Deontologia giudiziaria e legittimità del Terzo potere: il ruolo politico della magistratura, le nove massime di Ferrajoli e il processo Brega Massone
“In una lunga fase di crisi della nostra democrazia, segnata dalla corruzione della vita pubblica, dai conflitti di interesse al vertice dello Stato, dalle pretese di onnipotenza delle forze di maggioranza, dalle aggressioni da parte di queste stesse forze alla Costituzione repubblicana, al lavoro e ai diritti sociali, il ruolo della giurisdizione è stato decisivo nell’arginare lo sviluppo dell’illegalità pubblica e il crollo di credibilità delle nostre istituzioni, e perciò nel salvaguardare la tenuta dello stato di diritto e della democrazia. Tuttavia, nello scontro che inevitabilmente ne è seguito tra poteri politici e magistratura, la difesa incondizionata della giurisdizione ha finito per generare in una parte dell’opinione pubblica e anche, purtroppo, tra molti giudici, la concezione del potere giudiziario come potere buono e salvifico. E, soprattutto, quella difesa ha finito per far trascurare, o peggio avallare prassi giudiziarie illiberali e anti-garantiste, in contrasto con quella stessa legalità che esse pretendono di difendere. […] È perciò una riflessione critica e autocritica che oggi si richiede alla magistratura: nei confronti non solo e non tanto di singoli provvedimenti giudiziari, quanto soprattutto nei confronti di atteggiamenti, culture e subculture anti-garantiste, che vanno diffondendosi nel mondo della giustizia e anche in una parte della sinistra”.
Con queste parole Luigi Ferrajoli, nel gennaio 2013, ha aperto il suo intervento al Congresso annuale di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra interna alla magistratura che Ferrajoli stesso, ex magistrato e oggi professore di Filosofia del diritto, ha contribuito a fondare.
L’analisi su che cosa sia il cosiddetto Terzo potere di uno Stato cosiddetto di diritto, da un punto di vista storico e politico, è ampia e articolata e non è ciò che ci interessa fare in questa sede – ed è complessa soprattutto nella storia italiana, che ha conosciuto un decennio di lotta armata e movimenti di sinistra, culminato nel processo farsa del 7 aprile e del ‘teorema Calogero’, e di stragi di Stato, tentati golpe, servizi segreti deviati ed eversione nera, caratterizzati da insabbiamenti e depistaggi processuali e da procure e tribunali definiti ‘porti delle nebbie’. Non possiamo tuttavia evitare un breve inciso, sottolineando quanto negli ultimi vent’anni questa analisi si sia impoverita, di pari passi con l’impoverimento della cultura politica della società italiana.
Da Tangentopoli in poi, e successivamente dalla discesa in campo di Berlusconi in poi, ragionare sul potere e sul ruolo della magistratura è diventato quasi impossibile: è avvenuto quel che inevitabilmente accade quando nascono tifoserie, quando la politica parla alla pancia dei cittadini con lo scopo di atrofizzarne il cervello, perché un popolo bue è più facile da manipolare per ottenerne il consenso. Approccio messo in atto sia da destra – il partito padronale di Berlusconi, che ha costruito la propria fortuna elettorale utilizzando le tecniche di marketing imparate e rodate in anni di televisione commerciale – sia da sinistra – quel Pd che allontanandosi progressivamente dal pensiero di sinistra, che vede nel conflitto capitale/lavoro la propria base ontologica, ha dovuto inventarsi altro da offrire ai propri elettori, e non gli è parso vero di trovarlo proprio nel suo antagonista, creando l’anti-berlusconismo.
Così da vent’anni l’opinione pubblica si ritrova divisa acriticamente su due fronti: o si è contro la magistratura, è allora si è berlusconiani, o si è a favore, e allora si è di sinistra; o si accusa giudici e pubblici ministeri di esercitare un ruolo politico che non dovrebbe appartenergli, o li si presenta come meri funzionari che applicano la legge, esecutori indipendenti ma fedeli della volontà del potere legislativo, la cosiddetta ‘bocca della legge’ sottomessa solo al diritto; potere buono, appunto, e salvifico, come buona e salvifica è ritenuta la democrazia.
Diventa dunque un buon esercizio di analisi, e un buon punto di partenza per riflettere oggi sul potere giudiziario, prendere in mano l’intervento di Ferrajoli al congresso di Magistratura Democratica, poiché proviene proprio da quella corrente accusata di ‘fare politica’, le famigerate ‘toghe rosse’.
