La Funkhaus e la musica per spazi sonori risuonanti
Uno dei pochi vantaggi che si cominciano ad apprezzare quando si gira la boa dei 50 anni è che non possono più raccontarti delle stupidaggini – a meno che tu non sia vittima di un attacco di demenza senile precoce. Supponiamo allora che tu sia arrivato all’alba dei 51 e che i tuoi nipoti ti facciano ascoltare della musica genericamente elettronica oppure qualche musicista acustico, diciamo un pianista. Vogliono il tuo parere di adulto che ascolta tanta musica. Se ti va fatta bene potrai permetterti un sorriso, perché i tuoi nipoti hanno scoperto il Brian Eno di Music for Airports e nel secondo caso il Wim Mertens di Close Cover o Struggle for Pleasure – male che vada il Sakamoto di Merry Christmas Mr. Lawrence o giù di lì, o addirittura Moments in love degli Art of Noise. Buon per te, ma soprattutto buon per loro. Il virus della semplificazione non li sfiorerà neanche da lontano come non ha sfiorato te. Significa che sono pronti per una disillusione, quando scopriranno le molteplici clonazioni di quelli che hanno appena iniziato ad amare; e sono anche pronti per lanciarsi nella ricerca avida e preziosissima di qualche rara avis emergente da cumuli di spazzatura musicale.
Non è questione di snobismo, caro (ed eventuale) lettore insofferente: è questione di avere o non avere un’educazione musicale. Se ci pensi, tra un discorso di Andreotti o di Moro e uno di Berlusconi o della Gioggia de noantri, passa la stessa differenza che c’è tra, appunto, un Wim Mertens e Richard Clayderman o, in un tragico balzo di vent’anni, un Giovanni Allevi o Lodovico Einaudi. Non mi (ci) potete raccontare delle balle. Un volpone come Moro poteva fare (come ha fatto, da giurista sofisticato) un discorso da mal di testa ma con una sostanza politica. Leggi in profondità il Berlusca e che ti rimane? Sotto il vestito niente diceva un titolo. Ascolti Mertens e ti accorgi immediatamente della filiazione melodica del romanticismo aggiornata alla serialità delle celle musicali, che è la base del piano alto dei compositori contemporanei come Philip Glass, Terry Riley, Steve Reich; ma scopri anche la prossimità con compositori ‘neoromantici’ come Michael Nyman, Gavin Bryars, Glenn Branca. E fin qui tutto bene. Poi scopri che – non so se per cinismo o cosa altro – Mertens ha anche organizzato una parte della sua produzione su un versante decisamente ‘pop’, già da quel manifesto programmatico che fu l’album Maximizing the audience. Come dire: siccome la mia musica ‘vera’ e ‘buona’ non vende, sai che ti dico? Per massimizzare il pubblico bisogna semplificare: note sospese ma non troppo, pause non eccessivamente lunghe, anzi meglio se non ce ne sono, intervalli tonali telefonati nei quali il tuo inconscio anticipa la nota successiva e tira un sospiro di sollievo perché si sente rassicurato, in un ambiente acusticamente familiare, i cui nonni sono i jingle degli spot televisivi, che magari sono stati scritti da quello stesso compositore che si esibisce in teatro a cento euro a ingresso e ha uno Steinway gran coda a casa in salotto.
Ok, ok, stavo (quasi) scherzando, ma guardate che il mondo musicale è così, e non è migliorato man mano che la tecnologia ha preso piede. Anzi, devo dire che il numero di copie vendute da musicisti sponsorizzati da grandi produttori di tastiere elettroniche come Yamaha, Roland o Korg – due nomi per tutti: Yanni e Kitaro, già ai tempi della New Age di inizio anni ‘80 – testimonia senza possibilità di equivoco che il Grande Balzo verso la Semplificazione è in corso.
Semplificare. Che grande e infausto verbo…
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