Renato Curcio e Nicola Valentino
Inclusione-esclusione, dispositivi di controllo sociale, potere disciplinare che conforma codici di comportamento, interiorizzazione di valori: ripartiamo dalle basi per leggere le pratiche di potere oggi messe in atto.
Con il Covid-19 sono state messe in atto specifiche pratiche di potere. L’intervento che segue è tratto dal libro “Nella città di Erech”, di Renato Curcio e Nicola Valentino (Sensibili alle foglie, 2001); un testo da rileggere e trarne spunto. Il pdf del libro è distribuito gratuitamente dalla libreria online di Sensibili alle foglie (www.libreriasensibiliallefoglie.com).
Enkidu
Una delle più antiche storie di questa civiltà, che oralmente già veniva tramandata almeno quattromila anni prima di Cristo, inizia col racconto del combattimento tra il sovrano della città di Erech, Gilgamesh, e il selvatico Enkidu, che non essendo mai entrato nella città degli uomini era in tutto simile agli animali.
Enkidu, il corpo interamente coperto di pelo, vestito di pelli, trascorreva il suo tempo errando per la campagna in compagnia degli animali; con loro si accoppiava, come questi si nutriva di erbe incolte e si dissetava con l’acqua delle fonti. Così almeno viene descritto dai primi narratori assiri, hittiti e urriti, i cui racconti furono accolti nelle prime versioni scritte ospitate già nel 628 a.C. nella biblioteca del re Assurbanipal.
Questa coppia di combattenti, d’intensità archetipale, racchiude il codice genetico di un dispositivo relazionale che ancora oggi orienta naturalmente il nostro sguardo. Gilgamesh ed Enkidu, rappresentano rispettivamente l’incluso nella città degli uomini e l’escluso. Il primo per due terzi divino e per un terzo umano, il secondo per tre terzi animale, senza condivisioni umane e ancor meno divine.
Nelle città-stato della Mesopotamia, nelle polis greche dove tutti coloro che vivevano fuori delle mura erano classificati etnos, come pure nelle civitas della penisola che abitiamo, un muro perimetrale ha fin dalle origini preteso di delimitare e significare gli spazi identitari e le loro forme di relazione. Un muro di pietra, non solo una metafora; una pietrificazione degli spazi e degli sguardi che si son dati un limite, una epistemologia, una filosofia, una letteratura e una mitologia del limite.
Nel recinto delle mura s’è dunque progressivamente consolidato e “naturalizzato” un dispositivo relazionale fondato sulla dicotomia inclusione-esclusione. In questa dicotomia gli esclusi non sono soltanto gerarchicamente inferiori agli inclusi; assai peggio essi sono privati della loro qualità specifica, vengono disumanizzati, spersonalizzati, animalizzati. Diventano non-umani.
Il codice dell’inclusione nelle città-stato non è più costituito dalla voce degli antenati autorevoli tramandata da bocca a orecchio generazione dopo generazione. Sono le leggi consigliate da un dio e scritte su una stele che invece debbono essere interiorizzate fino al punto di apparire a ciascun cittadino la fonte più intima della propria autonoma coscienza. L’occhio sostituisce l’orecchio, la scrittura soppianta l’oralità e, mentre diviene il linguaggio ufficiale del potere, induce una radicale trasformazione antropologica, ridisegna la mappa della neurofisiologia umana, produce un nuovo modo sociale di apprendere e rappresentare il mondo, di comunicare, e una nuova tecnologia di controllo dei comportamenti. È in questo punto della storia che nasce il soggetto pre-scritto, capace di trasformare in coscienza la “narrazione” del potere, e di conformarsi ai luoghi comuni di una identità collettiva (1).
Il buon cittadino, il “cittadino normale”, in questa filigrana, è per così dire un incluso perfettamente addomesticato, adattato, conformato, e “normato”; educato ad una certa gamma di discipline che omologano insieme all’anima il suo corpo. Murato fuori e murato dentro ma inconsapevolmente cieco rispetto all’esistenza di quelle mura.
Alla perimetrazione esterna, ieri della città-stato, e oggi della città globale, corrisponde la perimetrazione interna del suo sguardo, dei suoi sensi, del suo stato ordinario di coscienza indotto a disconnettere da sé quanto viene sovranamente riprovato e condannato all’esclusione: ciò che viene messo fuori dal luogo comune esteriore dovrà essere nel contempo disaggregato e disconnesso interiormente.
