Oggi l’incompetenza della politica porta i tecnici e la depoliticizzazione della politica attuata dalla Ue porta i tecnici. La politica è divenuta un affare da tecnici. Che fine fa il politico di Weber tra passione per una causa e responsabilità?
“Adesso, in conseguenza del violento crollo che si usa chiamare rivoluzione, è possibile che sia in atto una trasformazione. […] Innanzitutto, hanno fatto la loro comparsa nuovi tipi di apparato di partito. In primo luogo, apparati di dilettanti.” Max Weber, La politica come professione
“Una domanda veloce. Che cosa succede dal punto di vista fiscale e finanziario: supponiamo che un Paese prende il 13% del finanziamento e poi il Parlamento di uno Stato membro rifiuta di approvare il dispositivo (il Recovery Fund europeo, n.d.a.).” A porre l’interrogativo è Francesco Berti (classe 1990), deputato del Movimento 5 stelle. È il 12 febbraio. Al Parlamento italiano sono congiuntamente riunite le Commissioni Bilancio e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato, in audizione è presente Ivana Maletić, componente della Corte dei Conti Ue: oggetto della seduta è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ossia il programma italiano, redatto dal governo Conte II, che va a inserirsi nel Recovery Fund Ue. Berti fa parte della Commissione Politiche dell’Unione europea.
L’ignoranza che sottende la domanda è disarmante; perché se è vero, e lo vedremo, che la Ue ha introdotto nella sfera della politica un tale livello di tecnicismo su cui è necessario riflettere, è altrettanto vero che la questione posta da Berti non è tecnica bensì politica, un ambito che un deputato – ancor più se siede nella Commissione Politiche Ue – dovrebbe conoscere. L’iter politico del Recovery Fund, inserito nel Bilancio pluriennale Ue, rispetta gli usuali step dell’Unione: tra il 27 maggio 2020 e l’11 febbraio 2021 Commissione, Consiglio europeo e Parlamento Ue hanno, attraverso vari passaggi, proposto, discusso e approvato il Piano e il suo Regolamento; il passo successivo spetta ai Parlamenti nazionali dei 27 Paesi Ue, e solo dopo il loro unanime parere favorevole l’Unione europea potrà emettere le obbligazioni necessarie a raccogliere sul mercato i 750 miliardi di euro che finanziano il Fondo. È dunque semplicemente impossibile che si verifichi la situazione ipotizzata da Berti, ossia che uno Stato riceva il 13% dei fondi e, successivamente, il Parlamento di un Paese Ue rifiuti la sua approvazione al Recovery Fund. La domanda è talmente insensata che una sbigottita Ivana Maletić risponde rimarcando con l’inflessione della voce alcune parole (indicate in corsivo): “Ecco qual è la procedura: i Piani di Ripresa e Sviluppo devono essere approvati a livello nazionale prima di essere presentati alla Commissione; quindi sostanzialmente si presume che siano già stati approvati a livello nazionale, che ci sia accordo a livello nazionale, che tutti siano d’accordo sul Piano (il Recovery Fund Ue, n.d.a) che viene presentato, e a quel punto Commissione e Consiglio prendono la loro decisione […] e si ha diritto a ottenere il primo 13% di finanziamento”.
La scienza come professione e La politica come professione di Max Weber sono due scritti straordinari, ed è banale dirlo; tale è la ricchezza sotto il profilo politico, culturale e umano che ogni rilettura, in diverse fasi storiche e politiche, offre nuovi spunti di riflessione. Sono due testi che si tengono, per quanto non pensati da Weber come un corpus unico. Ruberemo qualche passaggio dal secondo, senza entrare nella loro totalità (1).
Cos’è e cosa può significare la politica come ‘professione’? (E/o ‘vocazione’, sappiamo dell’eterna difficoltà a tradurre con fedeltà la ricca lingua tedesca.) Da questo interrogativo Weber prende l’avvio, rispondendo che indica “aspirazione a partecipare al potere o a esercitare una qualche influenza sulla distribuzione del potere […] Chi fa politica aspira al potere, o come mezzo al servizio di altri fini – ideali o egoistici – o «per il potere in se stesso», per godere del senso di prestigio che esso procura”. Si domanda poi quali “gioie interiori” porti la politica e “quali attitudini personali presuppone in chi vi si dedica”. “Essa procura in primo luogo il sentimento del potere” risponde, “anche quando occupa posizioni formalmente modeste, la coscienza di esercitare una influenza sugli uomini, di partecipare al potere su di essi, ma soprattutto il sentimento di tenere tra le mani il filo conduttore di eventi storicamente importanti, permette al politico di professione di elevarsi al di sopra della quotidianità. Il problema per lui è piuttosto il seguente: per quali qualità può egli sperare di essere degno di questo potere (per quanto esso possa essere limitato nel singolo caso) e dunque della responsabilità che ne deriva? In tal modo ci addentriamo nel campo delle questioni etiche; e infatti proprio a tale campo appartiene la domanda: che tipo di uomo deve essere colui al quale è consentito di mettere le proprie mani negli ingranaggi della storia?”. Sono note le tre qualità che Weber individua come decisive: passione, senso di responsabilità, lungimiranza.
