La politica della paura e del controllo
In occasione delle festività natalizie del 2005 i cittadini di New York si sono visti recapitare una cartolina a firma del sindaco Bloomberg: non conteneva sereni auguri di buon Natale né auspici di felicità per l’anno nuovo, bensì istruzioni per la propria personale sopravvivenza in caso di attacco chimico, biologico o batteriologico.
Tra le proposte per contrastare “il crescente pericolo derivante dall’islam radicale” sfornate a gettito continuo dal governo laburista guidato da Tony Blair, vi è quella di investire gli insegnanti universitari di compiti di controllo sugli studenti di origine asiatica e/o mussulmani, e passare le informazioni acquisite – per esempio tramite una stretta vigilanza sull’uso che tali studenti fanno dei computer nei campus – alla polizia.
“Se vedete qualcosa, dite qualcosa.” citava un manifesto appeso, nel settembre 2004, a ogni angolo della metropolitana di New York; “Se vedete pacchetti o attività sospette sulla piattaforma o sul treno, non tenetevelo per voi; chiamate subito la Terrorism Hotline 1-888-NYC-Safe”.
Nelle metropolitane e nelle città italiane, invece, Milano, Roma, Napoli e Torino, corpi speciali, vigili del fuoco, ambulanze, poliziotti, si esercitano all’efficienza e alla rapidità in caso di attacco terroristico – con tanto di finti morti e finti feriti – dando grande enfasi mediatica alle operazioni.
Uno spot elettorale del partito Repubblicano per le elezioni dello scorso sette novembre riprendeva un filmato in cui i capi di Al Qaeda, Bin Laden e Al Zawahri, si esibivano in dichiarazioni minacciose contro gli Stati Uniti; a sfondo sonoro il ticchettio angoscioso di una bomba e la relativa esplosione alla fine dei proclami di guerra; la dichiarazione elettorale finale citava: “Questa è la posta in gioco. Voto del sette novembre”.
E ancora: “Votate come se ne dipendesse la vostra vita. Perché è così”. Altra pubblicità elettorale repubblicana, a cui la macchina elettorale democratica rispondeva: “Al Qeada ci colpirà ancora a causa del fallimento delle politiche di George Bush”.
Tracey Schmitt, portavoce del comitato nazionale repubblicano, ha risposto alle accuse di uso di toni allarmistici mosse dal partito Democratico (da quale pulpito, appunto!), dichiarando: “Proprio come durante la guerra fredda, la nostra nazione è in guerra con un’ideologia e non con un paese”.
Nel 1964 uno spot elettorale del partito Democratico entrava nelle case americane, mostrando una dolce bambina che sfogliava i petali di una margherita contando da uno a dieci; una voce fuori campo contava da dieci a zero, fino all’esplosione di una bomba atomica. A concludere, le parole del candidato Lindon Johnson: “La posta in gioco è un mondo in cui i bambini di Dio possano vivere o sprofondare nelle tenebre. Dobbiamo scegliere se amarci o morire”.
Si era in piena Guerra Fredda, e in piena guerra al Vietnam; Lindon Johnson conquistò la presidenza degli Stati Uniti.
Siamo in grado di distinguere cosa è reale e cosa non lo è?
Per saperlo possiamo solo affidarci all’informazione, stampata e televisiva. Ma quale informazione? Quella programmata da Pio Pompa nell’ufficio di Via Nazionale (tuttora attivo?!) con la collaborazione di foreste di betulle?