Occorre per prima cosa sciogliere il nodo cruciale: è indubbio che la magistratura svolga un ruolo politico. E non si tratta di indagini/sentenze a orologeria o eliminazione di nemici politici – non si tratta nemmeno di negarle, ma per affermarlo occorre una conoscenza dei singoli atti giudiziari che non abbiamo, e dunque il giudizio resta sospeso – ma molto più semplicemente di quel ruolo che in ogni regime democratico le appartiene ontologicamente: perché nell’interpretare la legge il giudice concorre a creare il diritto; perché le norme giuridiche non sono indipendenti dal processo di interpretazione, al contrario, assumono significato proprio attraverso il processo di interpretazione; perché il giudice riempie con le sue valutazioni gli spazi lasciati dal legislatore, che redige norme astratte e generali; o può entrare in campi nuovi, non ancora regolati dalla legge (il caso Eluana Englaro, per esempio, o la fattispecie di reato del concorso esterno in associazione mafiosa).
Un concetto tuttora ben presente nei Paesi anglosassoni, di tradizione giuridica di common law, e che in quella cultura che non esiste più era considerato un’ovvia banalità anche in Italia, Paese di civil law.
Magistratura Democratica non lo negava affatto, anzi lo rivendicava. Era, ed è, parte integrante della sua storia. Come ricorda Ferrajoli nel suo intervento, essa “teorizzò e praticò fin dalle sue origini l’impegno politico dei giudici nella società e la loro scelta di campo in favore dei soggetti deboli i cui diritti costituzionali sono di fatto insoddisfatti”; e come ricorda lo stesso sito dell’associazione: “Intorno alla metà degli anni Sessanta si determina una crisi profonda della cultura giuridica, fino a quel momento omogenea, che vede messi in discussione i suoi valori tradizionali: di tale crisi Magistratura Democratica è espressione e meccanismo propulsivo. La certezza del diritto, la neutralità dell’interpretazione, il ruolo solo tecnico del giudice, tutto ciò viene contestato e ripensato”.
Ed è proprio per questa “espansione della giurisdizione” che Ferrajoli sente oggi la necessità di parlare di “deontologia giudiziaria” e di tracciare “nove massime deontologiche”, perché, afferma, da quella espansione “è conseguita […] una crescita enorme quanto inevitabile del potere giudiziario, della responsabilità dei giudici e del ruolo politico della giurisdizione, che richiederebbe un rafforzamento delle sue condizioni di legittimità: della sua rigida soggezione alla legge, del rigoroso rispetto delle garanzie”.
In questa sede ci interessa soffermarci solo su quattro di queste massime, ma consigliamo la lettura integrale dell’intervento, reperibile in rete.
Dopo aver richiamato (prima regola deontologica) la “consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un ‘potere terribile’ […] non dunque un potere buono o giusto, ma un potere ‘odioso’ […] perché […] decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato”, Ferrajoli si sofferma (seconda regola) su un’altra “consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l’esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario […]. Se è vero infatti che la legittimazione della giurisdizione si fonda sulla verità processuale accertata mediante l’applicazione della legge e che la verità processuale è sempre una verità relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto, allora anche la legittimazione del potere giudiziario […] è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. C’è dunque una specifica regola deontologica che, soprattutto in materia penale, riguarda l’accertamento della verità. In primo luogo l’accertamento della verità giuridica, cioè l’interpretazione delle leggi. Questa regola consiste nel rigoroso divieto, in omaggio al principio di stretta legalità e tassatività, dell’analogia in malam partem e dell’interpretazione estensiva. In materia penale il giudice non può, non diciamo inventare figure di reato, ma neppure estendere a fenomeni vagamente analoghi o connessi le fattispecie previste dalla legge”.
Segue l’aspetto relativo all’accertamento della verità fattuale, che “consiste nel costume e nella pratica del dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità processuale fattuale non è mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre una verità probabilistica e che è sempre possibile l’errore; […] che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di conferme e di induzioni e che quindi, nonostante le prove e il convincimento, qualunque sentenza può essere sbagliata perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto da essa ritenuto. È su questo tratto epistemologico del giudizio che si basa questa terza regola della deontologia giudiziaria: il valore del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio – da cui il bel nome ‘giuris-prudenza’ – come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e in generale delle discipline giuridiche, la consapevolezza, in breve, che sempre è possibile l’errore, sia di fatto che di diritto”.
Ne consegue la quarta regola: “La disponibilità dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri, all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni e l’esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi accusatorie”. Una disponibilità che “esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all’approccio inquisitorio, il cui tratto inconfondibile e fallace è invece la resistenza del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, cioè la petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria, che dovrebbe essere suffragata da prove e non smentita da controprove è apoditticamente assunta come vera e funziona da criterio di orientamento delle indagini, cioè da filtro selettivo delle prove – credibili se la confermano, non credibili se la contraddicono – e risultando perciò infalsificabile. […] È chiaro che questa quarta regola deontica esclude in primo luogo l’idea dell’imputato come nemico e, più in generale, ogni spirito partigiano o settario. Ma essa esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde”.