Un’altra implicazione di questa figura archetipale è che essa istituisce un’istituzione, fonda la regola impalpabile della relazione con chi è fuori dal luogo comune. E questa regola stabilisce, per quanto la riguarda, anche la sua dogana. All’alt! che essa decreta ci si dovrà fermare, altrimenti si entrerà nella pena. Oppure in una guerra. Possiamo partire da qui, da Enkidu e Gilgamesh, da Aristotele e gli etnos, da questa istituzione relazionale originaria, per guardare nel torbido e nell’opaco di tutto ciò che con apparente lucidità chiamiamo istituzione.
Una parola ambigua: istituzione
Istituzione: l’atto dell’istituire o il risultato di quest’atto? Come tante altre parole anche istituzione si distingue per la sua vaghezza. Inutile cercare appigli nei fondali o nelle nuvole dei suoi significati: ciò che si trova trasmette un’incertezza. Una certa sociologia, quella di Talcott Parsons e dei suoi allievi, o quella di Emile Durkheim, e un’omologa etnologia hanno risolto la questione formulando un modello statico dell’istituzione entro cui essa si traduce in un quadro strutturato e stabilizzato di attività sociali, di norme, regole e funzioni. Così intesa l’istituzione langue nella sua passività e non conosce il fermento della vita. Un certo orientamento culturale europeo, che ha preso le mosse negli anni ‘40 ed è sfociato poi nell’analisi istituzionale, si è mosso sul versante opposto mettendo in evidenza la natura processuale e dinamica dell’istituzione.
È a questo orientamento costruttivista, attento alle pratiche istituenti che si muovono sotto la coltre di ciò che è già stato istituito, che anche noi grosso modo ci riferiamo almeno per quanto riguarda alcuni strumenti analitici di base. Che preferiamo dichiarare subito nella loro forma elementare per non lasciare il lettore inutilmente col fiato sospeso. In quei costrutti sociali che chiamiamo istituzione confluiscono ordinariamente tre grandi tensioni:
- una tensione attiva, vale a dire il lavoro che istituisce, il fatto di istituire un ordine. Con Georges Lapassade possiamo chiamare gli attori di questa produzione istituente, istituenti ordinari;
- una tensione passiva, e cioè la resistenza di un ordine istituito, il muro delle norme e il pantano delle consuetudini consolidate. Le personificazioni di questa conservazione saranno allora i guardiani dell’istituito;
- una tensione processuale, come dire i processi di istituzionalizzazione. L’istituzione è allora il risultato di questi processi e gli attori delle prime due istanze, da questo terzo movimento, vengono messi a nudo e svelati nelle loro personali implicazioni.
Ma poiché questi processi sono rilevati, in definitiva, da chi li analizza, occorre spingere la nozione di implicazione ad un livello ancora più profondo. È ciò che ha fatto René Lourau insistendo particolarmente sul fatto che l’istituzione, in definitiva, è ciò che viene alla luce negli enunciati delle implicazioni di ciascuno dei partecipanti all’analisi (2).
Secondo Pichon Riviere e Armando Bauleo, un ulteriore elemento fondante di questo quadro analitico sarebbe il ‘compito’ intorno a cui si organizzano le tensioni enunciate. In sostanza, precisa Leonardo Montecchi, che a questo orientamento si ispira, “noi pensiamo che le istituzioni non siano solo un processo tra momento istituente ed istituito, processo che possiamo pensare su un piano orizzontale, ma che siano caratterizzate da compiti – la salute, l’educazione, la difesa, ecc. – che le fondano in quanto gruppi e che specificano la loro attività produttiva su di un piano verticale” (3). Ma è possibile che i compiti di un’istituzione siano inafferrabili come i sogni e che gli stessi attori non sappiano bene cosa stiano sognando. Figuriamoci poi gli analisti e i socioanalisti.
Servendoci di questi primi strumenti analitici è possibile cogliere la differenza specifica tra una famiglia e un manicomio, tra un campo di concentramento e un ospedale, tra una scuola e una prigione? È ragionevole, ponendo in altro modo la stessa domanda, utilizzare la distinzione corrente tra istituzioni ordinarie, come ad esempio la famiglia, e istituzioni totali, come l’ospedale psichiatrico giudiziario?