La passione, per quanto autentica, non è sufficiente: porsi al servizio di una causa senza percepirne la responsabilità che ne deriva significa essere privi di lungimiranza, ossia della capacità di “mettere distanza”, di prendere decisioni facendo “agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore”. “La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima” afferma Weber, nonostante la dedizione possa sorgere ed essere alimentata solo dalla passione. L’istinto di potenza, l’aspirazione al potere, è caratteristica inevitabile nell’uomo politico, “e tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio là dove questa aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della causa”. E conclude: “Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e – spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa – la mancanza di responsabilità”.
Torniamo al nostro attuale Parlamento. Quella di Berti non è l’unica domanda che lascia esterrefatti. Ne riportiamo qualche altra significativa.
Ylenja Lucaselli (classe 1976), deputata di Fratelli D’Italia e facente parte della Commissione Bilancio, chiede se sia legittimo utilizzare le risorse del Recovery Fund per “ripianare un debito”. Ivana Maletić, Corte dei Conti Ue, Regolamento alla mano, lo esclude categoricamente. Ora, le possibilità sono due: Lucaselli non ha letto il Regolamento, nonostante la sua appartenenza alla Commissione Bilancio, oppure l’ha letto e non l’ha compreso. Noi ne avevamo già scritto a luglio 2020 (!) su queste pagine (2), analizzando la proposta di Regolamento presentata dalla Commissione Ue il 27 maggio 2020. Sono dunque trascorsi ben otto mesi dalla prima pubblicazione del documento e ancora la Lucaselli non ne conosce il contenuto – stiamo parlando di un pdf di 50 pagine, non di un tomo di 1.000 pagine.
Medesime considerazioni valgono per il secondo interrogativo posto da Lucaselli: “Considerando che dovremo attendere il 2023 per ricevere tutti questi fondi, sarà possibile ricorrervi prima?” chiede la deputata. È una domanda priva di qualsiasi aderenza alla realtà. Il Regolamento contiene perfino una chiara tabella (pag. 40) che evidenzia come i fondi inizino a essere disponibili già nel 2021 (il prefinanziamento, calibrato successivamente sul 13%), e a seguire dal 2022 in poi. Risponde infatti Ivana Maletić, costretta a indossare gli inattesi panni di ‘maestra elementare’ davanti ad alunni che nemmeno hanno aperto il libro di testo, che “i pagamenti sono collegati al rispetto degli obiettivi e delle varie tappe previste dal PNRR” e quindi “tutto dipende dalla tempestività con la quale si procede”: “Si possono ottenere risorse o molto presto o molto tardi […] e i primi fondi verranno erogati già dal 2021”.
A seguire, Gianmauro Dell’Olio (classe 1968), senatore del Movimento 5 stelle e membro della Commissione Bilancio, chiede se “è necessario ricorrere contemporaneamente sia a sovvenzioni che a prestiti con una quota parte prestabilita, perché si parla di un prefinanziamento del 13% che riguarda solo le sovvenzioni”. Anche in questo caso, come non si stanca di evidenziare Ivana Maletić, la risposta è scritta nel Regolamento presentato otto mesi or sono: il 13% è collegato alle sovvenzioni, stando il fatto che il Paese può decidere di chiedere solo la sovvenzione oppure sovvenzione e prestito.
L’ignoranza e la conseguente incompetenza di cui questi interventi sono esempio tocca, inevitabilmente, non solo il Parlamento ma anche il governo Conte II.
Qualche giorno prima, l’8 febbraio, alla Commissione Bilancio della Camera è prevista l’audizione di Carlo Cottarelli, in qualità di direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano, mentre Fabrizio Balassone, Capo del Servizio Struttura Economica di Banca d’Italia, è sentito dall’Ufficio di Presidenza, dalle Commissioni riunite di Bilancio e Finanze della Camera e di Bilancio e Politiche Ue del Senato. I due interventi sono rappresentativi delle questioni sollevate nelle tante audizioni che si sono svolte per giorni nelle Commissioni parlamentari, in merito al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (3). In sintesi, quel che viene da tutti rilevato è che il PNRR presentato dal governo Conte II è generico, approssimativo, insufficiente nei dettagli esplicitamente richiesti nella sua compilazione dalle Linee guida e dal Regolamento del Recovery Fund europeo: presentarlo alla Commissione Ue senza alcun cambiamento equivale ad andare incontro a una sicura bocciatura, vale a dire vedersi rifiutare sovvenzione e prestito.
