Monti e la teologia del libero mercato: dogmi ed egoismo come nuovo collante sociale
“C’è abbastanza luce per chi vuole credere e abbastanza buio per chi non vuole credere”
(Blaise Pascal)
Alla fine ci sono arrivati. Con l’insediamento di Mario Monti, l’Italia celebra l’inizio dell’Unipolarismo politico e della Governabilità tanto cara al presidente Napolitano e alla sinistra migliorista e riformista.
La massima che sottende a questo evento è quella perpetuata da sempre dal sistema capitalistico: insistere nello sbaglio, fino a stabilire un nuovo ordine delle cose. E così, lungo questa strada, l’Unipolarismo politico è diventato l’ultima frontiera attraversabile, pur di non sottostare alla logica che suggerirebbe una regolamentazione del mercato e della finanza come unica soluzione percorribile per il futuro; ovvero una sovranità politica in grado di vigilare sull’operato dei soggetti economici.
Al contrario, la salita di Monti al governo – e le stesse modalità con cui è salito sono emblematiche in tal senso – dimostra l’intenzione di portare a termine il progetto neoliberista in Italia per rimetterla al passo con le altre nazioni. Lo sbaglio va reiterato finché non arriva al suo perfezionamento.
Si tratta, naturalmente, di una imposizione ideologica valida per tutto l’Occidente che prevede proprio ciò che Monti, emanazione di poteri altri, è chiamato a fare: l’esautorazione della politica dalle ‘cose’ economiche. A meno che i partiti non ‘decidano’ di agire come semplici comitati d’affari. Cosa che da tempo sono diventati, ma – ed è quanto il potere economico italiano rimprovera loro – rimanendo ancora troppo ancorati agli antichi richiami della loro storia – il rimprovero in questo caso è rivolto al Pd, ormai ridotto a un ibrido – o a un uso eccessivamente personalistico della politica – riferito a Berlusconi, va da sé.
Che la politica sia ancora in grado di incidere sulla vita economica di un Paese è ormai un’illusione collettiva. È dalla caduta dell’Unione sovietica, che la formula di potere è cambiata, nemmeno troppo per gradi. Eppure ancora la gente insiste nel rimproverare i politici di predicare bene e di razzolare male. In realtà è la finzione ideologica a risultare goffa, il tentativo di dimostrare di essere quel che non possono più essere; ovvero l’espressione di una volontà popolare, la rappresentanza di particolarità sociali come accadeva un tempo nei parlamenti. Ma non è più così, ed è ridicolo credere che quelli dei politici siano errori politici. Rimproverarli o cercare di stanarli dalla tana dell’incapacità è una fatica inutile. La loro funzione è da tempo legata alla necessità di chiamare ancora democratica la logica elettorale che sottende alle necessità del capitalismo neoliberista. Da questo punto di vista, chi ci ha rimesso di più sono stati i partiti riforniti dell’impianto ideologico più forte. Il pensiero marxiano non è un testo per bambini né per gente che va in chiesa a ripetere ogni domenica la stessa nenia. Sicuramente lo spostamento operato dai partiti di centro-destra è stato più semplice, impegnati da sempre a oliare i circuiti d’azione del padronato.
La mano invisibile è una teologia laica di cui Monti è la momentanea incarnazione, prima di risalire in quel cielo da dove è sceso. E pretende atti di fede.
Il Verbo, quindi, che si fa carne, con una differenza sostanziale rispetto al cristianesimo. La salvezza degli italiani non passerà dal sacrificio di Monti. Il capitalismo neoliberista ha istanze assai più crude e in questo dettaglio sta la sua laicità. Noi abbiamo le colpe e voi ci mondate dai nostri peccati. Una forma mentis che diventa emblema di quella strana espressione d’amore involontario che, come vedremo più avanti, il teorico Adam Smith considerava il vero e unico collante dell’escatologia mercantile: l’egoismo.
Un requisito fondamentale per la Caritas, così come la intende il mercato – fatalmente – globalizzato.
