Giuseppe Ciarallo |
Nell’anno appena trascorso, quel 2015 in cui nel nostro Paese – e in particolar modo nella sua sedicente ‘capitale morale’ Milano – veniva pomposamente celebrato l’inutile e falso rito delle Esposizioni Universali che si perpetua da oltre un secolo, la casa editrice Il Saggiatore ha dato alle stampe un interessantissimo volume, Uomini nelle gabbie del giornalista Viviano Domenici, che dell’evento Expo intendeva offrire un punto di vista originale e del tutto controcorrente rispetto alla grancassa mediatica cui abbiamo avuto la malasorte di assistere. Perché la rassegna milanese, che aveva come lodevole tematica di facciata quella di “nutrire il pianeta” (e che però ha visto la sponsorizzazione di numerose multinazionali che il pianeta stanno concorrendo, più che a nutrirlo, a distruggerlo), rientra in pieno, con metodi nuovi e subdoli, nella scia delle Esposizioni Universali nate nel diciannovesimo secolo per volere degli Stati dell’Occidente d’Europa e degli Stati Uniti d’America, unicamente per autocelebrare la loro potenza coloniale, militare ed economica.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le Esposizioni non solo hanno avuto il compito di glorificare gli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica occidentali dell’epoca, sempre applicati all’industria – la prima esposizione del Novecento, a Parigi, celebra e sviluppa il mito della Ville Lumière in una profusione di luci e di colori mai vista in precedenza – ma di rendere l’intreccio tra interessi dell’industria e potere economico e finanziario, un vero e proprio ‘spettacolo’. I visitatori dei vecchi e dei nuovi Expo sono lì per lasciarsi ‘distrarre’, paradossalmente pagano perché l’industria mostri loro i propri prodotti, sono in qualche modo affascinati da quell’atmosfera tradizionale di piazza-mercato, di festa, di fiera paesana, in continuazione – sotto altre forme – dello spirito che fin dal Medio Evo aveva contribuito a formare il sistema culturale e di relazioni nella vecchia Europa.
E sin qui poco male, se non fosse che l’esibizione della muscolatura economica e coloniale non andasse di pari passo con una pratica che solo apparentemente è passata di moda verso la metà del Novecento: quella della vergognosa esibizione dei cosiddetti ‘zoo umani’. A fianco dei padiglioni ipertecnologici (in rapporto, ovviamente, all’epoca) il visitatore poteva assistere, spesso per schernirli, a guerrieri neri armati di zagaglia, boscimani, esquimesi, indios amazzonici o pigmei, tutti inseriti in contesti grossolanamente ricostruiti sul modello degli habitat naturali dei ‘selvaggi’, a uso e consumo dei gonzi occidentali.
La vergognosa esibizione degli zoo umani, o se vogliamo usare quello che molti ritengono essere un più politicamente corretto termine, Ethno show, non nasce però dal nulla: questo aberrante genere di spettacolo era la naturale propaggine di quei famigerati freak show che impazzavano negli Usa e nella vecchia Europa a partire dalla prima metà dell’Ottocento. Il primo a capire le potenzialità economiche di tali spettacoli sfruttando la curiosità, la morbosità del pubblico e spesso approfittando della sua ignoranza, fu l’impresario statunitense Phineas Taylor Barnum. Partendo da principi molto poco nobili, ma che rappresentano la quintessenza del capitalismo (“vale tutto, per vincere nella vita” e “ognuno si aspetta di essere ingannato dagli altri a tempo debito”), Barnum non si fece grossi scrupoli e cominciò a girare il continente americano con il suo strano circo nel quale, anziché tigri, leoni e dromedari venivano esibiti nani, donne cannone, giganti, bambine barbute, microcefali, corpi deformi e disgraziati vari sui quali la natura si era divertita a effettuare i suoi più strani esperimenti.
Se nell’assistere a un freak show il visitatore poteva intimamente sentire o addirittura manifestare la propria diversità e la propria superiorità personale da e su quegli esseri cui il destino aveva assegnato tale aspetto, negli zoo umani il livello di auto-considerazione e di sedicente superiorità faceva un balzo in avanti, passando dal piano personale a quello di ‘razza’. Paradossalmente, anche gli ultimi nella scala sociale occidentale potevano vedere nei rappresentanti di quei popoli ‘selvaggi’ che percepivano – perché così venivano mostrati – più vicini alle bestie che agli esseri umani, qualcuno più in basso di loro. Magra consolazione, ma tant’è.