Ora: se è vero che la critica a un certo modo di fare giustizia, mossa da Ferrajoli con estrema precisione, al punto di stendere e richiamare i magistrati al rispetto di nove massime deontologiche, calza a pennello alla vicenda processuale che ha coinvolto il dottor Brega Massone – come vedremo analizzando le motivazioni della sentenza di Cassazione – è altrettanto vero, e ben più preoccupante, ciò che rivela la decisione di farne l’oggetto di un intervento a un congresso, di un invito pubblico e generale rivolto all’intera magistratura: significa che questa concezione, questo uso del potere giudiziario, è diventato a tal punto modus operandi da dover essere denunciato; addirittura dall’interno del potere stesso – e non esiste categoria (o casta) più compatta e autoreferenziale di quella dei magistrati.
Processo Brega Massone: la sentenza di Cassazione
La vicenda è nota: nel giugno 2008 scatta l’arresto del dottor Brega Massone, chirurgo toracico della ex Santa Rita – balzata alle cronache come la ‘clinica degli orrori’ – con l’accusa di truffa e lesioni dolose su un’ottantina di pazienti, portati sul tavolo operatorio, secondo il teorema accusatorio, al solo scopo di ricavarne un profitto economico; nell’ottobre 2010 il tribunale di primo grado emette sentenza di condanna a 15 anni e 6 mesi di carcere, giudizio confermato in appello nel marzo 2012 e in Cassazione nel giugno 2013 (1).
Ci troviamo davanti a un processo ‘tecnico’, perché si muove nel campo medico. Sulla base della pratica, delle linee guida e della bibliografia scientifica, vi era l’indicazione all’intervento chirurgico? Questa è la domanda a cui il dibattimento doveva rispondere, per valutare la sussistenza o meno del reato. Di conseguenza, non essendo i magistrati chirurghi toracici, cardini del processo sono state le consulenze medico-scientifiche; il resto è contorno.
In tutti e tre i gradi di giudizio i giudici hanno considerato attendibili le consulenze della procura, secondo le quali non vi era indicazione chirurgica, e negato validità alle consulenze della difesa, che invece la confermavano. Sulla base di valutazioni in merito alla mancanza di competenza soggettiva e oggettiva dei consulenti dell’accusa, che vedremo nel dettaglio, gli avvocati del dottor Brega hanno più volte richiesto una perizia super partes, che è sempre stata negata. Ne esiste una sola, su un singolo caso, la perizia DP, disposta da un tribunale civile. Ed è questa perizia l’aspetto paradigmatico dell’intero processo, perché rende evidente, suo malgrado, proprio quel modus operandi denunciato da Ferrajoli nel suo intervento: un’ipotesi accusatoria apoditticamente assunta come vera, che ha portato all’arroganza cognitiva, alla resistenza del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, e dunque al mancato accertamento sia della verità fattuale che della verità giuridica.
La signora DP, capo di imputazione nel processo penale, dopo la sentenza di condanna in primo grado si rivolge al tribunale civile per ottenere un risarcimento. A sorpresa, non lo ottiene, perché i periti super partes nominati dallo stesso tribunale giudicano corretto l’operato del dottor Brega, confermando l’indicazione chirurgica; condividono quindi la valutazione effettuata dai consulenti della difesa e negano quella dei consulenti della procura. Gli avvocati del chirurgo presentano la perizia DP in appello, come prova sopraggiunta e ulteriore motivo di richiesta di una perizia super partes su tutti i casi oggetto del processo – essendo l’unica super partes esistente, pone un legittimo dubbio sull’attendibilità di tutte le valutazioni operate dai consulenti della procura – ma a nulla vale: non solo la perizia viene negata, ma la condanna sul caso DP è confermata sia in appello che in Cassazione.
Entriamo nel dettaglio, per nulla trascurabile, anzi rivelatore, di come la Corte di Cassazione ha fatto i conti con la perizia DP.