Incaponendosi a seguire gli sviluppi delle notizie e delle inchieste, attraverso canali di quella che l’etica ufficiale definisce controinformazione, è possibile arrivare a scoprire quanti attentati sventati dai vari servizi segreti, quante cellule in sonno di terroristi islamici scoperte sul territorio italiano, quante scuole di kamikaze, quanti legami presunti di Imam con la rete di Al Qaeda, si rivelano essere delle bufale: il fallito attentato al ricino del gennaio 2003 nella metropolitana londinese, la bomba chimica denunciata da Aznar il cinque febbraio 2003, l’attacco missilistico agli Stati Uniti che innalza il livello d’allarme allo stadio arancione nel febbraio 2003, tre giorni dopo il discorso di Colin Powel all’ONU sulle prove della presenza di armi di distruzioni di massa (prove rivelatesi false anch’esse) nell’Iraq di Saddam Hussein; l’atomica sporca che minaccia gli Stati Uniti, sempre per bocca di Colin Powel, il dieci febbraio 2003; il rischio di un attacco aereo terroristico “simile se non peggiore di quello dell’11 settembre” annunciato dalla Homeland Security Usa il ventuno dicembre 2003; lo sventato attentato ad alcuni grattacieli di Los Angeles del 2002, rivelato dal Presidente americano George Bush nel febbraio 2006. Tutte notizie che a distanza di mesi si sono rivelate infondate; inesistenti!, dagli stessi servizi che ne hanno seguito le indagini.
Nel frattempo, la cittadinanza vive nel terrore.
Un’inchiesta realizzata dall’università del Maryland nell’ottobre 2003 ha rivelato: il 60 percento degli americani (l’80 percento di coloro che guardavano Fox News) credevano ad almeno una di queste verità: abbiamo scoperto armi di distruzione di massa in Iraq; esistono prove di una alleanza tra Iraq e Al Qaeda; l’opinione pubblica mondiale sostiene l’intervento americano in Iraq.
Una recente ricerca sull’intolleranza, commissionata dall’Unione Comunità ebraiche italiane all’università di Roma La sapienza, ha rivelato che su un campione di 2.200 ragazzi tra i 14 e i 18 anni, più del 50 percento affermano che i mussulmani hanno “leggi crudeli e barbariche” e “sostengono il terrorismo internazionale”.
Il diciotto dicembre 2006 si è rappresentata a Berlino la prima replica dell’Idomeneo di Mozart, dopo le polemiche che nei mesi precedenti avevano accompagnato la decisione dell’intendente della Deutsche Oper di cancellare l’ultima scena dell’opera – in cui Idomeneo estrae da un sacco le teste insanguinate di Gesù, Buddha, Maometto e Poseidone – per paura di reazioni violente da parte del mondo islamico; per paura, non a causa di minacce ricevute. Decisione a cui era seguita una giusta levata di scudi da parte del mondo culturale in difesa dell’integrità dell’opera. Il mondo mussulmano censura la cultura, censura addirittura Mozart!, è stato il messaggio trasmesso dai media indignati; non un solo ragionamento sul fatto che la reazione era seguita a nessuna azione, ma a un ormai diffuso senso di paura che pervade la nostra società.
Cosa è reale e cosa non lo è?
In una società in cui la politica è divenuta biopolitica, in cui il popolo è divenuto popolazione da governare facendo leva sul desiderio, come già evidenziava Foucault nelle sue lezioni al Collège de France nel 1978, la realtà è ciò che ci rimanda la televisione. L’impatto visivo è lo strumento più potente ed efficace per plasmare le menti, e quindi i desideri. Non solo attraverso ciò che viene trasmesso, ma anche e soprattutto attraverso ciò che si sceglie di passare sotto silenzio. Ciò che appare in televisione crea il pensiero collettivo, che non è la somma e il confronto di pensieri individuali dal basso ma è un unico pensiero dall’alto che le singole persone fanno proprio, divulgandolo a propria volta. La televisione diventa il nostro unico referente: ci dice chi siamo e soprattutto, chi dovremmo essere; ci dice cosa è importante e cosa non lo è; ci descrive il mondo in cui viviamo, non solo quello geograficamente lontano da noi e che quindi non possiamo conoscere attraverso la nostra personale percezione, ma anche e soprattutto ci spiega, interpreta per noi, l’universo che quotidianamente viviamo; ci dice chi sono gli altri: analizza e codifica per noi il nostro vicino di casa, il ragazzo nord africano seduto accanto a noi nella metropolitana, la donna velata che incrociamo al supermercato a cui mai ci sogneremmo di rivolgere la parola (a quale scopo, sappiamo già tutto di lei, la televisione ci ha informati!).
