di Felice Accame |
La denuncia della natura servile dell’intellettualità nelle opere di Bianciardi
1. In una puntata di Tutti pazzi per amore – un serial scritto da Ivan Cotroneo, in onda su RaiUno nei primi mesi del 2009 – si mette in scena un’‘occupazione’ di liceo da parte di studenti romani. Gli striscioni ci rivelano il non irrilevante fatto che il liceo in questione sia intitolato a Bianciardi. Lo vorrei considerare come il segnale di qualcosa che, negli ultimi anni, è avvenuto nei canoni della percezione sociale dello scrittore, del bisogno di riconoscimento istituzionale che vaga nell’aria o, almeno, in cert’aria. È indubbio che le ristampe di numerosi libri di Luciano Bianciardi, la biografia che nel 1993 gli dedicò Pino Corrias, Vita agra di un anarchico (1), e, soprattutto, i due Antimeridiani che ne hanno raccolto anche l’opera spersa, hanno contribuito non poco alla cosa.
2. La biografia che, nel 2007, gli ha dedicato Alvaro Bertani è iperdotata in certi elementi del paratesto. Consta, per esempio di un titolo – Da Grosseto a Milano – un sottotitolo – La vita breve di Luciano Bianciardi – e di una definizione – “zarzuela tragica in un prologo, tre atti e un epilogo” (2).
‘Da’ – ‘A’. Bertani seleziona due luoghi (nascita e morte, matrici e destinazione) e li pone come termini di un movimento, uno spostamento – che, per ciò stesso, assurge a elemento decisivo di un’esistenza. Milano è una città in cui i portoni chiudono sistematicamente alle dieci di sera; Milano è una città di gente devota al mito del lavoro – lo si vede già osservandola nei tram, dove spingono per andare ‘davanti’, dove mimano tutto uno stato di affaccendati; Milano è città che Bianciardi vive criticamente – al limite della vivibilità – già ai suoi tempi, ovvero negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta. “Luciano Bianciardi a Milano”, d’altronde, era anche il sottotitolo della biografia curata da Corrias. Difficile, se non impossibile, per Bertani, sottrarsi a questo termine di confronto.
La comprensione del sottotitolo, invece, necessita della definizione. È il musicista spagnolo Manuel De Falla (1876-1946), che, infatti, compose una sua Vida breve (3) nei primi anni del Novecento, e che, per quanto si sia dato da fare – andando a Parigi, parlando con grandi protagonisti della musica come Albéniz, Dukas, Debussy e Ravel e proponendola invano a Ricordi –non riuscì a rappresentare la sua opera fino al 1913, il primo di aprile, al Théâtre du Casino di Nizza. Ed è questa sua opera che da qualcuno venne definita come una “zarzuela tragica”.
Il termine zarzuela proviene da ‘zarza’, un arbusto dai rami spinosi. Altresì, il frutto della mora è detto ‘zarzamora’ ed è assurto a simbolo della seduzione agrodolce. Il palazzo del re Filippo IV venne chiamato ‘zarzuela’ perché situato su un terreno ricco di ‘zarzas’. Tuttavia, con il termine zarzuela, in Spagna, si designano anche altre cose: alcuni toponimi, un piatto a base di pesce (coda di rospo a tranci, calamari, cozze e vongole) e un genere di spettacolo, qualcosa che sta tra teatro, canto e musica, una sorta di operetta, insomma. La ‘grande zarzuela’ tocca più le corde del drammatico, mentre la ‘zarzuelita’ assume un carattere decisamente comico. Rimanendo nella sfera semantica ed emotiva di Manuel de Falla, Alvaro Bertani definisce “zarzuela tragica” la sua nitida, affettuosa e pur equilibratissima biografia di Luciano Bianciardi, protagonista di una “vita breve”, giocatasi essenzialmente “Da Grosseto a Milano” –nelle transizioni epocali di un fascismo e della sua guerra, nonché delle delusioni del dopo.