La missione o, meglio, la mission di Monti consiste nel condurre definitivamente il Belpaese nella modernità. E perché questo accada, il Verbo fatto carne, per l’occasione, trasgredisce la regola dell’invisibilità e si manifesta per ripulire il sistema di potere dalle ultime scorie di una politica impolverata d’antico, incancrenita dalla propria necessità di sopravvivere alla perdita di sovranità, fatalmente ostacolo degli oscuri disegni di un sistema economico che può sopravvivere solamente se si governa da sé. In poche parole, Monti si rende visibile per dividere il tempo italiano in un prima e un dopo il proprio avvento.
Non si può dire che i politici non lo sappiano. Al punto di essere consapevoli che il rimprovero che i poteri forti europei rivolgono loro punta il dito sulla incapacità di garantire Governabilità (parola da leggersi sempre dal punto di vista dei dominanti). E, a testa china, si sono fatti da parte, i fili dei pupi retti dall’industria e dal potere finanziario sono stati momentaneamente recisi in attesa di riallestire lo spettacolino della politica. E a calcare adesso il palcoscenico sono saliti i burattinai stessi.
Il teatrino allestito dai leader dei partiti per nascondere la propria inutilità – agli occhi dei reciproci elettorati – per rivestirla con i panni frusti del senso di responsabilità, è stato a un tempo imbarazzante e divertente. Casini, Bersani, persino Berlusconi, con facce di circostanza, hanno fatto a gara a chi sembrava più abbattuto per quanto stava per cadere sulle teste degli italiani. In questo modo, però, hanno garantito il voto al governo degli uomini straordinari, pur senza dimenticare di lanciare qualche lamento in proiezione elettorale. Bossi, invece, vista, parole sue, “l’ammucchiata” creatasi nei paraggi di Monti, ha colto l’occasione per ricostruire l’immagine del proprio partito con un’operazione di chirurgia politica, avendo, l’inverno dello scontento dei suoi elettori, reso indispensabile il passaggio sotto i ferri per non morire. Allo stesso modo Di Pietro, accentuando la propria furbizia contadina, una volta fatti i conti e appurato che i voti necessari non sarebbero mancati a garanzia delle cosiddette riforme, si è posto all’opposizione. Una strategia che solamente i partiti con limitati bacini elettorali potevano permettersi. Una cosa che Vendola sembra non avere compreso o avere accantonato per l’infrangibile devozione alla sincerità tipica di chi crede a un pensiero di sinistra o all’opportunismo. Chissà! Di certo ha perso un’occasione per dire sin dall’inizio qualcosa di sinistra. Per il momento si limita a dire che il governo ha perso l’opportunità di fare qualcosa di nuovo. Viene da chiedersi se davvero non abbia dato una sbirciata al curriculum dei componenti del governo Monti (1).
Una farsa, comunque, lo è stato sotto tutti i punti di vista. Compresa la dichiarazione di Napolitano, quella di essere arrivati tardi a questo appuntamento, anche se – tranquilli, quindi – appena in tempo per risolvere, con dolore (per gli italiani), la grave situazione. Non che i partiti, tutti ormai, non potessero mettersi d’accordo prima. Fatto è che le priorità di Confindustria erano diventate le dimissioni di Berlusconi, e senza di quelle, da quanto si è potuto capire, sarebbe andata bene anche la morte di Sansone con tutti i fi – listei. Chissà, piuttosto, che Bossi non abbia avuto ragione sostenendo che più del senso di responsabilità, abbia potuto il ricatto economico (con promesse sotterranee di protezione nel caso di un passo indietro) ai danni delle sue aziende. Si vedrà.
Ma, tornando al sistema teopolitico di cui Monti rappresenta la naturale incarnazione, è opportuno cercare di comprendere perché tale sistema, per potersi realizzare secondo tutti i suoi crismi ideologici, pretende la pulizia da qualunque scoria politica; chiudendo in questo modo, nella sostanza se non nella forma, con l’era parlamentare. E per farlo, non esiste occasione migliore di una crisi lacerante.
Il Verbo egoistico, l’amore involontario professato dai neoliberisti della mano invisibile, appartiene all’ultimo ritrovato della formula riformista che, gira che ti rigira, altro non è che autoriformismo. Si tratta di una costante storica, tanto che, dopo il 1861 e dopo il 1945, possiamo dire che il nuovo anno del Gattopardo è stato il 1992. O, per dirla meglio, il biennio che va dal ’92 al ’94, nel momento in cui la prima Repubblica cominciava a stirare la gambetta e la seconda apriva le porte della nuova storia italiana. Probabilmente qualcuno sarà tentato di defi nire terza Repubblica il dopo Monti, ma niente paura, gli ingredienti saranno gli stessi e tutto resterà uguale, solo più incattivito.
