Bene, lo dichiaro senza pudore: la signora Merkel ha un senso della carità davvero molto peloso, e mi riferisco alle ultime vicende dell’accoglienza verso i siriani. Più di 24.000 siriani sono fuggiti in Germania dopo l’inizio della guerra civile nel loro Paese, due anni e mezzo fa. Molti hanno rischiato la vita tentando l’ingresso in modi illegali, scoraggiati dalle difficoltà burocratiche. La guardia costiera greca ha fatto terminare il sogno di molti siriani rifugiati che speravano di entrare nell’Unione europea arrestando le loro barche nei pressi delle isole orientali del Mar Egeo nel Mediterraneo e il loro respingimento verso la Turchia. Molti siriani hanno cercato di utilizzare questo percorso per entrare nella Ue a causa della chiusura della frontiera terrestre greco-turca, nell’estate del 2012. Il viaggio come si capisce era ed è estremamente rischioso. Dal mese di agosto 2012, 149 persone hanno perso la vita in mare tra la Turchia e la Grecia, secondo l’organizzazione per i diritti umani Pro Asyl. La maggior parte di loro erano profughi siriani. Coloro che effettivamente raggiungono la Ue attraverso la Grecia e riesce a entrare in Germania quasi sempre sono autorizzati a rimanere.
Più del 95% dei siriani che fanno richiesta di asilo o di una protezione dei rifugiati o di altro permesso di soggiorno in Germania hanno già ricevuto risposta positiva, almeno per la durata della guerra, secondo l’Ufficio federale della migrazione. Chi entra attraverso altri Paesi della Ue come la Bulgaria o l’Italia deve tornarvi e ripetere la domanda di ingresso a causa delle regolamentazioni del Trattato di Dublino. La Grecia è un’eccezione per le cattive condizioni dei rifugiati in quello Stato. Ciò significa che i siriani che riescono a entrare in Grecia, nonostante i duri controlli di frontiera, possono sperare nell’aiuto tedesco. Esiste già, tra le opzioni legali, un programma del governo tedesco per riuscire ad accettare 5.000 rifugiati siriani. Le persone sono selezionate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Quelli con la famiglia in Germania o dove vi sono bambini o persone gravemente ferite hanno possibilità migliori di altri. Circa 1.000 rifugiati selezionati sono già stati inseriti; i rimanenti sono stati selezionati nella primavera del 2014. Molti altri avrebbero dovuto essere in Germania, ma il complicato processo di selezione ha ritardato il loro arrivo. I singoli Land tedeschi hanno anche programmi specifici per i profughi siriani. Questi, tuttavia, sono riservati ai siriani che hanno famiglia in Germania e che sono fuggiti in uno dei Paesi confinanti della Siria: Libano, la Giordania, l’Iraq o la Turchia.
La maggior parte dei Land richiede che i parenti che vivono in Germania sopportino tutti i costi per i profughi. I parenti devono avere un reddito netto mensile fino a 2.000 euro e una assicurazione sanitaria per l’ingresso nel Paese. “Solo pochi siriani molto privilegiati possono permettersi tutto questo” dice Bernd Mesovic dell’associazione Pro Asyl, “la maggior parte dei siriani sono esclusi a causa di questa condizione”. I numeri mostrano chiaramente che a tutto il 2011 erano solo 140 i rifugiati entrati in Germania attraverso questo programma secondo il ministero dell’Interno. E adesso la Merkel dichiara che aprirà l’ingresso indifferentemente a tutti i siriani, sorpassando Dublino, e mettendola nel sacco in quanto a comunicazione propagandistica, a tutto il mondo. Un bel modo di fare accoglienza, selezionando di fatto e a ondate successive quelli tra i profughi già parzialmente stabilizzati e in qualche modo più tranquillizzanti: pelle chiara, molti cristiani, non troppo diversi da come si presentavano i turchi quarant’anni fa ecc. ecc. Gli altri, i negher, a casa loro: abbiamo già dato, adesso tocca agli altri. Ho quasi la nausea.
A farmela passare, mentre penso alla carovane di uomini e donne dalla pelle scura che allora come oggi si muovono verso il Nord del mondo, giunge dall’etere una voce che mi turba profondamente. Si tratta di Yannick Ilunga, ventiquattrenne, nato in terra (quasi) francofona, ossia a Bruxelles, da padre congolese e madre angolana, prima di trasferirsi a sei anni a Cape Town, Sudafrica, dove vive (anche se da poco sta a Londra, per registrare il suo disco di debutto per la Domino). È cresciuto cantando in chiesa, ha suonato in una banda di metallari, e poi ha scoperto 808s & Heartbreak di Kanye West. BUM!
Ora, ribattezzatosi Petite Noir, canta con una voce profonda e sonora e il suono che emana dai suoi dischi è un mix delicatamente poliritmico etichettato come wave-noir, ovvero un mix di new wave e influenze del Sud Africa. Le chitarre in primo piano echeggiano spesso e volentieri i moduli espressivi dell’Africa occidentale, chiamati a suo tempo Highlife, mentre all’improvviso saltano fuori rimembranze di gruppi post punk anni ‘80, ma in realtà non è così facile definire la musica di Ilunga come un puro e semplice frutto di contaminazioni.
