Intervista d Giuseppe Ciarallo
Dio delle solitudini che conosci la beatitudine delle estasi superiori lasciaci pregare i nostri amori piantando le unghie nel mondo attraverso i furori del Dolore. Dio delle solitudini rispetta le nostre abitudini: la bestemmia delle passioni la sola preghiera degli uomini.
Ho conosciuto Paolo Vachino nel settembre 2008, quando entrambi fummo chiamati da Stefano Tassinari a far parte, insieme a una nutrita schiera di scrittori, poeti e intellettuali provenienti da tutto lo Stivale, del collettivo che diede vita, nella prima metà dell’anno seguente, alla rivista Letteraria. Ecco, tra le tante cose che mi faranno essere sempre riconoscente a Stefano, c’è anche e soprattutto l’opportunità che mi ha fornito di entrare in contatto, per poi diventarne fraterno amico, con Paolo Vachino. Nato a Ivrea nel 1965, Paolo si è trasferito a Rimini, dove vive da molti anni e, tra le mille altre cose, svolge la professione di avvocato.
Vulcano in continua eruzione, instancabile affabulatore, oltre a produrre versi a ritmi forsennati, scrive per varie riviste, conduce Laboratori di scrittura – anche all’interno di diverse carceri – ha dato vita nella sua città d’adozione ai Mercoledì letterari, collabora con La Fabbrica dell’Esperienza, fondata e diretta da Irina Casali e Alessandro Zatta, esegue ritratti poetici insieme al Maestro di Macchie Claudio Jaccarino, è attivista nel Corpo nonviolento e di pace Operazione Colomba e, elemento da non sottovalutare, visto che compare in tutte le sue note biografiche, “nel 1990 ha vinto un torneo di ping pong”.
Di seguito, la sua produzione letteraria: L’animale sa l’anima lesa (I quaderni di Rablè, 2007), Rimando continuo (Rablè Indie-Book.it, 2010), Sirene per naufraghi di terra (Editori della peste, 2013), Il ragno e la mosca – dialogo sulla libertà (con Alberto Ramundo) (Italic, 2014), La via lattea degli ubriachi (La memoria del Mondo, 2014), Schiere di sogni in scia (Editori della peste, 2016).
Dunque, Paolo, parliamo di poesia e di poeti. Devo dire che questi due termini mi hanno sempre dato inquietudine per l’immensità che esprimono. Pur scrivendo componimenti non ho mai avuto il coraggio di qualificare i miei versi poesia. Quindi, per imbrigliare/imbrogliare il mio ego ho trovato una neutra e rassicurante definizione per la mia attività lirica: artigiano del verso, sempre accompagnata dal vezzoso aggettivo ‘onesto’. Tu, che invece hai creato per te un apposito neologismo, verbiscalco, quando hai scoperto la tua vena poetica e che rapporto hai con la poesia?
Sai Beppe, più che una vena poetica credo di avere scoperto – tanti anni fa – un vano poetico, una stanza vuota, dove si apre un’attesa, direi inquietantemente serena, della parola. Una parola che provi a dare forma al tumultuoso incedere della vita, della mia vita, di quello che mi accade, che sento, che penso, che inseguo. Quindi, sono pervaso di stupore e di gratitudine ogni volta che quella stanza, quel vano, si trasforma in una vena dove fare scorrere una linfa di parole. Mi chiedevi del verbiscalco… Il verbiscalco è l’operaio che attende alla ferratura delle parole. Così come si ferrano i cavalli per rendere più agevole il loro trotto, il loro galoppo, stessa operazione va fatta con le parole, per farle correre, cercando di domare le loro ritrosie e fare in modo che non si spengano, non ammutoliscano, non recalcitrino. Ecco, il verbiscalco è colui che accompagna le parole al caldo della stalla interiore.
Vorrei che ci parlassi ora della particolarissima tecnica da te utilizzata, poco comune, detta rimalmezzo (o rima al mezzo), e della tua passione per i giochi di parola, attuati spezzando, assonando, stravolgendo il significato di termini e locuzioni (il segno dell’atroce, laureato con centodieci e frode, D’io, discocieca, Terra promessa non mantenuta…).
La mia idea di poesia, di parola poetica, è innanzitutto una realtà ed è inscindibilmente legata alla musicalità e al ritmo delle sillabe. La parola poetica convoca sempre a un appuntamento. È un richiamo. Deve contenere tutta la forza della semplicità di significato e allo stesso tempo la potenza di uno squillo di tromba che riscuota dal torpore – fisico e metafisico. Forma e sostanza. La poesia è il pane di tutti, il primo balbettio dell’uomo che incontrando un suo simile lo ha chiamato a sé, attraverso la genuinità di un’invocazione: Fermati, Chi sei?, Dove stai andando? Portami con te, sino all’endecasillabo che consente persino la nostra riproduzione – Ho voglia di fare l’amore con te –.