Ma, è lecito chiedersi, come possono tali manifestazioni disumane nascere e svilupparsi in una società? Il fenomeno dei freak show, e più tardi quello degli zoo umani, trovano la loro possibile realizzazione attraverso una pratica – che va pazientemente inoculata, in attesa che sedimenti e venga metabolizzata dall’individuo – di disumanizzazione del diverso. Questa azione diventerà scienza (e sta qui la più terribile colpa del nazismo, senza voler sminuire – perché impossibile da sminuire – l’aberrazione dello sterminio di oltre dieci milioni di uomini nei suoi lager) nel secolo successivo, quando la follia di Hitler e dei suoi gerarchi rese possibile l’eccidio di massa puntando, e convincendo il suo fanatico popolo, che l’ebreo non fosse un essere umano (anche nell’iconografia dell’epoca il ‘giudeo’ veniva raffigurato con sembianze animalesche, spesso scimmiesche, con la coda), e che i minorati psichici e i deformi fossero esseri con un’unica funzione, e cioè quella di cibarsi (in pratica la riduzione di esseri umani a meri tubi digerenti), e che non avendo dunque alcuna utilità nella società nazista potevano essere considerati al di sotto persino della condizione animale (gli animali una qualche utilità pur l’avevano), quindi vite indegne di essere vissute, in tedesco ausmerzen, un termine dall’etimologia contadina che indica la soppressione degli animali più deboli prima di marzo, prima della transumanza, affinché non rallentino il passo spedito degli animali sani.
Disumanizzando il diverso, anche la più aberrante violenza smette di essere percepita come tale sia dall’aguzzino stesso (i kapò dei lager nazisti, nel processo di Norimberga, non capivano di cosa li si stesse accusando, spesso trincerandosi dietro un glaciale “mi limitavo a obbedire agli ordini”) che dalla società tutta, sempre pronta ad autoassolversi celando le proprie responsabilità dietro il paravento del noi non sapevamo.
Ai giorni nostri, poi, nella società dell’immagine dove sei, solo se riesci a documentare la tua esistenza, non attraverso l’opera del tuo ingegno (artistico o scientifico, poco importa) ma solo tramite la prova molto più concreta di una fotografia (oggi si utilizza il tanto super inflazionato quanto brutto termine selfie) o di un seppur breve passaggio in tivù, diventa emblematico e incredibilmente didascalico lo scatto che ritrae la soldatessa americana mentre guarda senza alcun sentimento apparente il corpo nudo del prigioniero iracheno che tiene al guinzaglio come un cane, nel carcere di Abu Ghraib. Senza azione di disumanizzazione esercitata sul nemico, l’etica e l’umanità presente (in quantità diversa) in ogni individuo, avrebbe reso impossibile una violenza così inutile, una vessazione che infrange ogni regola, persino quella rigida del codice militare.
Si potrebbe obiettare che i freak show e gli zoo umani sono qualcosa di oramai relegato nel più lontano passato. Che i freak show smisero la loro messinscena tra la prima e la seconda guerra mondiale quando, da una parte si volle smorzare l’effetto devastante del conflitto, che oltre alla morte di milioni di persone aveva causato nei soldati e nei civili ferite strazianti, orribili mutilazioni, deturpamenti e deformità, dall’altra nelle nazioni sotto il giogo nazista si proibì ogni manifestazione che potesse negare la bellezza e la superiorità della razza ariana (tanto l’arte moderna, considerata degenerata, quanto le malformazioni dei corpi).
E che come si sa l’ultimo zoo umano venne preparato all’interno dell’Esposizione Universale del 1958 a Bruxelles, quando venne realizzato un villaggio congolese, con la ‘deportazione’ di circa cinquecento rappresentanti di quel popolo da mostrare ai visitatori, intenti nelle loro attività artigiane e abitudini di vita. Da non dimenticare che nel 1958 il Congo era ancora possedimento coloniale della corona del Belgio, e che solo due anni dopo la nazione africana conquistò l’indipendenza trasformandosi da Congo Belga in Repubblica Democratica del Congo, con un presidente eletto in regolari elezioni, Patrice Lumumba, il quale peraltro non fece una bella fine essendo stato, nel 1961, assassinato e sciolto nell’acido da ribelli, pare manovrati da settori della Cia che agivano nell’interesse del governo belga.