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Istituzioni ordinarie e istituzioni totali
Possiamo riprendere, a questo punto, le due domande lasciate in sospeso. La nozione di istituzione totale è stata proposta dal sociologo americano Ervin Goffman, indotto ad interessarsi di carceri e manicomi in seguito al coinvolgimento diretto in una istituzione psichiatrica di una persona a lui cara. In Asylums (4) il suo saggio più noto e meglio articolato, egli afferma che: “Uno degli aspetti fondamentali della società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità e senza alcuno schema razionale di carattere globale”.
La caratteristica principale delle istituzioni totali sarebbe allora proprio la rottura delle barriere che abitualmente separano le tre sfere principali della vita di ogni individuo: la famiglia, il lavoro, il divertimento. Lo sguardo di Goffman si ferma qui: alle apparenze, alla superficie. Sotto questa apparenza tuttavia, altri ricercatori – Michel Foucault e Franco Basaglia in particolare – hanno messo bene in evidenza un dispositivo disciplinare e di potere che unifica alla radice quelle “sfere della vita” che Goffman, invece, considera separate l’una dall’altra da precise barriere.
Michel Foucault, ad esempio, nella sua lettura dei dispositivi del controllo sociale che si sono affermati negli ultimi secoli, enfatizza il potere disciplinare, vale a dire quell’insieme di pratiche e di conoscenze orientate sugli individui allo scopo di renderli conformi a determinati codici di comportamento. Un potere distribuito ed articolato in tutte le istituzioni – dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla prigione e al manicomio – più che identificato in una specifica istituzione (5). Soprattutto un potere che lavora per indurre in tutte le persone che ricadono sotto il suo dominio una forte interiorizzazione o internalizzazione di valori, modelli identitari, contenuti di significato riferibili alla normalità; e che tratta gli incorreggibili (6) per recuperarli alla conformità, per rinormalizzarli.
L’incorreggibile, per Foucault, è “colui che oppone resistenza a ogni disciplina” e, quindi, manifesta il fallimento delle tecniche di addestramento e delle procedure di raddrizzamento familiari. Proprio per ciò richiama una nuova tecnologia del raddrizzamento e della correzione. La nozione di incorreggibile nasce nel XVIII secolo e implica la genesi delle istituzioni correzionali e trattamentali moderne. Il continuum della società disciplinare, sarebbe quindi operante, nello scenario foucaultiano, proprio nell’esercizio sui corpi, nella microfisica di questo potere.
Se proviamo a tradurre in un modello relazionale la nozione di potere disciplinare ci appare una struttura gerarchica entro cui:
- un attore gestisce rigidamente un codice normativo (custode del codice);
- un altro attore viene costretto a stare nella relazione conformando i suoi comportamenti a quel codice (iniziato). Se non si conforma subisce una penalizzazione (esclusione) e un trattamento correzionale.
Franco Basaglia articola ulteriormente questo sguardo e mette al centro della sua riflessione la divisione dei ruoli e la relazione di potere che ad essa corrisponde. Rispetto alle tre sfere principali della vita indicate da Goffman egli afferma anzitutto che “la famiglia è fonte di contrasti, di contraddizioni, che le fabbriche distruggono l’uomo, che il tempo libero è un momento di alienazione della persona” (7). E, più in generale, precisa che: “Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere; la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che s’instauri nella nostra società” (8).
Divisione dei ruoli, esercizio di potere, violenza ed esclusione caratterizzano ogni istituzione e nella società occidentale vengono giustificati come necessità intrinseca alla finalità dell’istituzione: l’educazione (famiglia, scuola): trattamento educativo; la malattia (ospedale, ospedale psichiatrico): trattamento terapeutico; la ‘colpa’ (carcere): trattamento risocializzante. Questa giustificazione, fissata in norma, definisce il limite, il confine, la ‘linea di colore’ “fra un bene che si accoglie (che siamo noi) e un male che si rifiuta (che sono loro)” (9). Loro, i diversi, i rifiuti, gli elementi di disturbo, gli irriducibili, gli esclusi. Ovvero le contraddizioni generate dalle relazioni dominanti nell’inclusione ma che gli inclusi non vogliono vedere e cercano di far sparire. Le istituzioni dell’esclusione, sono così “aree di scarico e di compenso delle proprie contraddizioni dove la società relega e nasconde le proprie contraddizioni” (10). Se, in generale, ciò che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha, più in particolare in che consiste, allora, se esiste, la differenza specifica tra le istituzioni ordinarie e le istituzioni dell’esclusione?