La parola è gioco perché ha bisogno dell’altro per essere giocata. Se il poeta è paragonabile a un cuoco che cucina assemblando elementi, io non sarei mai uno chef, ma una mamma di campagna che vuole solo nutrire e sfamare i propri figli, cercando semmai in ogni pietanza di introdurre – a sorpresa – un nuovo sapore. Una cucina senza ricette, perché qualità e quantità servono a placare i morsi della fame e non a stuzzicare svogliati spuntini. Per quanto riguarda la rimalmezzo… questa tecnica fa sì che la parola finale di un verso faccia rima con una parola posta nel mezzo del verso successivo. Meno rigida di una rima alternata o di una rima baciata, la sento molto più naturale e appropriata per le mie poesie, dove le parole devono sempre muoversi in completa libertà.
Oltre alla tua produzione letteraria sei impegnato in una serie di Laboratori di scrittura poetica. Ti faccio l’annosa domanda alla quale non si è mai riusciti a dare una risposta definitiva e del tutto convincente: ma è possibile insegnare a scrivere poesia?
Insegnare a scrivere poesia non si può, ma il contrario sì: la poiesis dello scrivere; quello che i greci chiamavano poiesis – il fare dal nulla, cioè – il fare dal nulla scrittura. Nei miei laboratori cerco di trasmettere il desiderio verso la parola scritta che provo io ogni giorno. Le mie giornate abbondano di animalesche narrazioni, sono un instancabile affabulatore, un contastorie. L’oralità è immediatezza che necessita dell’approdo all’Altro, attraverso il ponte della comunicazione. Scrivere, invece, è nuotare sotto quel ponte, un’attraversata lenta, immersi in un altro elemento – quello liquido dell’acqua – in cui si ha tutto il tempo di pensare a ogni bracciata, a ogni respiro, il senso di quell’andare.
Io insegno solo a contemplare la possibilità di un’altra via rispetto al comodo attraversamento sul ponte: tuffarsi nell’acqua (spesso gelida) del fiume della scrittura. A partire dalla quinta elementare tutti sappiamo stare a galla grazie al salvagente dell’alfabeto, ma è solo tuffandosi che ci rendiamo conto se abbiamo la forza e la determinazione di nuotare verso l’altra riva. Poi ognuno è libero d’inventarsi il proprio stile, a seconda dell’urgenza dell’attraversata.
A proposito, come detto, alcuni dei Laboratori di scrittura sono da te tenuti a detenuti (perdoni il lettore questo bisticcio di parole, impossibile da evitare chiacchierando con Paolo Vachino) all’interno di alcuni istituti penitenziari. Ti va di parlarci di questa esperienza?
La poesia in carcere è un’esperienza straordinaria su entrambi i versanti. Il detenuto scarica (rilascia) nella parola tutta la violenza del suo sentirsi recluso. Ogni parola è testamentaria e testimoniante il limite. I carcerati secernono ed eruttano poesia. È il loro surrogato di libertà. Una nuova forma di respiro nell’apnea di una cella. In carcere, quindi, porto l’ascolto profondo di quelle preghiere telluriche che anelano all’assoluto. È una parola che cura e si prende cura. E lo sento come un atto doveroso verso persone cui spesso non viene tolta solo la libertà ma anche la dignità. La poesia restituisce loro la dignità di un’espressione e di un ascolto. Il carcere è il contesto dove la poesia raggiunge i picchi più alti di intensità umana.
So che nella tua vita ci sono state delle figure fondamentali per lo sviluppo della tua ricerca artistica e umana. So anche di una strana storia di adozione al contrario…
Questa domanda mi offre l’opportunità di manifestare pubblicamente la mia riconoscenza verso persone che, oltre ad avermi fatto dono della loro amicizia profonda, sono state anche i miei maestri. Claudio Castellani, per avermi insegnato davvero che un maestro deve creare dei perfetti autodidatti; Stefano Tassinari, per avermi cercato guardando in basso, dove entrambi abbiamo trascorso tutta la nostra vita di lotte e di resistenza; Erri De Luca, per ricordarmi ogni volta che prima viene l’uomo e poi il poeta; e Renzo Casali, che ho adottato come padre perché il suo magistero è stato proprio quello di dirmi – per primo, con vigore e semplicità disarmanti – che sono un poeta e che di questo la mia vita dovrà essere piena.
E il caso ha voluto che nel momento stesso in cui lo sceglievo – anche – come padre, lui stava morendo di cancro, non prima però di avermi investito di un’eredità artistica: portare avanti i suoi laboratori di scrittura nel teatro da lui fondato e trasmesso cromosomicamente alla sua primogenita vera, Irina, per dare seguito al capitale immenso della sua genialità creativa.