La perizia plastilina
Scrive la Cassazione:
- “Nella sentenza [di appello, n.d.a.] è stato dato atto della produzione della consulenza disposta nella sede civile e dei suoi risultati: plausibilità, in riferimento al tipo di patologia in esame, delle diverse soluzioni diagnostiche e interventistiche, compresa quella adottata nel caso di specie che è stata giudicata, dagli stessi consulenti di ufficio, corretta”; definisce inoltre la scelta chirurgica operata dal dottor Brega come un’opzione “plausibile fra altre pure plausibili (come sostenuto nella causa civile del c.t.u.)” (2 );
- “Il giudice dell’appello ha però potuto utilizzare un elemento che in sede penale è risultato la chiave di volta del ragionamento dei consulenti del pubblico ministero e che, viceversa, non risulta valorizzato né nella consulenza disposta in sede civile né nei motivi di ricorso: e cioè quello della considerazione, negli accertamenti per immagini, dell’addensamento polmonare e del nodulo definito come ‘persistente’, non solo con un trend positivo verso la risoluzione ma, quel che più conta, con una attestazione di decisa negatività nell’ultima RX effettuata” (3).
Quindi, conclude la Cassazione, non vi era indicazione chirurgica; l’intervento non andava eseguito.
Ora: in merito al primo punto, la consulenza super partes della causa civile (4) non dice affatto questo. Vi si legge (5):
- “Di fronte a un reperto TAC di questo genere si è trattato di prendere una decisione:
- “1. proseguire con il follow-up
- “2. procedere con procedure diagnostiche più invasive (agoaspirato TAC guidato)
- “3. procedere a una diagnostica definitiva e risolutiva.
- “Nel primo caso il follow-up appariva già congruo essendo trascorsi mesi dal riscontro dell’addensamento polmonare durante i quali la paziente aveva eseguito una decina di radiografie del torace e 3 TAC del torace.
- “Nel secondo caso l’esecuzione di una FNAB (agoaspirato con ago sottile) non sarebbe stata la scelta migliore trovandosi di fronte a un soggetto obeso [età 50 anni, altezza 1,67 cm., peso 98 kg., n.d.a.], fumatore [all’epoca dei fatti di almeno 20 sigarette al giorno, n.d.a.] e già con dispnea da sforzo. Se si tiene presente l’elevato rischio di complicanze (pneumotorace) e l’elevata percentuale di falsi negativi che la metodica comporta, si conviene che l’esecuzione di un esame citologico mediante FNAB in un soggetto di questo tipo non era proprio la migliore procedura da attuare.
- “Nel terzo caso la scelta sarebbe stata quella di procedere con una metodica più invasiva ma sicuramente più risolutiva, l’esecuzione di una VATS (video toracoscopia) [la decisione presa dal dottor Brega, n.d.a.]. […] La scelta di eseguire una toracoscopia (metodica mininvasiva) di fronte a un nodulo di dimensioni superiori a 8 mm. (in questo caso si parla di nodulo di 2,5 cm.) che persisteva dopo una polmonite e dopo un congruo follow-up in un soggetto FUMATORE è stata appropriata. Sarebbe stato forse più criticabile un atteggiamento più conservativo con un follow-up prolungato, se poi alla fine ci si fosse trovati di fronte a esame istologico con reperti di neoplasia maligna (gli elementi probabilistici potevano comunque propendere per questa evenienza)”.
Le tre scelte prospettate dai consulenti, quindi, non sono affatto parimenti plausibili, come affermato dalla Cassazione; la prima (il follow-up) è considerata poco sensata e criticabile, e la seconda (agoaspirato) addirittura rischiosa. Secondo i periti il dottor Brega ha dunque preso la decisione più appropriata per la salute della paziente.
In merito al secondo punto, nel quale la Cassazione afferma che la valutazione positiva dei consulenti super partes è inficiata dal fatto di non aver dato il giusto peso a un elemento della massima importanza (“quel che più conta”), ossia l’ultima RX, risultata negativa, registriamo nuovamente che la Corte non riporta in modo corretto il contenuto della perizia DP.
I consulenti evidenziano infatti nel dettaglio i risultati di tutti gli esami disposti dal dottor Brega nel corso dei mesi, TAC e RX, sottolineando sia il miglioramento dell’addensamento polmonare che la persistenza del nodulo, e riportano anche l’esito dell’ultima RX effettuata prima dell’intervento – è sufficiente leggere la consulenza per rendersene conto. Ma l’aspetto più importante che pare essere sfuggito alla Cassazione è che valorizzano quest’ultimo esame sulla base delle loro specifiche competenze. Scrivono infatti, appoggiandosi anche alla bibliografia scientifica: “La radiografia del torace è potenzialmente in grado di evidenziare noduli di diametro pari fino a 5-6 mm; la metodica presenta tuttavia un tasso elevato di risultati falso-negativi. Una percentuale pari fino al 20% dei carcinomi polmonari non a piccole cellule viene identificata in maniera retrospettiva al riesame di radiografie del torace che inizialmente erano state considerate normali. La TC del torace presenta specificità e sensibilità più elevate rispetto alla radiografia” (6).