Cottarelli evidenzia che “una presentazione del documento più concisa, non tanto in termini di lunghezza ma in termini di rapporto fra testo e contenuti sostanziali, sarebbe stata più efficace […] Il PNRR abbonda di affermazioni di carattere generale e di ripetizioni”. Tante belle parole vuote, insomma. Nel dettaglio, necessario per quanto noioso per comprendere la portata di ciò di cui stiamo parlando, Cottarelli sottolinea: il PNRR “non comprende nulla o quasi nulla, se non in vaghissimi termini come le poche parole alla fine di pagina 51, su questo tema […] si parla soltanto in sette righe, equivalentemente in termini di digitalizzazione, della riforma della pubblica amministrazione […] lo stesso vale per la riforma della giustizia”; “a pagg. 12 e 13, dove si parla dei nodi da risolvere, non è neanche menzionato il problema del capitale umano e quindi della pubblica istruzione e della ricerca”; “anche se l’enfasi di gran parte della parte strategica del PNRR denominata Le disuguaglianze è senz’altro appropriata, non è chiarito quale sia il legame tra lotta alle diseguaglianze e rafforzamento di crescita: si possono trovare naturalmente importanti legami di causalità, ma questi legami devono essere ben definiti”; “il grado di specificità e dettaglio nella definizione delle azioni da intraprendere è ancora troppo poco specifico rispetto a quelle che sono le richieste e le Linee guida che ci sono state date dall’Europa. In queste Linee guida viene suggerito un template diviso in quattro parti: la prima contiene una descrizione di come il Piano aderisce agli obiettivi, definiti dal Regolamento, alla priorità del Semestre europeo; la seconda richiede che siano descritti gli investimenti e le riforme; la terza richiede la descrizione dell’implementazione del Piano, compresa la sua governance e il coordinamento con altri programmi dell’Unione europea; la quarta l’impatto atteso del Piano. L’attuale PNRR contiene queste informazioni solo parzialmente, in particolare mancano del tutto le informazioni sulla implementazione e sulla governance […] inoltre molte delle 48 aree di intervento previste restano ancora poco delineate, meno del 30% definisce un obiettivo quantificato precisamente […] solo il 20% delinea le tempistiche con le quali si intende raggiungere gli obiettivi e solo in 6 casi su 48 vengono posti obiettivi intermedi relativi alle tempistiche […] [che] saranno, come sapete, una condizione necessaria per ricevere i pagamenti”.
Balassone, Bankitalia, solleva le medesime criticità sottolineate da Cottarelli. In sintesi: “Il documento non specifica in dettaglio il profilo annuale dell’uso dei fondi europei […] si indica solo che almeno il 70% dei trasferimenti ricevuti attraverso il dispositivo verrà speso entro il 2023 e la parte rimanente entro il 2025”; “non presenta una puntuale quantificazione del contributo di ciascun progetto, sia la spesa destinata alla transizione verde sia quella digitale […] sono ancora necessarie sostanziali integrazione in vista della stesura finale del testo da sottoporre alle autorità europee”; “gli interventi di riforma preannunciati nel documento, pur coprendo aree coerenti con le raccomandazioni della Commissione, non sembrano ancora sufficientemente articolati, il che ostacola una valutazione del loro potenziale impatto; in particolare appaiono poco sviluppate le linee di azione per promuovere la concorrenza e i dettagli degli interventi volti a favorire una maggiore efficienza della pubblica amministrazione”; “nel documento si avverte che alcuni importanti elementi richiesti nelle Linee guida sono in corso di definizione […] si preannuncia inoltre la presentazione al Parlamento del necessario modello di struttura di governo del Piano, in cui dovranno essere individuati gli organi responsabili della sua realizzazione e le modalità di coordinamento dei ministeri e degli altri livelli di governo coinvolti”; “al 12 gennaio, quando è stato presentato il Piano, era forse anche normale […] che si trattasse di un documento di natura interlocutoria, ma è passato un po’ di tempo da allora e a questo punto il ritardo sembra maggiore di quello che era al momento della presentazione”.