L’industria cultura cinematografica americana, egemonica, ha sempre fatto e continua a fare la sua parte. È perfino imbarazzante scoprire le analogie tra l’attuale guerra globale al terrorismo e il ciclo di film degli 007 tratti dai romanzi di Ian Fleming: gruppi terroristici senza nazione incarnanti il male assoluto cercano di distruggere il nostro mondo civile impossessandosi di armi di distruzione di massa; a difenderci l’eroe dei servizi segreti a cui l’industria militare dà in dotazione la migliore tecnologia offensiva, e a cui lo spettatore perdona l’uso di metodi illegali e poco ortodossi, dall’omicidio al doppio gioco; l’ignobile nemico, con cui è impossibile dialogare, deve morire.
Difficile sfuggire al grande e al piccolo schermo che, invasivi, ma nemmeno tanto subdoli, diventano un referente collettivo che crea per noi un’unificante condizione allucinatoria che ci precipita nel terrore e nella paranoia: l’altro, il diverso da noi, è pericoloso per la nostra incolumità e per la nostra civiltà libera e democratica.
Paranoia, nel termine originario greco, napàvoia, significa autoreferenziale. Emil Kraepelin, a inizio del ‘900, usò il termine paranoia pura, in psichiatria, per descrivere una malattia mentale la cui unica o principale caratteristica era una condizione allucinatoria senza alcun apparente deterioramento delle facoltà intellettuali; qualsiasi tipo di allucinazione, non per forza di carattere persecutorio. Nella scienza psichiatrica il significato del termine è mutato nel tempo, e ora la definizione di paranoia pura non è più utilizzata. Nel senso comune il termine è oggi usato a indicare una convinzione persecutoria nei propri confronti; il concetto di autoreferenzialità, quindi, è rimasto.
Referenzialità che da cinquant’anni, ancor più dal settembre 2001 (quante volte sono state trasmesse le immagini dei due aerei che entrano nelle Torri Gemelle? Quante volte l’immagine barbuta di Bin Laden aggrappato al fedele mitra? Che dire delle sconcertanti immagini dell’esecuzione, per impiccagione, di Saddam Hussein?), trasmigra da noi stessi al mezzo televisivo.
Oedipa Mass, la protagonista del romanzo L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon, si scopre nominata esecutrice testamentaria dei beni di Pierce Inverarity, misterioso miliardario californiano a capo di un impero economico le cui attività spaziano nei settori più diversi – dalla speculazione edilizia all’industria aereospaziale. Cercando un ordine, una verità, un senso, nascosto nel lascito testamentario, Oedipa si imbatte in un crescendo allucinatorio nel simbolo del Tristero, il corno da postiglione che visto per la prima volta disegnato sulle pareti di un bar – l’Ambito – finisce con il scorgere, o il cercare, ovunque (quale il soggetto dell’azione? È lei che cerca il simbolo o è il simbolo che trova lei?): dipinto su un’insegna, tracciato con il gesso sul marciapiede, impresso su francobolli non emessi (oppure sì?) da nessun servizio postale ufficiale, cucito sulle giacchette di un gruppo di delinquenti minorili, inciso sulla spalliera di un sedile di autobus, tracciato da una giovane messicana su un vetro appannato, scarabocchiato da un giocatore di poker sul libriccino accanto al lungo elenco delle cifre che regolarmente perde al tavolo da gioco. È reale? È allucinazione? “Sotto il simbolo che aveva ricopiato dalle pareti dei gabinetti dell’Ambito nel suo promemoria, scrisse: progetterò un mondo?”
Nel corso del romanzo, ciò che Emil Kraepelin avrebbe definito paranoia pura si trasforma in una convinzione persecutoria.