Quindi, di fronte a una TAC effettuata una decina di giorni prima dell’intervento (il 27 maggio 2007) che evidenziava la persistenza del nodulo, la “decisa negatività” dalla RX del 7 giugno 2007 non è stata considerata dirimente nella decisione di operare. Valutazione effettuata sia dai periti super partes che, all’epoca dei fatti, dal dottor Brega.
Per di più, quanto scritto dalla Cassazione è smentito dai fatti: la lesione infatti c’era, a dispetto della negatività della RX. Non era difficile appurarlo, uno dei consulenti della difesa, il prof. Franco Giampaglia (7), lo aveva sottolineato: “L’RX del torace è negativo ma una nuova TC del torace è stata eseguita 14 giorni prima del ricovero e dimostra la presenza di un piccolo nodulo sub pleurico. Il chirurgo [Brega Massone, n.d.a.] asporta una lesione di 2 cm. di diametro che il patologo descrive come «un’area a margini netti violacei di cm. 2,5 x 2 x 0,5» e definisce «infarto emorragico» all’esame istologico. Quindi la lesione c’è ed è solida”.
Il prof. Giampaglia aveva anche evidenziato la questione dei falso-negativi: “Non esiste il paragone tra radiografia del torace e TAC perché la TAC ha una sensibilità e una specificità cento volte superiore alla radiografia del torace, più volte abbiamo visto che le radiografie sono negative o dicono un qualcosa, la TAC invece entra dello specifico e dice molto di più” (8).
In conclusione, leggendo i documenti e confrontandoli con la sentenza di Cassazione, si ha l’impressione di essere davanti a una prova, la perizia DP, duttile come la plastilina; ma non lo è affatto, sia nella conclusione – l’indicazione chirurgica era corretta – sia nel suo svolgimento. Eppure i giudici, di appello e di Cassazione, sono riusciti ad adattarla, con evidenti forzature, al teorema accusatorio e a emettere sentenza di condanna. Ricordiamo che la perizia DP è quella perizia super partes che i magistrati hanno sempre negato e con cui, in questo singolo caso, sono stati costretti a confrontarsi, perché entrata nel processo dalla porta di servizio, disposta da un altro tribunale.
Ma il caso DP non è solo il caso DP: è paradigmatico, abbiamo detto.
Il teorema infalsificabile
Sia in appello che in Cassazione la difesa ha posto la questione della competenza soggettiva dei consulenti della procura, il medico di base Paolo Squicciarini e il chirurgo toracico Francesco Sartori. Per il primo, la ragione addotta dagli avvocati è facilmente comprensibile: un medico di base non possiede quelle “specifiche competenze” che la legge richiede per i consulenti tecnici del pubblico ministero: capacità “teoriche e pratiche” in una determinata disciplina, specifiche alla materia oggetto del processo: in questo caso, la chirurgia toracica. Il prof. Sartori, invece, sottolineano sempre gli avvocati, è sì un chirurgo toracico, ma è lontano da tempo dalla sala operatoria.
La Cassazione ha ribadito l’attendibilità di entrambi, dichiarando che, in ogni caso, sono di sua competenza solo le “ragioni di incompatibilità e incapacità” e non “la correttezza (o la opinabilità) della scelta di un soggetto capace e non incompatibile” (9). Peccato sia proprio la capacità di Squicciarini e di Sartori il nocciolo del problema, e non certo la correttezza o la opinabilità. Capacità che la Cassazione, come prima anche la Corte di appello, potevano testare proprio sul caso DP, per un interessante dettaglio.
Nella sua consulenza, Squicciarini scrive: “La paziente non è stata sottoposta a PET total body, né ad agobiopsia tac guidata che rappresenta l’iter diagnostico corretto standard” (10). Lo stesso afferma Sartori (11).
Dall’altra parte, il consulente della difesa prof. Giampaglia esprime esattamente le stesse valutazioni dei periti super partes: “La paziente è fumatrice, in sovrappeso, accusa dispnea da sforzo, tosse, broncospasmo per cui il pneumotorace, che è una complicazione frequente dopo FNAB, in queste condizioni si sarebbe presentato con una incidenza ancora maggiore. Specialmente per l’obesità, che impone un tragitto più lungo con maggiore difficoltà tecnica per raggiungere il nodulo bersaglio, e per la tosse che, se non riesce a trattenere durante l’esame, comporta oscillazioni traumatiche dell’ago con relativo traumatismo del parenchima polmonare” (12).