Ora: non si tratta certo di concordare con le posizione politiche di Cottarelli, Balassone o dei parlamentari sopra citati, e ancora meno con il contenuto e l’esistenza stessa del Recovery Fund, su cui ci siamo già espressi (4); il ragionamento che si sta qui proponendo è un altro, e verte sulla competenza/incompetenza dell’attuale classe politica, su cosa essa comporti in generale e abbia comportato in particolare, nel passaggio tra il Conte II e il governo Draghi.
Siamo davanti a due ordini di problemi.
Il primo. La ‘nuova’ classe dirigente politica, quella che potremmo definire proveniente sia da un cambio generazionale post Prima Repubblica, sia dall’entrata in Parlamento di un nuovo gruppo di rappresentanti iscritti nelle fila del Movimento 5 stelle, salvo eccezioni si caratterizza per un livello di incompetenza e, ben più grave, di mancanza di responsabilità, da paralizzare la politica stessa. Responsabilità che va oggi declinata in un passaggio ulteriore rispetto a quello posto da Weber, che forse escludeva a priori l’eventualità della sfacciata ignoranza; perché non si tratta nemmeno più di saper “mettere distanza” per avere la necessaria lungimiranza, ma di ignorare documenti che dovrebbero essere l’oggetto dell’agire politico, l’oggetto di studio da mesi per poter prendere decisioni che andranno a incidere sulla vita di ogni cittadino. Il governo Draghi è conseguenza di questo.
Quando il grande capitale italiano da una parte e l’Unione europea dall’altra si sono resi conto che l’incompetenza della classe dirigente politica nazionale rischiava di portare alla Commissione Ue un PNRR tecnicamente impossibile da approvare, hanno giocato le loro carte. Nessuna delle due realtà poteva permettersi la bocciatura: la prima conta su quei fondi pubblici per il greenwashing, per ristrutturare le linee produttive e così uscire dalla crisi economica iniziata ben prima della pandemia; la seconda non può vedere fallire l’intero progetto del Recovery Fund, e senza l’Italia il rischio sarebbe concreto: non solo è il Paese a cui è destinato il maggior pacchetto di sovvenzioni/prestiti ma, per il suo peso in termini di Pil e dinamiche import/export Ue, non può diventare la zavorra della futura ripresa economica europea. Confindustria ha dunque mosso Il Sole 24 ore, criticando giornalmente la vaghezza e inconsistenza del PNRR presentato dal Conte II, e ha mandato avanti Renzi, con il beneplacito silenzioso dell’Unione europea, facendo contemporaneamente affidamento sul weberiano “senso di responsabilità” targato Europa del Presidente Mattarella.
Il colpo di grazia l’ha dato Agnelli/Elkann dalle pagine della Stampa, con un editoriale durissimo, a firma del direttore Giannini, nei giorni di gennaio in cui ferveva la caccia ai voti parlamentari per un Conte III: “Del reclutamento si occupa lo strano network dell’Avvocato del Popolo. Le cronache narrano di senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e alti prelati vicini alla Comunità di Sant’Egidio. È ‘trasparenza’, questa? O piuttosto moral suasion condotta con quel ‘favore delle tenebre’ sempre negato?” (5). Mentre Marcello Sorgi, lo stesso giorno e sulle stesse pagine, chiudeva il pezzo accusando Conte e il suo “reclutamento” di essere in “odore di massoneria” (6): un ‘io so, che tu sai, che io so’ che in Italia ha sempre funzionato per fare pressione. Di colpo ogni ipotetico parlamentare “costruttore” del Conte III si è defilato, comprendendo chiaramente l’aria che tirava: il governo Conte II è caduto e quello Draghi ne ha preso il posto, con figure tecniche nei ruoli chiave legati al Recovery Fund.
Secondo problema. La struttura della Ue, all’interno della quale l’Italia è oggi strettamente vincolata, richiede tali tecnicismi che solo i tecnici, e non i politici, possono rispondervi. Dopo l’economia, anche la politica è stata depoliticizzata. È corretto ciò che afferma Balassone di Bankitalia, sul finire del suo intervento, dopo aver rapidamente elencato le caratteristiche tecniche richieste dalla Ue per la compilazione e la presentazione dei PNRR nazionali: “La definizione del Piano, ancor prima della sua esecuzione, è un esercizio complesso”. Ma i ministeri di tecnici sono pieni, di funzionari i quali, per richiamare Weber, “non [devono] fare politica, bensì «amministrare»“, eseguire gli ordini del politico su cui interamente ricade la responsabilità delle scelte. Occorre tuttavia essere al servizio di una causa per operare delle scelte, e contemporaneamente avere senso di responsabilità per studiare i documenti e riconoscere la propria ignoranza tecnica, riuscendo così a guidare i funzionari nel loro mestiere. In un circolo vizioso, si ritorna quindi al primo problema.
