Ci sono cose nella storia della musica rock e pop che non riesco proprio a capire. Più che altro mi stupisco, tutte le volte che ci penso, a quanto veloce e vertiginoso sia il consumo di questo tipo di musica che è oramai diventata omnipervasiva. L’altra cosa che mi rende perplesso è la proliferazione di termini che dovrebbero indicare, identificare, catalogare, insomma aiutarci a capire lo specifico ambito di musica in cui si colloca ciò che stiamo ascoltando. Oltretutto mi sono accorto che c’è stata una sorta di appropriazione indebita di una serie di termini che oramai non indicano più ciò che indicavano una volta, come progressive.
Come se non bastasse, sono convinto che la maggior parte degli autori non abbia molto chiara la discendenza che hanno alle spalle. Faccio un esempio: se mettiamo insieme una coordinata spazio-temporale come il periodo che va dall’arrivo degli schiavi africani sul continente americano a inizio anni ’70 con una coordinata del tutto musicologica come la scala del blues, siamo in grado di ricostruire una genealogia socio musicale piuttosto chiara. Voglio dire, stiamo parlando dell’intera storia del Blues, del Jazz e del Rock & Roll, mica bruscolini. Sino a quel momento è ancora possibile trovare delle caselle, distinguere delle filiazioni, orientarsi nelle aperture segnate di volta in volta da questo o quell’autore. Ma una cosa è certa: una volta dimenticata questa matrice, scomparsa ogni traccia di blues, non ha più senso utilizzare la vecchia terminologia. Il risultato è che dentro il termine ‘Rock’ e ancora di più dentro il termine ‘Pop’ è finito di tutto e di più.
Cosicché sin dagli anni ’70 è stato normale chiamare ‘rock’ una band come Emerson, Lake e Palmer caratterizzata da pesanti infiltrazioni della musica classica, oppure i buoni vecchi Jehtro Tull, intrisi di folk britannico rivisitato (a parte i primi due album in cui c’è ancora del blues). Da quel momento in avanti c’è stata una proliferazione spaventosa di termini, che avrebbero dovuto indicare generi e sottogeneri, ma che finiscono in larga parte per far litigare chi li usa: il motivo è semplice e sta nel fatto che nessuno dei termini parla o si riferisce a un contenuto musicale in termini strettamente musicali.
Più spesso in realtà si parla di funzione: per esempio la dance music che tanti di noi hanno ballato negli anni ’70 si è emancipata fondamentalmente dalla cosiddetta soul music buttando alle ortiche la matrice blues e le ritmiche a essa connessa. Fondamentalmente è un’operazione fatta dai bianchi, che ha coinvolto oramai miliardi di ascoltatori.
La matrice black, beninteso, continua a sopravvivere. Solo uno sciocco potrebbe pensare che Michael Jackson sia stato solo un cantante pop. Già qualche decina di anni fa il grandissimo trombettista nero Lester Bowie con la sua Brass Fantasy se ne venne fuori con una stupefacente versione jazz di una hit come Thriller, e la cosa si è ripetuta in tempi più recenti con l’omaggio tributato a Jackson dal nostro Enrico Rava in Rava on the floor (con gli ottimi arrangiamenti di Mauro Ottolini). Per quanto sbiancato, il nero tornava fuori. Recentemente ho fatto una lezione a dei ragazzi delle medie superiori che mostravano d’essere estremamente competenti in termini di Rap e Hip-Hop culture. Sono cascati dal pero quando ho fatto loro ascoltare delle dirty dozens di un centinaio di anni fa…
Insomma, nella cultura bianca e occidentale il villaggio globale è oramai cosa assodata. Esattamente come oltre la Cortina di Ferro si ascoltavano avidamente tutte le musiche che provenivano da Radio Free Europe, così noi che giravamo per l’etere prima delle radio libere ci siamo prima o poi imbattuti in qualche melopea di sapore vagamente arabo, senza sapere distinguere se avessimo di fronte un marocchino anziché un pakistano, un turco anziché un egiziano. Che io ricordi, ci sono stati almeno tre input, tre campanelli d’allarme che mi hanno fatto capire come il vaso di Pandora della comunicazione si fosse irrimediabilmente spaccato e come oramai il mondo corresse verso quella che si sarebbe chiamata globalizzazione:
- 1. il fondamentale My life in the bush of ghosts di B. Eno e D. Byrne, da più parti accusato di essere una mera operazione di cannibalizzazione colonialista delle culture extraeuropee, per avere osato campionare dall’etere delle voci della cultura musicale medio orientale;
- 2. la scena di Blade Runner ambientata nel locale di Taffy Louise, dove il detective Deckard-Harrison Ford è circondato da bellezze femminili poco occidentali e dove la musica in sottofondo è uno stupefacente cocktail di sonorità medio orientali con una spruzzata di elettronica (è ancora oscuro l’autore, forse Vangelis);
- 3. l’uscita in pubblico di festival e album marcati Real World, che portavano alla ribalta mondiale gruppi e autori di tutto ciò che non apparteneva all’Occidente musicale.
Tutto intorno giravano musicisti come i Tuxedomoon con la loro Courante Marocaine e Holger Czukay ex-Can con Persian Love… a me capitò di ascoltare nel 1981, non so dire più dove e a opera di chi, l’uscita di un gruppo britannico chiamato Medium Medium, con brani come Guru Maharaj e Serbian Village (https://www.youtube.com/watch?v=1kDGPzf77WA e https://www.youtube.com/watch?v=GXPTuwL7SEk), che venne etichettato sbrigativamente come musica post punk con influenze medio orientali. Tutto finì nel frullatore dove si agitavano quei tre input iniziali, dunque non mi stupì più di tanto.