3. Bianciardi io l’ho letto in ritardo, ma, in virtù di eventi che, per brevità, potrei considerare come ‘serie di coincidenze’, lo lessi al momento giusto. Avevo appena pubblicato il mio primo romanzo e avevo incontrato Silvio Ceccato, grazie al quale avrei dato nuovi nomi alla mia ribellione, dotandomi via via di metodo e di consapevolezza – in ordine ai rapporti tra pensiero e linguaggio, in ordine ai processi di valorizzazione e alla genesi dei sistemi ideologici. Avevo diciannove anni – era il 1964 –e si trattava della seconda edizione de Il lavoro culturale, che era uscito nel 1957: mi confermò un’opinione che faticosamente e non senza dubbi e incertezze mi si andava formando. Che sotto la sacralità della Cultura con la C maiuscola non ci fosse granché. Che questo tipo di cultura fosse una mera funzione del Potere. E che gli intellettuali sono pronti a servire qualsiasi regime.
Bianciardi è caustico e amaro. Il suo linguaggio è risultato di un atteggiamento anti-élitario – con le neoavanguardie che parallelamente gli scorrevano a lato non ha mai avuto niente a che fare. Scrive un po’ da diario e un po’ da saggista alla mano. Rende conto di un tradimento e di una viltà generazionale che riguarda tutti coloro che hanno studiato e che non hanno saputo usare del privilegio di questi studi per far del bene a chi non ha potuto godere di privilegio di sorta. Sa, poi, che la cosa lo riguarda direttamente. Perché c’è dentro anche lui – con la sua voglia di rivolta e con le necessità mediatorie del quotidiano. Ci si rovina il fegato, letteralmente. Con largo anticipo individua e descrive la matrice del male che ci attanaglia tutti quanti, anche oggi, quando delle categorie di un tempo si sta perdendo anche il ricordo e, dunque, quasi non ci accorgiamo più di nulla – beatamente assopiti da forti dosi di analgesici sociali. La copertina dell’edizione feltrinelliana fu un piccolo capolavoro di grafica dovuto a Silvio Coppola: una biro appoggiata a un posacenere, zeppo di cicche e di frammenti di minerva, a tutta pagina. Eccolo il lavoro culturale: ecco cosa ne rimaneva sopra le ponderose scrivanie dove, producendo il Pensiero, si orientavano i destini intellettuali del Paese; ecco quella che, con metafora da capitalismo illuminato, veniva detta ‘industria culturale’.
Bianciardi di questa industria partecipò obtorto collo e a modo tutto suo, ovvero – a differenza di tanti altri –potendosi sempre sentir libero da padroni. Ed è qui che la zarzuela che lo riguarda comincia a essere ‘tragica’. Rifiuta la vita feltrinelliana – da casa editrice di rappresentanza del ceto intellettuale emergente – dove si ritrova davanti gli stessi stenti compromissori che già avevano caratterizzato il suo rapporto con le sezioni del partito comunista nella giovinezza a Grosseto.
Con La vita agra, nel 1962, ha successo e denaro, ma anziché, così come fan tutti, clonarsi all’infinito e vivere di rendita in romanzi fotocopia – far lo scrittore, interpretare la parte di chi ce l’ha fatta – sceglie la propria individualità. Rifiuta di sfruttarsi, cambia generi e punta su analogie urticanti – come quella fra quel poco di puro che c’è stato nel Risorgimento italiano e quel che sarebbe stato opportuno avvenisse ai tempi suoi, dove c’era sì una lotta di indipendenza da fare, ma non dagli austriaci, bensì dalla subordinazione agli interessi di un’economia torva e stolida – anche quella, immagine infidamente parziale di una società, categorizzata come ‘il boom’ – sorretta da una morale bacchettona e avvilente. Montanelli gli offre quattrini sonanti affinché lui inizi la collaborazione al Corriere della Sera e lui risponde “no, grazie”. Preferisce scrivere quel che gli pare, su riviste come ABC o Kent – riviste perennemente e ambiguamente in bilico fra denunce per pubblicazione oscena e vilipendio alla religione e impegno per i diritti civili. O preferisce tradurre – lavoro faticoso, impegnativo e mal pagato che, nella sua poca visibilità comporta svantaggi materiali quanto vantaggi morali. Scelte che hanno il loro peso. Piuttosto che il redattore editoriale –con i suoi poteri – Bianciardi preferisce la posizione del traduttore – del salariato nel lavoro culturale. È il suo anarchismo letterario – e bene lo comprese Corrias, che metaforizzandone il romanzo più noto e facendolo tracimare nella coscienza politica del sé, intitolò la biografia Vita agra di un anarchico.