Dunque, oggi: 1. l’incompetenza della politica porta i tecnici; 2. la depoliticizzazione della politica attuata dalla Ue porta i tecnici. La politica è divenuta un affare da tecnici.
Che fine fa il politico di Weber, tra passione per una causa e responsabilità?
I politici incompetenti, ammesso abbiano la prima, non posseggono di certo la seconda, o consapevoli della propria ignoranza cercherebbero di colmarla o si sottrarrebbero dal fare “la politica come professione”. I tecnici servono indubbiamente una causa, hanno dunque una visione politica, ma la negano: si dichiarano neutrali, non portatori di scelte ma esecutori di ‘ciò che va fatto’, e questa posizione li sottrae alla responsabilità.
Questo che significa? Il “vero funzionario”, colui che “per l’essenza stessa della sua specifica professione non deve fare politica”, scrive Weber, “quanto meno ufficialmente, fino a che non è in gioco la «ragion di Stato», vale a dire gli interessi vitali dell’ordine dominante, […] deve evitare di fare ciò che il politico, il capo come il suo seguito, si trova sempre e necessariamente a dover fare: lottare. […] Il suo agire è governato da un principio di responsabilità del tutto diverso, e persino opposto, rispetto a quello del funzionario. […] Sono proprio le nature di funzionario di grande levatura morale a generare cattivi politici”. Draghi e le figure tecniche del suo governo sono i funzionari ‘prestati’ alla politica per difendere “gli interessi vitali dell’ordine dominante” destabilizzati da una crisi.
Al pari di Monti nel 2011, ma con una differenza sostanziale: all’epoca il governo Berlusconi, con l’occhio rivolto al consenso elettorale, non aveva intenzione di mettere in atto le richieste di austerity provenienti dall’Unione europea; Draghi stesso quindi, presidente Bce, mosse la Banca Centrale e furono i mercati finanziari e il famigerato spread a mettere pressione al governo italiano per le dimissioni. Oggi il problema con Conte non era politico: il governo era fedelmente europeista e stava destinando il denaro del PNRR secondo i desiderata di Confindustria. Il problema era esclusivamente tecnico: incompetenza. E infatti Draghi non registra alcuna discontinuità sostanziale nella politica, per esempio nella gestione della pandemia (lockdown, ristori, fondi/garanzie alle imprese ecc.): non sta qui la ragione della sua nomina, ma nel PNRR/Recovery Fund. Mentre la partita è stata giocata da attori interni, grande capitale italiano e Renzi, per quanto aperta con il consenso della Ue.
È drammatico, perché nell’ambito politico non resta che la figura del demagogo, e gli esempi sono talmente numerosi che ognuno può scegliere i propri, tra politici di ogni colore che sembra non facciano altro, per l’intera giornata, che gratificare il proprio ego narcisistico sui social o in televisione. “La vanità, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile,” scrive Weber, “induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di questi due peccati [la mancanza di causa o la mancanza di senso di responsabilità] se non tutti e due insieme. E ciò tanto più in quanto il demagogo è costretto a contare sull’«effetto»; egli si trova perciò continuamente in pericolo tanto di diventare un mero attore quanto di prendere con leggerezza la responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi solamente dell’«impressione» che suscita. L’assenza di una causa lo porta ad aspirare alla luccicante apparenza del potere invece che al potere effettivo; la mancanza di responsabilità a godere del potere soltanto per il potere stesso, senza uno scopo concreto”.
Come se ne esce? Il problema è culturale. L’attuale classe dirigente politica è il riflesso (peggiore) dell’attuale società postmoderna. Questi parlamentari sono stati votati. Dalla società civile occorre dunque ripartire, per ricostruire culturalmente un Sapere. Che è sempre politico.
1) I virgolettati contenuti nell’articolo sono tratti dall’edizione Einaudi, 2004
2) Cfr. Giovanna Cracco, Covid-19. Cavalcare la tigre. Guardare il dito e non la luna, Paginauno n. 68/2020
3) Le audizioni delle varie Commissioni sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono state trasmesse, in diretta o differita, da Radio Radicale, e possono essere risentite/viste sul sito https://www.radioradicale.it
4) Cfr. Giovanna Cracco, art. cit.
5) Massimo Giannini, Aspettando il governo dei migliori, La Stampa, 17 gennaio 2021
6) Marcello Sorgi, I costruttori senza futuro, La Stampa, 17 gennaio 2021