Oedipa perde ogni riferimento con la sua precedente vita – “Dov’era andata a finire l’Oedipa che era venuta da San Narciso fin lì?” – perde quell’equilibrio già precario su cui si sforzava di poggiare la propria esistenza (una casa, un marito, i ricevimenti Tupperware, un analista, i whisky sour tardopomeridiani) e viene catapultata in un universo in cui tutto sembra prendere vita e senso intorno al misterioso Tristero, un sistema di comunicazione segreto e alternativo alle poste governative, risalente alle lotte medioevali contro il sistema postale dei Thurn und Taxis del Sacro Romano Impero. Incontra personaggi ambigui e sfuggenti che anziché aiutarla a fare chiarezza aprono ognuno possibilità, verità differenti, universi paralleli, tutti, allo stesso modo, credibili. Sullo sfondo musicale creato da un gruppo di giovani che si fanno chiamare “I Paranoici”, Oedipa si ostinerà a cercare un ordine e una verità, incapace di uscire dal vortice creato dall’ossessione per il corno da postiglione, simbolo del sistema R.I.F.I.U.T.I. che sembra tenere in contatto reti di persone tra loro più disparate, apparentemente disadattate, in realtà il normale prodotto di una società dominata dalla paura. “Il corno del postiglione non mancava mai di decorare ogni alienazione e ogni specie di isolamento”: inventori pazzi, reiterati suicidi per mal d’amore, anarchici, ribelli a un sistema in nome di non si sa cosa. “Un segno è quello che è,” dice Oedipa; ognuno ci vede ciò di cui ha bisogno, o ciò di cui pensa di aver bisogno; ognuno lo riveste della propria personale verità.
Personale?
In una società in cui è ancora possibile essere referenti di una propria personale verità.
Non è già più questa la società in cui si muove Oedipa, in un epoca storica dominata dalla paura, dalla Guerra Fredda, dalla psicosi collettiva.
“Le è mai venuto di pensare, Oedipa, che qualcuno la sta prendendo in giro? Che è tutta una farsa, un’invenzione allestita da Inverarity prima di morire? Ci aveva pensato, ma come il pensiero che prima o poi sarebbe morta, Oedipa s’era rifiutata di considerare quella possibilità direttamente o se non nella più accidentale delle luci. No – disse – è ridicolo”. Oedipa controlla l’inventario del patrimonio di Inverarity: di sua proprietà ogni attività economica, culturale ed educativa con cui è venuta in contatto inseguendo il simbolo del corno da postiglione. Come una istituzione onnisciente (lo Stato? “Oedipa si era dedicata, settimane e settimane fa, a dare un senso al lascito di Inverarity e mai aveva sospettato che quell’eredità si chiamava America”) Pierce Inverarity cala dall’alto un intero mondo in cui Oedipa vive e si dibatte, incapace di stabilire quale sia la verità: un sogno? Un complotto da lei scoperto per caso, e quindi divenuto pericoloso per la sua stessa incolumità? Uno scherzo dell’ex amante? O è semplicemente malata di mente, vittima di una allucinazione, divenuta paranoica?
In ogni caso, Oedipa non lascerà più questo mondo; senza più un marito – Wendel Mucho Maas, divenuto amabile, gentile, pacifico, sereno, grazie all’LSD – senza più un analista – il Prof. Hilarius, portato via dentro una camicia di forza, vittima della sua stessa paranoia generata da un passato a Buchenwald che lo perseguita nella colpa e nei ricordi – Oedipa si reca all’asta in cui è messo all’incanto il Lotto 49, l’intera collezione di francobolli di Pierce Inverarity, per avere la quale un offerente segreto sembra disposto a pagare qualsiasi cifra. Un segreto membro del Tristero? Non lo sapremo mai. La verità: la si scopre mai?
Incanto: un banditore mette all’incanto un oggetto in vendita; ma anche fascinazione, rito magico, chi lo esercita annulla la volontà altrui e di conseguenza la sua capacità di agire.