4. Muore nel 1971, a quarantanove anni, sapendola lunga sullo scempio che ci sarebbe toccato. Dalla sua ‘vita breve’ raccontata da Bertani, vengo a sapere che Bianciardi fu allievo di Calogero, prima e dopo la guerra. Si laureò con lui, nel 1948, con una tesi dedicata a “Il problema del conoscere nel pensiero di John Dewey” che, oggi, sinceramente, mi appare come la tessera che mi mancava per completare l’intero mosaico. La critica alla filosofia condotta da Calogero – non disgiunta da quella, pur limitata anch’essa e tuttavia apprezzabile, condotta da Dewey – mi sembra che abbia potuto costituire quella matrice culturale cui Bianciardi mai ha rinunciato in tutta la sua vita – una matrice culturale che, nonostante l’ambiente in cui le vicende della sua vita l’hanno costretto, lo ha reso immune dalle affezioni più comuni dell’intellettuale e dell’autorità, così che, oggi, posso ricordarlo come qualcuno che, spendendosi, mi ha dato qualcosa.
Al filosofo Guido Calogero (1904-1986) dobbiamo soprattutto La conclusione della filosofia del conoscere (4), un saggio del 1938 – saggio che costituì la base del suo pensiero successivo. Vi sosteneva la tesi che, così come l’Ottocento era stato la tomba della metafisica, il Novecento sarebbe stato la tomba della gnoseologia, ovvero della teoria della conoscenza.
Disgraziatamente sbagliava su tutta la linea, perché così come dall’Ottocento, checché ne pensassero i positivisti, la metafisica ne è uscita più florida e invadente che mai nonostante l’inconsistenza di sempre, così dal Novecento la gnoseologia ne è uscita serena, vispa e pimpante come se gli esseri umani non potessero proprio fare a meno di rovinarsi l’esistenza fidando in qualche teoria della conoscenza. Tuttavia, Calogero – pur non riuscendo a sferrare il colpo mortale a quella filosofia cui era legato più di quanto ritenesse – qualcosa di buono ha fatto: socialista liberale, antifascista convinto tanto da essere allontanato dall’insegnamento e confinato in un paesino dell’Abruzzo, cercando di stabilire il primato dell’etica, ha diffuso una cultura dell’altruismo, l’idea della stretta necessità di riconoscere l’altro, praticando tolleranza e dialogo – sostenendo che occorre capire i mondi mentali altrui allo stesso modo che si desidera che gli altri cerchino di capire il nostro.
Anche Calogero l’ho letto in ritardo. Lo ricordo infervorato in una polemica proprio con Ceccato, sulle pagine de Il Giorno nel 1965 (5). Al di là del rimandare al mittente le accuse dell’avversario, ringraziava Ceccato di essere stato il solo, nel 1938 – allorché uscì il suo libro – a prenderlo in considerazione e a individuarlo come una tappa fondamentale nella dimostrazione della vanità del filosofare. Sono atteggiamenti, quelli di Calogero, che non possono non aver lasciato il segno in Bianciardi: fra scontentezza di sé e scontentezza di un mondo che, comunque, non è mai biologicamente sufficiente a far dimenticare la scontentezza di sé – inadeguati alla dimensione dello scontro, insomma, e, dunque, viatico a una sofferenza maggiore.
(1) Vita agra di un anarchico, Pino Corrias, Baldini e Castaldi, 1993
(2) Da Grosseto a Milano – La vita breve di Luciano Bianciardi, Alvaro Bertani, ExCogita, 2007
(3) per notizie su De Falla, cfr. La Parigi musicale del primo Novecento, F. Testi, EDT, 2003, pp. 386-393
(4) La conclusione della filosofia del conoscere, Guido Calogero, Le Monnier, 1938
(5) Il Giorno, 11 maggio 1965 e 6 luglio 1965
Questo testo riassume e approfondisce due interventi. Uno, svolto durante un dibattito, tenutosi alla Libreria Odradek di Milano il 20 marzo 2009, con la partecipazione di Alvaro Bertani e Luciana Bianciardi. L’altro, svolto nella trasmissione Caccia all’ideologico quotidiano, a Radio Popolare di Milano, il 1 febbraio dello stesso anno