Di fatto non c’è soluzione di continuità tra un modulo espressivo e l’altro, ed è come se Ilunga avesse trasportato il caratteristico effetto africano prodotto da un intreccio di più ritmi eseguiti contemporaneamente, chiamato ‘poliritmia’, sul piano armonico. In molte composizioni possiamo seguire diversi spessori melodici che si intrecciano sino alla vertigine, e che provengono da sorgenti diverse. È in sostanza la versione africana originale di ciò che facevano Eno e Byrne negli anni ‘80 da soli e coi Talking Heads: un esempio per tutti è I Zimba, una pittura musicale multistrato decisamente contagiosa. Sicuramente possiamo parlare di polifonia, in senso vero e proprio, un fatto che a suo tempo stupì non poco i primi esploratori bianchi dei secoli scorsi, i quali credevano che la musica polifonica fosse esclusivamente cosa europea, e questo anche se si trattava di brani in cui la composizione era sviluppata in modo semplice rispetto ai grandi affreschi musicali europei del 1400-1500. E qui i pregiudizi e l’Eurocentrismo possono andare a catafottersi, come dice Montalbano.
Con Petite Noir l’Africa comincia a riprendersi con gli interessi ciò che le è stato sottratto impunemente per secoli. Dall’oro ai diamanti, dalla bauxite all’alluminio, sino alla carne umana stivata nelle navi dei mercanti, non c’è stato secolo che non abbia visto la rapina costante delle nazioni europee.
La fine degli imperi coloniali a seguito delle lotte per l’indipendenza ha lasciato Paesi spogliati e democrazie gracili, tentazioni autoritarie e sopravvivenze tribali, ma anche un prodigioso giacimento, praticamente inesauribile, di musica vera, fatta dal basso, vivissima e in continua mutazione. Basti pensare proprio al genere musicale chiamato Highlife citato sopra: la scaturigine è in Ghana, a inizi del Ventesimo secolo, e si trattava già di un prodotto di sintesi, visto che incorporava sia gli intervalli armonici e melodici tradizionali di nona sia la struttura ritmica della musica Akan propria di quel Paese.
Il tutto veniva già suonato e propagato con strumenti occidentali elettrificati e divenne la bandiera delle élite africane durante il periodo coloniale. Ma già dagli anni ‘30 in avanti l’Highlife si sparse sino alla Sierra Leone, alla Liberia, al Gambia e alla Nigeria portata dai lavoratori poveri ghanaiani che migravano in quei Paesi. In Nigeria il ‘Presidente Nero’ Fela Kuti, con la sua prima formazione, i Koola Lobitos, in Sierra Leone il chitarrista S.e. Rogie (quello di Dead Men Don’t Smoke Marijuana), e in Ghana gli strafamosi Osibisa, da noi conosciuti a metà anni ‘70, che incorporavano tre ghanesi e tre caraibici creando una miscela sbalorditiva afro-caraibica assieme
a jazz, funk, rock, latin e R&B.
L’humus, come si vede, era già pronto per la nascita di nuovi talenti. E già nei primi anni 2000 si cominciava a percepire qualcosa di inusitato. Quando Kele Okereke ci incantò col debutto dei suoi Bloc Party, con una Silent Alarm che metteva assieme atmosfere post punk decisamente gelide e il calore di una voce fieramente black, fummo in parecchi a capire che Mamma Africa stava per partorire. E, in tempi più recenti, inusitatamente, ci capitò di straniarci con la darkwave degli O Children, che senza il mistero e la sensualità della voce nera di Tobias O’Kandi, sarebbe stata tutta un’altra cosa. Il culmine l’ho personalmente raggiunto con una cover da brivido di She’s lost control emanata da Spoek Mathambo dalle nebbie dei Joy Division. Provare per credere: https://www.youtube.com/watch?v=UKfwSFI8LhQ
E adesso siamo a Petit Noir.
Quello che più stupisce di più in talenti come il suo è la rilassatezza stralunata con cui vengono costruiti i brani, che approdano spesso a esiti del tutto diversi dalle premesse. In questo EP di cinque brani chiamato The King of Anxiety sembra che il nostro abbia voluto scherzare a oltranza sia coi titoli che con le atmosfere e non ultimo con le parole. In Come Inside Petite costruisce con la chitarra una figura modale sopra la quale canta direttamente. Molto africana (e solo successivamente di chiesa) la struttura botta e risposta del brano, in cui viene piazzato il tonfo di due grancasse macinaritmo che si muovono liberamente negli spazi di un blues tradizionale, ma Petite mantiene i confini della musica vaghi e confusi, aggiungendoci alcuni synth distorti e una chitarra post punk.
La sua voce è ricca e rilassante e mantiene la temperatura emotiva a un basso livello di ebollizione. Non importa come le plurime parti si muovano all’interno delle sue canzoni, il Re dell’Ansia si sente sempre calmo e sereno. Le parole di Petite sono semplici: “Solo tu mi puoi causare dolore / Quando cado, mi accoglierai dentro”, e le canzoni hanno una qualità di sogno lucido, sostenute da una voce da giramento di testa, capace nel capolavoro Chess, di passare da un falsetto altissimo ai registri baritonali (e noir) più tipici del genere. Qui più che altrove si avverte la capacità di scrivere e arrangiare in modo polifonico e poliritmico (il finale di Chess), caratteristiche che pure sono state prestate a tutta la musica occidentale già da metà anni ‘80 coi Talking Heads ma che qui sembrano usate con una freschezza nuova che mi ha fatto esclamare assieme a un caro amico DJ come Massimo Siddi: «Ecco il nuovo David Byrne!»
Petite Noir, The King of Anxiety EP, Universal Music New Zealand Limited, 2015