Quindi ci troviamo di fronte a consulenti dell’accusa che suggeriscono quella procedura (agobiopsia e/o agoaspirato) che i periti super partes hanno valutato come rischiosa per le condizioni specifiche del soggetto (obeso e fumatore). Con quale capacità hanno valorizzato – per citare un verbo caro alla Cassazione – gli elementi clinici del caso in questione? E la stessa capacità l’hanno applicata a tutti i capi di imputazione? Perché il disaccordo tra le valutazioni dei consulenti della difesa e quelli dell’accusa si è registrato su tutti i casi, non solo sul caso DP.
E ci troviamo di fronte, per l’ennesima volta, a consulenti della difesa – non solo il prof. Giampaglia ma anche il chirurgo toracico Ludwig Lampl (13) – che traggono le medesime valutazioni a cui sono giunti, successivamente e autonomamente, i periti super partes. Ma fin dal processo di primo grado, sono le consulenze della difesa, e non quelle della procura, a produrre nei giudici “un giudizio aspramente negativo sulla attendibilità delle loro conclusioni” (14 ).
Vi è poi la questione della competenza oggettiva delle consulenze dell’accusa, perché redatte senza aver visionato l’intera documentazione clinica, come esami effettuati precedentemente all’intervento chirurgico e immagini RX, TAC ecc. Su questo aspetto la Cassazione risponde: “Quanto infine alla doglianza della difesa a proposito di quelli che sarebbero stati i limiti obiettivi della conoscenza dei consulenti del pm, privi, a differenza della difesa, di materiale documentale sanitario ulteriore rispetto a quello sequestrato, è appena il caso di rilevare la assoluta genericità della doglianza” (15).
Anche su questo punto, grazie al caso DP, la Cassazione aveva modo di verificare quanto la ‘doglianza’ fosse tutt’altro che generica, e soprattutto fondamentale. Scrive Squicciarini nella sua consulenza: “Nella cartella clinica manca il referto TAC torace che potrebbe spiegare il perché, malgrado l’RX torace negativo, il chirurgo abbia deciso la via chirurgica per una lesione rivelatasi all’esame istologico un infarto emorragico polmonare (patologia priva di indicazione chirurgica)” (16). Ora: se, paradossalmente (per le conclusioni in merito che ha tratto la Cassazione), anche Squicciarini sembra avere presente quanto una TAC sia ben più dirimente di una RX, non sospende il proprio giudizio ma conclude che “il caso non era chirurgico” senza avere in mano quella TAC; né le precedenti, oggetto di follow-up; scrive infatti la propria consulenza analizzando solo quanto contenuto nella cartella del ricovero avvenuto dal 7 all’11 giugno, quando la specifica storia clinica della paziente inizia a marzo.
Nella medesima situazione si trova Sartori, che nella consulenza parla di “Vats immediatamente eseguita” e di “una certa fretta nel non attendere l’evoluzione spontanea del quadro clinico” (17).
È un aspetto tutt’altro che secondario, perché la Cassazione emette sentenza di condanna affermando che la mancanza di indicazione chirurgica rilevata dai consulenti della procura poggia sul fatto che non sono stati rispettati gli step diagnostici indicati nei protocolli clinici, che stabiliscono una successione di esami, dal meno invasivo al più invasivo; da qui, il giudizio di anticipazione dell’intervento, e dunque l’accusa di lesioni. Ma proprio su questo aspetto, come può essere considerata attendibile una consulenza redatta senza tutta la documentazione medica?
Nel caso DP, Squicciarini e Sartori evidenziano il fatto che non è stata fatta una agobiopsia, step diagnostico meno invasivo rispetto a una Vats, ma non era possibile effettuarla date le caratteristiche della paziente: i consulenti non avevano in mano i documenti da cui potevano ricavare le informazioni sul fatto che la signora fosse obesa e forte fumatrice? O la loro capacità non ne ha tenuto conto? Sartori parla di “fretta” e lamenta la mancanza di follow-up: ma per scrivere la consulenza, esattamente come Squicciarini, aveva in mano solo la cartella del ricovero di giugno, mentre la paziente era seguita da marzo.
Al contrario, i consulenti della difesa e i consulenti super partes avevano in mano tutti i documenti clinici, immagini comprese, e concordano sul fatto che il follow-up era già stato congruo – anzi, continuarlo sarebbe stata una scelta criticabile, secondo la perizia – e che l’agobiopsia non era praticabile. Quindi, quali step diagnostici non sono stati rispettati?
E poiché la documentazione in mano ai consulenti della procura era parziale per tutti i casi, esistono altri casi DP? Quanti? Quella perizia super partes che i giudici hanno sempre negato avrebbe potuto dare la risposta.