Certamente a rimetterci sarà la Costituzione, resa necessaria (il punto di vista è sempre quello dei dominanti) dall’Unipolarismo (nel suo travestimento bipolare) con tutti gli annessi e connessi.
Le strategie utilizzate per affrontare le crisi ciclicamente create dal sistema capitalistico e rigirarle a proprio vantaggio dai capitani d’industria attraverso gli unguenti politici sono sempre le stesse, nel ’92 come oggi: fusioni tra aziende e banche, abbassamento dei salari, crescita del grado di sfruttamento dei lavoratori (prolungamento dell’orario lavorativo e crescita del precariato), delocalizzazione industriale con aumento della disoccupazione locale, privatizzazioni e speculazione fi nanziaria. Elementi che hanno accompagnato l’Italia fino all’attuale momento storico.
Il primo passo dei governi tecnici del ’92 ha coinciso con quelle che ufficialmente si chiamano liberalizzazioni e che in Italia si sono riassunte in fruttuosi investimenti protetti, oligo e monopolistici (proprio sul modello, piuttosto recente, dell’Alitalia), dei beni comuni ceduti a basso costo e chiavi in mano ai grandi gruppi industriali nazionali. Un saccheggio che trarrà nuova linfa negli anni a venire.
È stato quello il momento in cui, seguendo la tendenza generale in atto nell’Occidente, i poteri forti hanno ‘chiesto’ alla politica (intesa nella sua forma classica) di farsi definitivamente da parte. A sinistra, la svolta della Bolognina spinta dai miglioristi, è stata il primo passo verso questo baratro culturale.
Non a caso la forma politica ritenuta idonea alle nuove necessità economiche, al fine di mantenere una facciata democratica, è stata il bipolarismo, essendo il sistema proporzionale, con la sua pretesa di rappresentare i vari soggetti legati alle varie forme di produzione considerate nella loro verticalità (dal padronato ai salariati), ormai un ostacolo da rimuovere. Troppo pesante, per la pretesa del potere economico ormai pronto per lanciarsi alla conquista del mercato all’insegna di un laissez faire selvaggio, un sistema di voto che prevedesse una scelta elettorale di classe. Meglio creare un clima culturale che negasse, ormai, caduto il Muro, l’esistenza di classi sociali in contrasto tra loro.
Quella della mano invisibile è una teoria impostata su istanze profondamente egoistiche, scommette sull’esistenza di una razionalità imperscrutabile, inevitabilmente destinata, nel momento in cui ogni soggetto economico persegue, senza altri fini che non siano il profitto, il proprio interesse, a creare il bene collettivo. Di fatto una concezione teologica del mercato. Una specie di evanescenza divina capace di regolamentare in automatico l’inerzia dei singoli egoismi posti nel bel mezzo dell’azione economica. Un involontario amore egoistico, una specie di essenza (filosoficamente parlando qualcosa di simile alla Sostanza) molto pragmatica a cui l’umanità sarebbe inconsciamente col-legata. Nel momento in cui ognuno pensa egoisticamente al proprio guadagno, il risultato è un vantaggio collettivo.
Secondo la teoria è giusto, anzi, indispensabile, che nessuno dei soggetti economici si preoccupi, si faccia problema o carico, direttamente, di agire per il bene di tutti. Guai!
Perché in questo modo il giochino non funzionerebbe. La mano invisibile si troverebbe senza punti di riferimento credibili. Sbaglia, quindi, Ratzinger, a puntare il dito contro l’avidità, nella sua ultima enciclica, per spiegare l’attuale crisi economica. Semmai dovrebbe denunciare coloro che non hanno agito con sufficiente avidità, con eccesso di egoismo. Al contrario, qualcuno deve avere agito volontariamente per il bene collettivo, mandando a ramengo l’intero sistema.
Nelle maglie di una simile logica, la politica non deve fare altro che adeguarsi alla saggezza della mano e impedirsi di intervenire. Sbaglierebbe se si ponesse come ostacolo sul cammino degli interessi particolari dei vari soggetti economici.