In ogni caso è un errore madornale pensare che il triste fenomeno dei freak show e degli zoo umani si sia concluso con le due grandi guerre del secolo scorso o con la fine dell’esperienza coloniale. Il capitalismo, come la mafia che ne è prodotto ed elemento complementare, difficilmente molla l’osso quando intuisce esserci ancora molte parti da spolpare. Come il vecchio Barnum insegnava: “vale tutto per vincere (e per guadagnare) nella vita”. Cambiano i tempi ma, essendo i desideri degli uomini sempre gli stessi, è sufficiente cambiare i modi per ottenere gli stessi risultati.
Gli zoo umani esistono ancora, eccome. Solo che, come recita l’adagio, se Maometto non va alla montagna è la montagna che va a Maometto, si è compreso che essendo diventato ‘immorale’, oltreché estremamente dispendioso in termini economici, deportare gruppi etnici scarrozzandoli in giro per il mondo ed estirpandoli dal proprio ambiente, è più conveniente indurre l’uomo occidentale, al quale basta davvero poco per sentirsi un Indiana Jones o un David Livingstone armato di macchina fotografica e teleobiettivi di ogni genere, ad acquistare pacchetti viaggio – cibo, bevande comprese e ogni genere di comfort – all’insegna dell’avventura.
E tutto ciò in ogni continente, compresi i democraticissimi Stati Uniti d’America dove, rinchiusi in misere riserve, i discendenti di grandi stirpi di guerrieri vengono esibiti come fenomeni da baraccone, in perfetta continuità con quanto già perpetrato tra Ottocento e Novecento dal mitizzato Buffalo Bill. Ma l’esempio più vergognoso è indubbiamente quello delle cosiddette ‘donne giraffa’. In una zona del nord della Thailandia, a poca distanza da Mae Hong Son, un tempo piccolo centro sperduto tra i monti e oggi dotato di un piccolo aeroporto, sorgono tre villaggi in cui vivono le donne della minoranza birmana Kayan, Padaung, coloro che indossano le spirali di ottone in lingua Shan. Le donne giraffa, appunto.
Bisogna sapere che i Kayan sono originari della punta estrema centro-orientale della Birmania. Stretti tra le forze regolari e la guerriglia che combatteva l’esercito governativo, nei primi anni novanta i Kayan fuggirono in Thailandia attraversando il confine più vicino, per evitare la riduzione in schiavitù degli uomini da parte dei militari, i quali con tutti i mezzi stavano tentando di dissuadere le tante tribù presenti su quel lembo di territorio da qualsiasi alleanza con i movimenti guerriglieri. I profughi vennero accolti in appositi campi e il governo thailandese comprese subito le potenzialità economiche delle donne giraffa, che in breve vennero trasformate in attrazione per i tanti turisti che visitavano il Paese.
A quel punto i Kayan ottengono uno status particolare che attribuisce loro una serie di diritti (istruzione, assistenza medica, formazione professionale) ma anche e soprattutto degli obblighi che, a ben vedere, sono vere e proprie clausole capestro di un contratto unilaterale: i Kayan non possono circolare liberamente in Thailandia, anzi non possono allontanarsi dal distretto assegnato, non hanno diritto di chiedere il rimpatrio in Birmania né asilo in altro Stato. Sono e devono stare lì, all’interno del villaggio, gli uomini a far finta di forgiare anelli di ottone, le donne a esibirli al loro collo. Di fronte a questi veri e propri schiavi, novelli esploratori occidentali giunti sul luogo a bordo di jeep ultimo modello, scatteranno fotografie a raffica da postare su facebook o da mostrare agli amici, dopo aver acquistato souvenir made in China e sorseggiato lattine di Coca Cola. Il tutto col piglio severo e beffardo dell’avventuriero fin de siecle.
E i freak show? Oh, per i freak show è anche peggio. Lo spettacolo viene portato direttamente nelle case dei telespettatori. Inserito nell’ambito del circuito Guinness World Records, è dal 2006 che anche nel nostro Paese è possibile assistere a uno spettacolo altamente edificante quale Lo Show dei Record, trasmesso dalle reti Mediaset, nel quale tra un virtuoso di equilibrismo, un demente che deve rompere con la testa il maggior numero di assi del water in un minuto e l’imbecille che si tuffa dal quarto piano di un palazzo in una piscinetta per bambini, i presentatori che si sono susseguiti hanno potuto (fingere di) emozionarsi nel mostrare al loro pubblico la donna con le unghie più lunghe del mondo, l’uomo con l’epidermide più elastica, la signora con il seno più voluminoso, il più piccolo dei nani, la donna bambina (un’indiana trattata come una bambola), e poi la donna barbuta, l’uomo più alto del mondo, la bambina con il volto completamente ricoperto di peli, l’uomo interamente tatuato, quello con il maggior numero di piercing, la famiglia più pelosa del mondo, l’uomo gatto, quello che si è fatto impiantare due corna all’estremità della fonte per sembrare un diavolo, e altre amenità del genere. Metodi diversi, uguale risultato.