Possiamo forse dire che la paranoia e il terrore in cui ci dibattiamo oggi è una forma di incanto?
Nessuno nega il prezzo in vite umane civili, in occidente, oriente e Medio Oriente, pagato agli attentati e alle guerre; ma a quale scopo uno Stato, complici i media che creano la pubblica opinione, anziché tranquillizzare i propri cittadini alimenta, con costanti toni allarmistici, una paura collettiva? Quale motivazione si nasconde dietro l’incantamento ordito sopra di noi?
“La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.” 1984, George Orwell.
La guerra globale al terrorismo del XXI secolo giustifica un sempre più invasivo controllo sulle nostre vite: riconoscibilità, tracciabilità, sono diventate la parola d’ordine, in nome della quale accettiamo cose che prima del settembre 2001 avremmo ritenuto inaccettabili invasioni nella nostra vita privata e nei nostri diritti civili: telecamere che ci riprendono a ogni angolo di strada, impronte digitali sui documenti di identità, costituzione di banche dati del DNA, saremo probabilmente disposti anche a farci impiantare un chip sotto pelle per sentirci più sicuri! Diteci dove andate in vacanza, ci chiede a fine luglio l’ufficio della Farnesina, compilate il questionario che trovate sul sito internet e aiutateci così a trovarvi in caso di emergenza. Emergenza terroristica, s’intende. E tutto accettiamo per poter dimostrare di far parte dei buoni: chi non ha niente da nascondere non deve temere di essere riconosciuto e trovato, ci dicono. “La libertà è schiavitù”.
Tutto in nome della vostra sicurezza. Perché è questo che ora i cittadini terrorizzati chiedono: sicurezza in questo mondo divenuto pericoloso. Pace, a qualsiasi mezzo. Tristemente, in Italia, Piazza Fontana e la strategia della tensione avrebbero già dovuto consegnarci la chiave di lettura per interpretare una simile dinamica di potere, sempre uguale a se stessa.
Quella dinamica in cui le leggi già esistenti non bastano più, quelle leggi formulate in rispetto dei diritti civili e umani sanciti da istituzioni internazionali affinché brutalità e abusi non potessero mai più accadere in una società che si definisce civile; occorrono nuove leggi speciali, che isolando un contesto creano in realtà uno spazio legale di illegalità, uno spazio, per di più, che un cittadino che ritiene se stesso normale e non speciale (e quindi tutti i cittadini), accetta nella più assoluta indifferenza: le leggi speciali non mi riguardano, pensa.
E la guerra cessa di essere (lo è mai stata?) il proseguimento della politica con altri mezzi, secondo la celebre definizione di von Clausewitz, ma diviene la base stessa della politica. In un gioco di parole forti ed evocative, George Bush nel discorso sullo Stato dell’Unione del ventinove gennaio 2002 introduce la definizione di Asse del male, un insieme di paesi con i quali gli Stati Uniti si rifiutano di avere rapporti diplomatici; unione concettuale del famigerato Asse – l’alleanza militare tra il Giappone imperiale, la Germania nazista e l’Italia fascista – e la definizione di Reagan dell’Unione Sovietica come Impero del male. In un gioco di parole forti ed evocative, viene creata la definizione di fascismo islamico, dopo che per cinquant’anni gli storici si sono interrogati se non sia stata anche la debolezza e la riluttanza a usare le maniere forti da parte dei paesi europei, già scossi dalla guerra del ’15-’18, a contribuire allo scoppio della Seconda Guerra: Hitler poteva essere fermato, finché si era in tempo? E la guerra del XXI secolo diventa preventiva; tutto diviene preventivo, termine rubato al campo medico e scopertosi centrale nel settore della sicurezza. Prevenire è meglio che curare. Contingenti di pace armati della migliore tecnologia militare offensiva affiancano il gendarme americano, garante della pace mondiale a nome di tutto il mondo neoliberista; e se l’articolo 11 della Costituzione Italiana ripudia la guerra, basta cambiare terminologia. “La guerra è pace”.