Un aspetto della tua vita che ti arricchisce umanamente e – a leggere i tuoi lavori – ti offre molti spunti per la scrittura delle tue poesie, è rappresentato dall’essere attivista in un movimento nonviolento che opera in luoghi del mondo martoriati dalle guerre per diffondere parole e pratiche di pace…
Operazione Colomba è il Corpo civile di pace in cui la persona che amo – Ale – vive a tempo pieno come volontaria. Lei mi sta facendo capire – giorno per giorno, non solo nei luoghi del mondo in cui è presente Operazione Colomba ma soprattutto nel quotidiano – cosa sia la tensione autentica alla nonviolenza, una condizione impermanente che implica in ogni occasione il rinnovo di una scelta. In questo atteggiamento ho riscontrato una grande affinità con la mia idea di poesia: un fare comunità attraverso la forza dello stare insieme agli oppressi, a quelli che scelgono di portare avanti una lotta nonviolenta, assente di ogni odio verso il nemico e della voglia di vendicare i torti. La nonviolenza è il gesto superlativo e assoluto di chi imbocca la via del perdono, è il riscatto del gesto debole nei confronti di chi si sente forte solo della sua violenza. È il gesto che quasi sempre non ha bisogno di essere accompagnato dalle parole. La forma più alta di poesia cui l’uomo possa ambire e che io cerco di lambire attraverso l’umiltà, la pazienza e la speranza.
Nel 2016 è stata pubblicata la raccolta Schiere di sogni in scia. Raccontaci qualcosa di questo tuo ultimo lavoro…
Credo che la cosa migliore sia estrarne qualche verso:
In una calda trincea di pace viviamo nel lamento di altri lamenti espiamo tormenti stranieri, i volti come lapidi nei cimiteri.
Appendice
A proposito di neologismi, POESISTERE sarebbe affrontare un’esistenza intrisa di Poesia. Per me oggi ‘fare poesia’ significa scendere dai piedistalli delle illuminazioni museali e guardare l’umanità da un’altra prospettiva: dal basso verso l’alto, cercando tra le pieghe della terra le piaghe e le ustioni di questa umanità in preda a una combustione non solo atmosferica, che non solo ozonobuchizza i cieli, e squacqueronizza iceberg articoantartici, ma soprattutto i corpi e le anime, in preda a liquefazioni monetarie e veteroschiavistiche.
‘Fare poesia’ è distendersi nella parte escrementale del mondo, nuotare tra pus e infezioni, inzuppando in quell’impasto tutte le parole a disposizione, che devono grondare non tanto di dolore, ma del suo superamento; occorre abbandonare a poco a poco le lamentazioni autistiche, la garrulità di certe tristezze passeggere, e provare a parlare di ecatombe delle mozioni, di catastrofi d’amore; le parole devono esortare a guardare l’altra riva, vedere nei rivali un orizzonte di salvezza; devono semplicemente raggiungere la prossimità di un ascolto, ma di un ascolto desiderato e non coatto, come nei rituali della comunicazione. La poesia non comunica. La poesia raggiunge. Entra. Scava. Infetta. Produce anticorpi e alla fine accompagna alla guarigione. La poesia non riguarda il destino di chi la scrive, ma di chi la incontra. Il poeta non ha alcun diritto di cittadinanza terrena. Ha solo diritto di parola. Per questo non necessita di anagrafie spaziotemporali, di biografie sommarie.
Il poeta bussa con le parole alle porte degli uomini, e chiede di dare loro – alle parole – ospitalità. Tutto il resto può rimanere fuori. Deve rimanere fuori. Fare Poesia significa mettersi in ascolto di tutti i respiri che si incontrano, ascoltare mantici polmonari in cui scorre tanta vita, come avvertire piccoli inceppi o sibili tra gli alveoli; significa trasformarsi in aria ed entrare in circolo con i sangui, e pompare dentro tutta la vita che c’è, milioni di globuli rossi di parole.
I poeti non si servono delle parole come dei boomerang di senso, lanciati nell’aria per attendere il loro rientro, consistente alla fine nella bravura dell’acciuffo per mano. Il poeta non rilegge, non si interessa delle parole che scrive. Sono doni. Non prestiti. Ma soprattutto le parole non devono avere alcun marchio di fabbrica. Sono di tutti le parole dei poeti, perché nascono pensando a tutti. Non esiste diritto d’autore, ma di fruitore. Il poeta scrive come respira; rima come mastica; cerca parole nel pentagramma dell’amore per la vita. Non si scrive per calmare il proprio dolore. Si scrive semmai per procurare all’altro lo stesso dolore. Ma non per sadismo, ma per una guarente omeopatia degli affetti e dei sentimenti, che sarebbero stati il sale dell’umanità se non esistessero i sentimentali e i sentimentalismi.
La Poesia è essere forti di fronte alle debolezze del mondo, e non il contrario, indeboliti dalle sopraffazioni del reale. I poeti sono la parte più aspra, feroce, dura e petrosa della dolcezza dell’essere. Vivere la cattività della parola significa amare ancora di più la Libertà che la Vita ci mette a disposizione.
POESISTERE: affrontare un’esistenza intrisa di Poesia.
(da Sirene per naufraghi di terra, Paolo Vachino)