In conclusione, per quanto la verità fattuale sia sempre una verità probabilistica, come afferma Ferrajoli – anzi, proprio per questo – è evidente che in questo processo non si è fatto il possibile per accertarla; non è stato dato valore al dubbio, più che fondato; l’ipotesi accusatoria è stata apoditticamente assunta come vera, e ha funzionato, per citare ancora Ferrajoli, “da criterio di orientamento delle indagini, cioè da filtro selettivo delle prove – credibili se la confermano, non credibili se la contraddicono – e risultando perciò infalsificabile”.
L’interpretazione estensiva
Vi è poi l’aspetto della verità giuridica, ossia l’interpretazione delle leggi. La Cassazione ha confermato l’impostazione dei due precedenti gradi di giudizio secondo cui, data l’assenza di indicazione chirurgica (dedotta dalle consulenze della procura), lo scopo dell’intervento non era terapeutico. Si prefigura quindi il reato di lesione dolosa, per il quale non ha importanza dimostrare il dolo, né quale fosse il fine – la procura asserisce il profitto economico – perché una volta resa evidente l’assenza di fine terapeutico, “il dolo necessario e sufficiente per la configurazione del reato di lesioni […] è quello generico anche nella sola forma eventuale”, e dunque “non è necessario (proprio perché non è richiesto il dolo specifico) che sia individuata la finalità non terapeutica perseguita dal medico (che può anche non voler perseguire uno specifico fine) essendo invece sufficiente l’estraneità dell’intervento a ogni ipotizzabile scelta terapeutica indipendentemente dalla circostanza che l’agente ne persegua una specifica o che non ne esistano proprio” (18 ).
Questa interpretazione ‘risolve’ la questione spinosa delle intercettazioni telefoniche, che, come abbiamo più volte ribadito sulla base della loro lettura integrale, non contengono alcuna prova né del dolo né del fine economico – parlare di soldi non significa operare solo per soldi – e sono servite, con evidenti forzature interpretative e stralci sapientemente selezionati, per cucire addosso a Brega Massone un giudizio di ‘immoralità’.
Risolve anche la questione del profitto economico, altrettanto spinosa perché crea qualche problema di credibilità il fatto che un primario di chirurgia toracica abbia fatto tutto questo per circa 81.000 euro lordi, in tre anni, da dividere in tre, ossia Brega e i due aiuti dell’équipe. Perché è questa la valorizzazione economica della ‘truffa’ in capo ai tre medici sui casi di lesione oggetto del processo. Ed è significativo il fatto che i pubblici ministeri non si siano preoccupati di valorizzare quel profitto che ritenevano essere il movente, limitandosi a sventolare davanti ai giornalisti cifre da milioni in capo alla clinica Santa Rita, cifre che comprendevano truffe ipotizzate in altri reparti (la maggior parte delle quali non confermate in appello), ma, contemporaneamente, non abbiano mai contestato questo calcolo, effettuato dalla difesa Brega Massone conteggiando i Drg degli interventi effettuati. Quindi stiamo parlando di circa 22.300 euro lordi per il 2005, 36.300 euro lordi per il 2006, 22.400 euro lordi per il 2007. Dunque, a spanne, quanto? 13.000 euro al netto di imposte nel 2005, 20.000 euro nel 2006, 13.000 euro nel 2007. Da divide in tre.
Risolve anche un’altra questione scomoda: l’esistenza del presunto danno al paziente.
Ci troviamo infatti di fronte a un secondo problema di verità giuridica: il reato di lesioni, disciplinato dall’articolo 582 del codice penale, recita: “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi e tre anni”. Perché sussista il reato di lesione, dunque, deve sussistere anche la malattia da esso causata, una più o meno compromissione funzionale dell’organismo.
In questo processo nessuna malattia è stata dimostrata, perché i pazienti non sono stati visitati e dunque non è stato verificato se l’intervento chirurgico abbia o meno compromesso la loro salute; aspetto che è stato risolto, appunto, in un circolo vizioso, affermando che l’intervento è lesivo di per sé, per la sua mancanza di indicazione chirurgica. Lesivo, scrive la Cassazione, indipendentemente dall’esito fausto dell’intervento stesso – da un punto di vista diagnostico e/o terapeutico e/o palliativo – perché “il giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente” deve essere “ragguagliato anche alle ‘alternative possibili’ date dalla scienza medica” – i famosi step diagnostici – e indipendentemente anche dal consenso espresso dal paziente, perché “se il consenso del paziente costituisce uno dei presupposti di liceità del trattamento medico, la mancanza di un consenso opportunamente ‘informato’ del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale” (19).