Politici che mai hanno letto il Corano si ergono dai condiscendenti pulpiti televisivi a spiegarci la violenza dell’islam, l’incitamento alla Guerra Santa contenuto nel libro sacro dell’Islam, l’oppressione della donna ivi intesa come dogma. Sui quotidiani, lunghi editoriali ci illustrano quanto sia un ossimoro in termini definirsi mussulmano non integralista; il Papa stesso ci insegna cosa è l’islam, in una Lectio Magistralis da Ratisbona.
Quale cittadino leggerà mai il Corano allo scopo di verificare la veridicità delle affermazioni profuse dal potere che lo governa?
Sotto la definizione di terrorismo islamico viene fatta convergere l’identità di gruppi e movimenti dagli obiettivi più diversi, spesso territoriali e anticoloniali – Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i ribelli indipendentisti in Cecenia – e complice il revisionismo storico – o la menzogna spudorata o il silenzio – l’opinione pubblica viene portata a credere a un complotto islamico per la conquista e l’egemonia del mondo. “L’ignoranza è forza”.
Ma quello che Orwell aveva immaginato in uno stato autoritario e repressivo necessita di altri mezzi in uno stato democratico. Un sistema democratico impedisce l’assunzione di decisioni politiche impopolari, da parte di chi governa; la democrazia necessita di consenso, ma non lo crea. Perfino un Presidente acclamato e benvoluto come Roosevelt non fu in grado di sviluppare una politica estera antifascista contro l’opinione dell’elettorato: difficilmente, senza Pearl Harbor, gli Stati Uniti sarebbero entrati nella Seconda Guerra Mondiale.
In democrazia bisogna agire sui desideri e sulle paure dei cittadini, di modo che siano essi stessi a chiedere un cambiamento; oggi, vittime della paranoia e della paura, le persone svendono libertà in cambio di sicurezza e diritti politici e civili in cambio di pace. Montesquieu, addio! La teoria della separazione dei poteri – legislativo, giudiziario ed esecutivo – fatta propria da ogni Stato moderno repubblicano, che secondo il filosofo francese doveva (e deve) proteggere il cittadino all’interno di uno Stato dal dispotismo dello Stato stesso, e difendere a sua volta lo Stato da una deriva tirannica (“Il potere arresti il potere”, scriveva), rischia di venire meno; in nome della guerra globale al terrorismo, in nome della sicurezza e della salvaguardia del paese, in nome di un perenne stato di emergenza (un ossimoro in termini), il potere esecutivo, agendo per decreti, scalza il potere legislativo, sottraendogli le prerogative che lo rendono garante e controllore del potere esecutivo stesso; mentre il potere giudiziario rischia di essere sempre più indirizzato dal potere esecutivo, un esempio per tutti, il nostro ex Ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu, fautore della normativa varata nel luglio 2005 sul contrasto al terrorismo internazionale: in una relazione alla Camera dei Deputati del due dicembre 2005, concludeva facendo riferimento a un caso giudiziario che aveva tenuto banco nell’opinione pubblica, in cui tre presunti terroristi erano prima stati condannati poi, in un successivo grado di giudizio, assolti, dalle accuse di associazione terroristica internazionale: “Come già accaduto più volte in questi ultimi anni, le decisioni dei diversi organi della Magistratura chiamati a pronunciarsi sulle accuse di terrorismo internazionale fanno emergere notevoli disparità di valutazione anche nell’ambito della stessa inchiesta giudiziaria. L’approccio diverso è frutto probabilmente di sensibilità e prassi differenziate, tipiche della cultura occidentale, che ripropongono problematiche almeno in parte già affrontate nel nostro Paese per il terrorismo interno”. Eh già, noi italiani abbiamo già dato al concetto di terrorismo! “Tutto ciò crea non solo sconcerto nell’opinione pubblica, ma viene anche interpretato come un segnale di debolezza negli ambienti dell’islamismo radicale.” E concludeva sottolineando “la necessità di forme sempre più strette di autonomo coordinamento della magistratura, capaci di dare maggiore coerenza all’azione giudiziaria nei confronti del terrorismo internazionale.” Che cosa significa “maggiore coerenza”? L’individuazione di una inappellabile definizione di terrorista, da non confondere con guerrigliero o resistente o ribelle? Qualcosa di simile al nemico combattente di bushiana creazione? Nell’attesa di una maggiore e affidabile coerenza della magistratura (!), il Ministro degli Interni, come autorizzato dalla normativa antiterrorismo, può disporre l’espulsione immediata di un presunto terrorista scavalcando il potere giudiziario (più semplice che accondiscendere alle extraordinary rendition di invenzione statunitense, mettere in campo i Servizi italiani, e poi appellarsi al Segreto di Stato per bloccare qualsiasi indagine degli organi atti a indagare e giudicare).