Ma dovetti aprire le orecchie per benone quando due anni dopo, sempre probabilmente per via radiofonica mi capitarono per le orecchie i C Cat Trance, formati da John Rees Lewis (voce e sax) e il percussionista Nigel Stone, entrambi reduci dall’esperienza Medium Medium. A distanza di molti anni, e qui torno all’incipit, la domanda è: perché questa band è stata così totalmente dimenticata? Come è possibile che non abbiano mai raggiunto qualsiasi grado decente di riconoscimento internazionale? L’unica spiegazione plausibile che attualmente riesco a darmi è che la distribuzione dei loro album sia stata veramente molto carente, soprattutto nei termini di risonanza sui vari media. Tornando con la mente alla situazione del mercato discografico di inizio anni Ottanta, credo la musica dei C Cat Trance fosse un qualcosa di veramente elitario e sin troppo avanti – di fatto solo l’album di Eno e Byrne ricevette risonanza internazionale, pur non raggiungendo mai vette assolute di vendite.
La storia ci racconta invece come prima i Medium Medium poi i C Cat siano andati in giro per l’Europa sempre in piccoli club e piccoli punk bar, specie in Germania e Belgio. Nel transito da un gruppo all’altro mantennero una certa impronta di oscura melanconia, ma aggiunsero la cosa essenziale cioè scale musicali e ritmiche medio orientali. Intorno a tutto, il sax di Rees, suonato digrignando i denti e con una certa aria malata da vecchio punk. Senza che nessuno dei due fosse o per cultura o per sangue apparentato al Medio Oriente, ebbero il coraggio di mettere nella loro musica l’atmosfera oppressiva di una qualunque caotica metropoli islamica proiettata verso il futuro. Suonavano come fossero una band di musulmani rinnegati e fuori di testa in un bar di Saturno, come se i King Crimson suonassero Ladies on the Road in un covo di fumatori di hashish marocchini, accompagnati da un ensemble altrettanto ‘stoned’. Ben prima dei The Prayers o degli Enigma reintrodussero il canto gregoriano nella scena rock, mentre si abbeveravano al Rai algerino o al Qawaal pakistano un passo prima prima che si cominciasse a pensare alla world music. Indubbiamente la matrice era post punk, se non altro sul piano cronologico, ma è come se avessero presentito che tutta la rabbia del mondo islamico verso l’Occidente bianco avrebbe cominciato a tracimare prima dalle squallide banlieue parigine e poi dalle sponde del Mediterraneo.
Hanno avuto il coraggio di guardare il lato meno ‘carino’ ed ‘esotico’ della world music. Ecco perché credo sia corretto dire che in loro il post punk, con tutto ciò che di oscuro aveva dentro, abbia evocato la trance, nel senso più autentico del termine: andare oltre e immergersi nella vertigine, come se improvvisamente tutti i clacson delle auto di Damasco o di Baghdad avessero cominciato a suonare all’unisono, con un curioso effetto di sirena nasale, muovendosi in un’unica fila per andare in pellegrinaggio alla Mecca. Il Sax di Reese borbotta, scoppietta, accenna un passo di danza, singhiozza, impreca, si mette in testa al corteo spinto da una propulsione di batteria meccanica e percussioni campionate.
Musica da un’altra era possibile, troppo avanti per i suoi tempi, probabilmente, ma ancora vibrante e in grado di eccitarci nella danza e nell’ascolto. In chiusura, oltre a raccomandarvi l’ascolto o l’acquisto di qualunque cosa abbiano inciso i C Cat Trance (a proposito, il raddoppio della C pare debba intendersi come un balbettio) vi segnalo una play list di brani usciti subito dopo di loro: oltre a dimostrare quanto siano stati seminali i C Cat, è un ottimo modo per arredare musicalmente il vostro soggiorno con musica che non sapete, soprattutto, quando è stata prodotta.
Alla faccia del consumo.
A me piace parecchio: Acid Arab Ft. Avril, Shadi Khries – Samira
https://www.youtube.com/watch?v=ibFzELEUilA
Sexy, fuori orbita, mortale: Marie Madeleine – Love Suicide (Acid Arab Remix)
https://www.youtube.com/watch?v=74KPjoA_39Q
Sulla stessa scia, ma con più funky dentro: Boys In The Oud aka Turzi, Judah Warsky, Dj Gilb’R & Adnan Mohamed – Cosmique Arabe
https://www.youtube.com/watch?v=jruDHYt1COg
Come sopra, ma un po’ più facile: Mattia – Surabaya
https://www.youtube.com/watch?v=qTxmR8bvalI
Uno dei mix del DJ Jan Drivers tra techno con flauti arabi da incantatore di serpenti
https://www.youtube.com/watch?v=aiWXmR_Pbvk
La notevole ritmica di Final Warning – Badawi
https://www.youtube.com/watch?v=xqOz55BaLm0&index
=24&list=PLJwPflQaqXoyEmEAtpv7CMRGsXhOl4Ns7
And the hypnotic The Storm – Badawi
https://www.youtube.com/watch?v=T-6y47a4qNg