Una simile interpretazione estensiva non può che creare difficoltà nella valutazione economica del presunto danno al paziente. Il tribunale di primo grado ha infatti raggruppato i casi in cinque fasce – da 50.000 a 80.000 euro – senza effettuare singoli calcoli in capo a ogni soggetto; non poteva fare altrimenti, essendo mancata la visita clinica e dunque la valutazione dell’eventuale danno subìto. Ora la Cassazione afferma, confermando gli importi, che non è necessaria una maggiore precisione e valutazione perché “il danno liquidato alle persone fisiche offese dai reati di lesioni è stato ritenuto essenzialmente nella tipologia ‘morale’” (20), per aver subito interventi chirurgici inutili e per il tradimento della fiducia che avevano riposto in Brega Massone.
La Cassazione quindi mette nero su bianco quel che già si sapeva: la signora DP non è l’unica a essere in buone condizioni di salute generali, come rilevato dai consulenti super partes che l’hanno visitata (21).
In questo processo, dunque, il danno causato dal reato di lesioni dolose è di tipo morale.
È questa la verità giuridica.
Il dottor Brega Massone è in carcere. Vi era anche prima. Arrestato nel giugno 2008, ha goduto della libertà per appena sei mesi. Ha dunque scontato quasi cinque anni di carcerazione preventiva. Ora sconta la pena definitiva. Le sentenze si possono criticare ma vanno rispettate, è il mantra che accompagna le inchieste giudiziarie. Ma verso una sentenza costruita in questo modo, si può portare rispetto? Da un punto di vista etico e intellettuale? Ciò che “delegittima la giurisdizione – afferma ancora Ferrajoli – è non tanto il dissenso e la critica, che non solo sono legittimi ma operano come fattori di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei giudici e ancor peggio la paura generate dalle violazioni delle garanzie stabilite dalla legge proprio da parte di chi la legge è chiamato ad applicare e che dalla soggezione alla legge ricava la sua legittimità”.
(1) Cfr. G. Baer – G. Cracco, E se il mostro fosse innocente? Controinchiesta sul processo a Brega Massone e sulla clinica Santa Rita, Paginauno edizioni, 2012, libro inchiesta basato sulla lettura integrale degli atti processuali. Attualmente in Corte di Assise è in corso un secondo processo, fotocopia e stralcio del precedente, nel quale il chirurgo e la sua équipe sono accusati di lesioni dolose per 46 casi e omicidio volontario per 4 casi; per la controcronaca delle udienze cfr. G. Cracco, controcronaca-Bregamassone-processo-assise.php
(2) Corte di Cassazione, Quinta sezione penale, Motivazioni sentenza n. 1965 del 22 giugno 2013, pp. 51-52
(3) Ibidem, p. 52
(4) Tribunale civile di Milano, Quinta sezione, causa R.G. 11678/2011, CTU Tentori-D’ambrosio del 5 agosto 2011. Sergio Tentori è specialista in Medicina legale e il dottor Gennarino D’Ambrosi è chirurgo toracico, Direttore Responsabile della Struttura Semplice di Chirurgia Toracica dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano e Professore di Chirurgia presso l’Università degli Studi di Milano. Qui per scaricare la perizia integrale in formato pdf: controcronaca-appello-Brega.php
(5) Ibidem, pp. 38-41
(6) Ibidem, p. 27
(7) Franco Giampaglia, chirurgo toracico, Direttore fino al 2006 del Dipartimento di chirurgia toracica all’ospedale Cardarelli di Napoli. Qui per caricare la consulenza in formato pdf: controcronaca-appello-Brega.php
(8) Tribunale di Milano, Procedimento penale n. 12570/08 R.G., udienza del 9 dicembre 2009, p. 130
(9) Corte di Cassazione, sentenza cit. p. 48
(10) Paolo Squicciarini, Consulenza tecnica, 29 febbraio 2008. Qui per scaricare la consulenza in formato pdf: controcronaca-appello-Brega.php
(11) Francesco Sartori, Consulenza tecnica, 31 luglio 2008. Qui per scaricare la consulenza in formato pdf: controcronaca-appello-Brega.php
(12) Franco Giampaglia, consulenza cit.
(13) Ludwig Lampl, Direttore del Dipartimento di chirurgia toracica alla Klinikum Augsburg. Qui per scaricare la consulenza in formato pdf: controcronaca-appello-Brega.php
(14) Tribunale di Milano, Quarta sezione penale, Sentenza N. 11584/2010 del 28 ottobre 2010, p. 75
(15) Corte di Cassazione, sentenza cit. p. 48
(16) Paolo Squicciarini, consulenza cit.
(17) Francesco Sartori, consulenza cit.
(18) Corte di Cassazione, sentenza cit., p. 62
(19) Corte di Cassazione, sentenza cit., pp. 58-59
(20) Ibidem, p. 65
(21) Cfr. Consulenza Tentori-D’ambrosi cit., p. 19: “Soggetto in buone condizioni generali”