Tutto ciò a dispetto anche di quei principi che fino a oggi sono stati alla base di ogni liberaldemocrazia – la definizione di diritti civili sanciti da una costituzione e ritenuti inviolabili (tra cui l’habeas corpus) che nessuna legge specifica può scavalcare – in cui lo stato di emergenza può essere solo una situazione di eccezione tesa a salvaguardare, e non a eliminare, le norme fondamentali, cioè l’ordine costituzionale dello Stato stesso. E quale situazione può essere considerata più di emergenza di una situazione di guerra? Ed è così che la guerra diviene il fondamento ontologico di una politica, e quindi di uno Stato. Una guerra che non mira alla vittoria ma a consolidarsi in una situazione perpetua.
E dopo la guerra al comunismo, la guerra all’islamismo.
Ma perché la politica necessita di un potere coercitivo e autoritario?
Divenuta garante di un’economia capitalista neoliberista, è dell’economia stessa, l’economia delle multinazionali e delle lobby, la necessità di avere un potere coercitivo e autoritario; privo di freni e controllo, sostenuto dalle stesse istituzioni mondiali – Fondo Monetario Internazionale e Banca mondiale – il dogma neoliberista viaggia a tutta velocità su due binari, uno più visibile l’altro più sotterraneo.
Il ciclo economico capitalistico poggia ormai su una gestione militare – dove per gestione militare non si intende solo la potente industria degli armamenti, ma anche tutto il complesso industriale legato alla ricostruzione, in mano alle multinazionali grazie ad appalti compiacenti: infrastrutture (strade, ponti, acquedotti, collegamenti elettrici e fognari), edifici pubblici e privati (ospedali, ambasciate, case); e perfino la complessa macchina degli aiuti umanitari entra nei profitti di guerra: beni di prima necessità, cibo, farmaci. Prima si distrugge, poi si ricostruisce, in un ciclo eterno. Prima dell’11 settembre 2001 l’economia degli Stati Uniti (e di conseguenza l’economia mondiale) viveva una crisi che aveva già raggiunto il 25 percento di capacità produttiva inutilizzata, come nella crisi del 1929; l’annuncio della guerra al terrorismo, con relativa invasione dell’Afghanistan e successivamente dell’Iraq (e cos’altro ci riserverà l’elenco degli Stati appartenenti al famigerato Asse del male?), ha bloccato il precipitare della borsa e ridato fiato all’intera economia.
Sull’altro binario, le enormi risorsi statali dirottate al sistema Difesa (che coraggio chiamarla Difesa) tolgono linfa vitale al sistema sociale. Vogliono farci credere che non esista alternativa, mentre è il caso di rovesciare l’affermazione ormai divenuta deontologica e chiedersi quale sia l’obiettivo e quale la conseguenza.
Quella che prima del 2001 era l’avvisaglia di un cambiamento, iniziato dopo la crisi economica degli anni ’80, si è ora imposta, accettata da tutte le parti politiche e sindacali, come l’unica politica sociale ed economica oggi possibile: il rinnegamento dell’economia di stampo keynesiano a favore di una sorta di darwinismo economico che investe ogni singolo cittadino.