C’è una forte analogia tra il pensiero cristiano e quello neoliberista. Secondo Agostino, l’uomo deve scavare nelle profondità di se stesso per trovare Dio e agire di conseguenza grazie alla facoltà che gli è stata donata del libero arbitrio. Per Adam Smith, e qui sta la differenza laica, la sonda che l’uomo butta dentro il proprio animo lo aiuta a comprendere il proprio vero interesse economico, e a indicargli la via da seguire lungo le strade moralmente giuste della realtà mercantile. Basta che nel farlo non infranga la legge. Il neoliberismo, come il cristianesimo, è quindi un modo di concepire il mondo e di viverci all’interno. La buona riuscita è demandata agli umani. Non bisogna peccare né commettere eresia. Solamente crescita sterminata e indeterminata.
Dopo Monti, anche in Italia la politica diventerà un passatempo teorico, una gestione dell’esistente (vecchio sogno veltroniano), un teatrino a uso e consumo dell’elettorato. E gli unici scontri sociali ammessi saranno quelli orizzontali, tra poteri economici contrastanti, come quelli a cui gli italiani hanno assistito con una partecipazione degna di miglior causa. Conflitti da cui la necessità della gente sarà esclusa e dai cui esiti mai niente di buono verrà per lei.
Alla politica non rimarrà che rivendicare un primato etico e, all’occorrenza, militare. Come si addice a ogni sistema teologico, anche il neoliberismo crea superstizioni e vive sul terrore. Nelle grida d’allarme, la crisi in corso è stata via via trasformata in una specie di catastrofe naturale, i veri responsabili sono scomparsi dal discorso, impuniti, intangibili. E in nome della salvezza, alla gente è stato chiesto di sacrificare i propri interessi. Il che, detto per inciso, è una strana incongruenza da parte di un Figlio della mano invisibile. Monti, nel tempio del gran sacerdote Bruno Vespa e nel salotto chic del maggiordomo Fabio Fazio, è stato piuttosto chiaro: per il momento il paradiso è ancora interdetto agli italiani, anche se dopo le lacrime e il sangue verranno tempi migliori.
Con gesti pacati e parole lente e voce leggera, Monti è sembrato veramente coincidere con la descrizione che di lui hanno offerto giornali e televisioni: un uomo mite, accompagnato dalla moglie, pura essenza in contrapposizione all’esuberanza fisica di Berlusconi.
Asessuato. E in effetti si vede, guardandolo negli occhi, che per lui il potere rappresenta una sublimazione della libido molto più intensa, cerebrale, di quanto non fosse per il suo ‘lucreziano’ predecessore.
Facendo pentire chiunque avesse pensato, deviato – come piace darla intendere al clero giornalistico ufficiale – dall’informazione apparsa in rete, che quell’omino magro, mosso da una lievità spirituale, non fosse Geppetto, bensì un uomo di potere ai più alti livelli. Un uomo che per un ventennio ha partecipato alle vicende Fiat, proprio nel cuore dei giorni da leoni delle tangenti (per i quali, si fa per dire, ha pagato solo il prode Romiti).
Ma quelli erano i giorni del fango, della realtà terrena, gli anni della formazione, della terra che è bassa. Oggi, le stelle da cui Monti scende sono quelle dei re Mida, del gruppo Bilderberg, della Trilateral (2), due delle chiese più vicine alla mano invisibile, là dove si celebra nello sfarzo, anche se in grande segretezza, il dogma neoliberista.
Mah! A volte, in momenti di particolare pessimismo, si guarda al futuro, e allora viene da pensare: chissà quanta sorpresa se un giorno, sotto il dominio dell’Unipolarismo, si venisse a sapere che l’attacco finanziario che ha piegato l’Italia, veniva proprio dalle manovre di quella mano invisibile a cui ci accingiamo a inchinarci, dalla pancia di quel Deus Absconditus, alla destra del quale, nel frattempo, Mario Monti sarà tornato a sedersi.
(1) Cfr. Il governo Monti che tanto piace… a chi?, Daniela Bettera e Lara Peviani, Paginauno n. 26/2012
(2) Cfr. Il regime di verità del libero mercato, Giovanna Cracco, Paginauno n. 21/2011