E la filosofia dello show must go on è stata riaffermata, qualora ci fosse stato bisogno di conferme, anche in situazioni tragiche, come quando He Pingping, un cinese di ventidue anni, alto solo 74 centimetri per via di una rara forma di nanismo (osteogenesi imperfetta), beniamino dello show di Canale 5, il 17 marzo 2010 si è accasciato al suolo con forti dolori al petto mentre stava registrando una puntata dello spettacolo. Buffo, ma l’annuncio della sua morte non è stato dato dalla famiglia ma nel corso di una conferenza stampa del Guinness World Records. D’altronde, He Pingping era un record, mica un essere umano.
Qualche giorno fa – le cose non accadono mai per caso – mi è capitato tra le mani un vecchio LP di Frank Zappa, un bootleg dal titolo We Are The Mothers And This Is What We Sound Like! che in copertina riporta il fotomontaggio di un fotogramma tratto da Freaks, film di Tod Browning del 1932. Freaks è un fantastico capolavoro in bianco e nero che per tematica e realizzazione costò la carriera a Tod Browning, regista del leggendario Dracula del 1931, con Bela Lugosi. “Un’esperienza disturbante” viene definito il film, dove Browning mette in scena, senza alcuna pietà né riguardo per lo spettatore, la mostruosità vera, quella dei poveri esseri deformi esposti, anch’essi senza alcuna pietà, alla morbosità del pubblico nei vaudeville e nei freak show. La storia si svolge in un circo, un circo particolare, nel quale si esibiscono, insieme al clown, alla trapezista e al forzuto, una serie di personaggi assoldati per le loro caratteristiche fisiche che li rendono unici e ‘spaventosi’: la donna senza braccia (che con i piedi svolge egregiamente ogni funzione), le sorelle siamesi, i microcefali, l’uomo senza gambe (che vive muovendosi in equilibrio sulle braccia), lo scheletro vivente, la donna barbuta, la coppia di nani e altri.
Cleopatra, la bellissima trapezista amante di Hercules, il forzuto, venendo a conoscenza della ricchezza di Hans, il nano, finge di ricambiare il suo amore e lo sposa con l’intenzione di ucciderlo per ereditare i suoi averi. Il piano però viene scoperto dai freaks, sventato, e i due amanti faranno una fine atroce, lui fatto a pezzi, lei mutilata, sfigurata e trasformata in ‘donna gallina’ per finire a essere una delle più spaventose attrazioni del circo.
Il film, a causa della sua ambientazione, in un circo tra esseri deformi, e del tema, la brama di denaro e la pulsione sessuale, incontrò enormi problemi di censura fino agli anni Sessanta quando, una volta riscoperto, venne salutato come un autentico capolavoro. Quando fu girato – evidentemente l’America e l’Europa di quell’epoca non erano ancora pronte alla profondità di certi sguardi – quello che voleva essere un tentativo straziante e distaccato di far risaltare l’umanità di persone che per la società non erano altro che scherzi di natura, e che al contempo metteva in evidenza la crudeltà e la mostruosità dei cosiddetti normali, fu scambiato per un disturbante esercizio di inutile esibizionismo e segnò la fine del successo del promettente regista.
Ho rivisto il film, e con esso è cambiato anche il mio sguardo nei confronti dello spettacolo televisivo di cui ho parlato in precedenza. E ho immaginato, in un impeto di fantasia, che la donna dalle unghie chilometriche, l’uomo di gomma, la donna bambina, il gigante mongolo, l’uomo interamente tatuato, la donna barbuta e quella cannone, la bimba pelosa e il nano, ribellandosi alle regole dello show system, sbattessero sul muso della presentatrice belloccia o dell’intrattenitore cicciottello la mostruosità della loro mancanza di sentimento e di rispetto per la sofferenza altrui. Ma, dimenticavo, il motto “vale tutto per vincere nella vita” è valido anche e soprattutto per loro.
E tornando alle Esposizioni Universali, agli zoo umani e ai freak show mi chiedo: che bisogno c’è del superato, odioso, obsoleto colonialismo vecchio stampo, quando possiamo avere, in alternativa, una moderna, fluida e funzionale globalizzazione?