Nelle istituzioni considerate ordinarie (famiglia, scuola, azienda, banche, partiti, ospedali, centri sociali, ecc.) la dialettica istituente/istituito prevede per tutti gli attori della relazione la possibilità di esercitare una azione istituente in conflitto con l’istituito. Nelle micro-dimensioni, nelle dinamiche molecolari, gli attori che subiscono le torsioni esercitate da chi si erge a guardiano dell’istituito possono opporre azioni che istituiscono processi avversativi alla richiesta correzionale o di conformazione: processi di istituzionalizzazione.
Questa attività istituente ordinaria è ciò che Georges Lapassade e altri hanno chiamato “costruzione della realtà sociale quotidiana”. Le istituzioni ordinarie mantengono dunque un certo grado di elasticità e porosità in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, un esito trasformativo dell’azione dell’istituente ordinario. Nelle istituzioni totali viceversa, questo orizzonte che ammette mutamenti non è affatto presente. Processi avversativi ordinari alle richieste di correzione, adeguamento e rinormalizzazione che i guardiani dell’istituito impongono, per quanto presenti e attivi tra la “popolazione detenuta”, hanno scarsissime probabilità di decollare per via ordinaria. Al contrario, in forme apertamente violente – come nel noto caso dei pestaggi avvenuti nel 2000 nel carcere di San Sebastiano, a Sassari – o più sottili – come nei trasferimenti punitivi – essi vengono istituzionalmente sanzionati.
Se una trasformazione qualitativa essenziale può prodursi essa, in genere, dipende da istituenti straordinari (movimenti sociali, rivoluzioni, ecc.) che investono con la loro azione collettiva le macrodimensioni della formazione sociale. Ciò del resto è inscritto nel codice fondativo di queste istituzioni, vale a dire nel momento in cui l’istituzione stessa viene istituita. Proprio questo atto fondatore infatti nega ad uno degli attori – il recluso, l’internato – lo status di cittadino persona e con ciò il suo diritto a poter esercitare una tensione attiva di mutamento.
Potremmo quindi dire che le istituzioni totali in cui si viene rinchiusi contro la propria volontà – ergastolo, manicomio giudiziario, carcere, ospedale psichiatrico, campo di concentramento – hanno la caratteristica di esercitare un controllo assoluto dello spazio, del tempo (presente e futuro), dalla quantità e della qualità delle relazioni che può vivere la persona internata. Sono anelastiche e non porose. La relazione tra gli attori che le fanno vivere è gerarchica, unidirezionale, intransitiva e resistente ad ogni dialettica ordinaria. Esercitano costitutivamente una torsione relazionale mortificante sull’attore recluso.
Ma, se questa è principalmente l’operazione che le istituzioni totali svolgono verso le persone istituzionalizzate, verso l’esterno esse agiscono – come del resto le istituzioni economiche, educative, sanitarie … – creando il bisogno di sé (11). La salvaguardia dell’istituzione viene garantita dal mito che l’istituzione riesce a creare di se stessa, indicando i valori su cui si fonda, e dalla capacità di creare nella società la percezione di una carenza di questi valori.
Questa attività verso l’esterno va rimarcata perché implica tutti i cittadini, li corresponsabilizza rispetto all’esistenza di quella istituzione. È emblematico ricordare che sull’ergastolo di Santo Stefano, costruito nel 1764, era scritto: “Finché la santa legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo Stato e la proprietà”.
1) Jaynes Julian, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano 1984, Adelphi
2) Lourau René, Actes manqués de la recerche, Paris 1994, PUF
3) Montecchi Leonardo, Le officine della dissociazione, dattiloscritto, 1999
4) Goffman Erving, Asylums, Torino 1968, Einaudi
5) Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1993, Einaudi
6) Foucault Michel, Gli anormali, Milano 2000, Feltrinelli
7) Basaglia Franco, Conferenze brasiliane, Milano 2000, Raffaello Cortina Editore
8) Basaglia Franco (a cura di), L’istituzione negata, Milano 1968, Einaudi
9) Basaglia Franco, “L’esclusione (la soluzione finale)”, in AA.VV., Le scelte del 68, Milano 1998, Libro del Leoncavallo
10) Basaglia Franco (a cura di), L’istituzione negata, Milano 1968, Einaudi
11) Illich Ivan, Nello specchio del passato, Como 1992, RED