In Europa, tra le due guerre, la crisi economica aveva evidenziato che il capitalismo non poteva più permettersi il lusso di appoggiarsi a delle democrazie parlamentari e di mantenere le libertà dei cittadini che, oltretutto, erano state la base dei movimenti operai; vi era un’unica risposta possibile ai problemi economici e a una classe operaia sempre più rivoluzionaria: la borghesia doveva tornare a governare in modo autoritario, vale a dire doveva instaurare un regime forte e coercitivo: il fascismo.
Le tecniche di potere, oggi, sono cambiate. La parola è più forte della spada.
Nel momento in cui un cittadino non si sente più protetto socialmente dallo Stato, cessa di percepirlo come giusto e legittimo; diventa forte il rischio di tensioni sociali, pericolose per la politica, per la loro forza disgregante, e per l’economia capitalista, per la mancata redditività che ne consegue, sia per il blocco della produzione sia per le concessioni economiche che sarà costretta a fare per addormentare la protesta; e allora, l’emergenza, il pericolo, il nemico uno e comune, ha il grande pregio di compattare la popolazione in un sentimento collettivo nazionalista e depoliticizzare la società civile.
Le conquiste sindacali, alzando i salari e il costo dello stato sociale, avevano ridotto la redditività del capitale; gli ammortizzatori sociali permettevano al lavoratore di non svendersi per fame. Ora, grazie alla guerra globale al terrorismo, il cittadino, terrorizzato, interessato innanzitutto a restare vivo, interessato ad avere dallo Stato una garanzia di sicurezza in un mondo divenuto improvvisamente pericoloso, accetta un patto che non ha più nulla di sociale: privatizzazioni, lavoro precario, smantellamento del sistema pubblico pensionistico e sanitario.
Paranoici, terrorizzati di morire in un attacco terroristico, moriremo vecchi, ammalati e soli ai bordi di una strada, abbandonati dallo stesso Stato che abbiamo sostenuto, maledicendo gli extracomunitari perché quelli che non sono terroristi sono ladri di lavoro, di posti all’asilo, di sussidi comunali per gli affitti. Perché oltre a essere terrorizzati, ci sentiamo invasi. “Due milioni di africani sono pronti a sbarcare sulle nostre coste,” afferma nell’estate 2004 l’allora Ministro degli Interni Pisanu; e il cittadino più infastidito che impietosito guardava alla televisione le carrette del mare stracolme di disperati. Ma quante carrette del mare ci vogliono per far arrivare fino alle nostre coste due milioni di africani? L’esodo biblico, previsto da fonti dei Servizi italiani, non c’è stato. E non grazie alle contromisure prese dal nostro governo, in accordo con i governi dell’area mediterranea (accordi bilaterali per rimpatri coatti, creazione di Campi di identificazione per i richiedenti asilo nei paesi della sponda sud del Mediterraneo), ma perché la previsione stessa era una bufala. Le cifre stesse del Viminale la smentiscono: la grande maggioranza dei clandestini, in Europa e nel nostro paese, sono overstayers, cioè persone entrate regolarmente e poi rimaste illegalmente per scadenza dei termini. Persone che il governo non ha alcun interesse a regolarizzare, al contrario, ha convenienza a mantenere illegali allo scopo di alimentare un mercato nero del lavoro che abbassi ulteriormente il costo del lavoro: una lotta tra poveri, disoccupati e precari italiani da una parte, extracomunitari clandestini dall’altra.
L’invasione africana: un’altra paranoia DOCG.
Quale speranza di libertà e consapevolezza per una società formata da cittadini terrorizzati e paranoici, convinti che un sistema democratico non possa loro togliere i diritti civili strappati a un potere oligarchico con le lotte e le rivoluzioni di oltre due secoli? Nessuna speranza fino a quando demanderemo ad altri – a politici che di mestiere si esprimono attraverso slogan, a giornalisti e intellettuali fabbricanti di consenso – il compito di creare la nostra opinione.