albero, o in un vuoto eremo, si siede con le gambe incrociate, il corpo diritto, e si esercita nel sapere. Cosciente egli inspira, cosciente espira. Se inspira profondamente egli lo sa; se inspira brevemente, egli ne è consapevole. «Voglio inspirare sentendo tutto il corpo», «Voglio espirare sentendo tutto il corpo», «Voglio inspirare calmando questa combinazione corporea», «Voglio espirare calmando questa combinazione corporea»; così egli si esercita. Se inspira profondamente, egli lo sa; se inspira brevemente, egli ne è consapevole. Così come un abile tornitore o garzone tornitore tirando (le pulegge) fortemente sa «Io tiro fortemente», tirando lentamente sa «Io tiro lentamente»: così accade al monaco allorché inspira ed espira. Così egli vigila presso il corpo interno sul corpo, presso il corpo esterno sul corpo, di dentro e di fuori egli vigila presso il corpo sul corpo. Egli osserva come il corpo si forma, come esso trapassa; osserva come il corpo si forma e come trapassa. «Ecco com’è il corpo»: tale sapere diviene il suo sostegno perché esso serve alla comprensione, alla riflessione; ed egli vive indipendente e non desidera nulla dal mondo. […] E ancora: il monaco, quando cammina, sa che lo sta facendo; lo stesso quando è fermo; così pure quando è seduto e quando giace; egli sa in quale posizione si trova, qualsiasi essa sia. […] Così egli vigila sul corpo interno, vigila sul corpo esterno, vigila sul corpo interno ed esterno, non sostenuto da nulla che appartenga al mondo. E ancora: il monaco è chiaramente consapevole nel venire e nell’andare; nel guardare e nel distogliere lo sguardo; nel chinarsi e nel sollevarsi; nel portare l’abito e la scodella dell’elemosina; nel mangiare e nel bere; nel masticare e gustare; nel liberarsi dalle feci e dall’urina; nel camminare o nello stare seduto; nell’addormentarsi e nel risvegliarsi, nel parlare e nel tacere. Così egli vigila sul corpo interno, vigila sul corpo esterno, vigila sul corpo interno ed esterno, non sostenuto da nulla che appartenga al mondo”. (Satipatthana Sutra)