Nel giugno 2008 scoppia il caso giudiziario della clinica Santa Rita e del dottor Pier Paolo Brega Massone, e lo scandalo mediatico della clinica degli orrori e del mostro: il primario di chirurgia toracica è accusato di avere inutilmente operato una novantina di pazienti per ricavarne un profitto personale. Nell’ottobre 2010 la sentenza di primo grado lo ritiene colpevole di falso, truffa e lesioni dolose aggravate. Tutti d’accordo, quindi, dalla magistratura ai media alla società civile.
Tuttavia un’attenta lettura delle carte del processo solleva molti interrogativi. Le consulenze mediche dell’accusa presentano lacune e scelte metodologiche dubbie, eppure sono quelle della difesa a essere ritenute “inattendibili”; lo scontro in aula è stato aspro, supportato da valutazioni scientifiche diametralmente opposte, ma il tribunale non ha disposto una perizia super partes; lontane dal fornire prove di reato, le intercettazioni telefoniche sono servite a tracciare una disamina psicologica negativa dell’imputato, con evidenti forzature interpretative. In aggiunta, la vicenda che ha dato avvio alle indagini giudiziarie – una relazione prodotta dalla Asl città di Milano – si rivela fortemente contraddittoria e inspiegabile nei suoi successivi sviluppi.
Basterebbe questo a far nascere un ragionevole dubbio, ma le carte contengono molto altro. L’unica certezza è la condanna del mostro a 15 anni e 6 mesi.
A febbraio 2012 esce il libro E se il mostro fosse innocente? Controinchiesta sul processo a Brega Massone e sulla clinica Santa Rita a firma di Giovanna Baer e Giovanna Cracco, basato sulle carte giudiziarie. Dal 6 marzo 2012 Giovanna Cracco segue tutte le udienze del dibattimento in aula di Appello, poi la Cassazione; dal maggio 2013 segue anche il secondo filone del processo, caratterizzato dall’accusa di omicidio volontario, primo grado, Appello e Cassazione. Scrive le sue “controcronache” mettendo on line le fonti primarie documentali del processo (trascrizioni di intercettazioni telefoniche, interrogatori, consulenze mediche).
Milano, 6 marzo 2012, udienza Appello
Davanti alla quarta Corte d’Appello, si sono ieri riaperte le porte dell’aula giudiziaria per Pier Paolo Brega Massone, il primario di chirurgia toracica accusato di avere inutilmente operato una novantina di pazienti per ricavarne un profitto personale e condannato in primo grado a 15 anni e 6 mesi per falso, truffa e lesioni dolose aggravate.
Pochi giornalisti ad assistere, nessuna ressa di telecamere, e oggi sui giornali giusto qualche trafiletto nelle pagine locali. Vien da dire che la vicenda non faccia più notizia. Per due ragioni, probabilmente.
La prima: la ‘clinica degli orrori’ ha già ben riempito le pagine dei quotidiani e dei telegiornali per mesi, dal momento degli arresti fino alla sentenza di primo grado, e non può certo garantire oggi di suscitare nell’opinione pubblica la stessa indignazione (ossia vendita di copie/share di ascolti) assicurata al momento dello scoppio dello scandalo.
La seconda ragione, legata inevitabilmente alla prima, rivela una volta di più quanto l’idea della colpevolezza del medico sia ormai ossificata nel sentimento generale (idea generata da una campagna mediatica schierata in blocco, in questi quasi quattro anni, per la tesi colpevolista), al punto da non far ritenere, nemmeno ai media, che il processo di appello possa mutare la sentenza di condanna emessa in primo grado: seguire dunque questa seconda fase del dibattimento appare una perdita di tempo.
Eppure sa bene il giornalista che non è il fatto a fare la notizia ma la notizia a fare il fatto: ciò di cui la stampa non parla, non esiste, con tutto quel che ne consegue in termini di informazione ai cittadini e di creazione/manipolazione dell’opinione pubblica; e di rischio di bucare una notizia.
Perché ieri, in aula, la notizia c’è stata eccome.
La difesa di Brega Massone ha presentato la richiesta di acquisire agli atti due prove sopravvenute – ossia sopraggiunte dopo la chiusura del processo di primo grado.
La prima è una consulenza tecnica. La signora DP, uno dei pazienti per i quali il chirurgo è stato condannato in primo grado per truffa e lesioni dolose, sulla base del riconoscimento a suo danno avvenuto in sede penale si è rivolta al tribunale civile per ottenere un risarcimento. Il giudice del nuovo procedimento ha nominato un collegio peritale super partes, composto dal dottor Gennarino D’Ambrosi, specialista in chirurgia generale, chirurgia toracica microchirurgia e chirurgia sperimentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, e dal dottor Sergio Tentori, specialista in medicina legale e delle assicurazioni. Per farla breve, visitata la paziente e valutato l’intero incartamento clinico, la perizia presentata ha totalmente capovolto la sentenza data nel processo penale in merito al caso specifico: “L’intervento è stato eseguito in modo corretto” è stata la conclusione dei due medici, e la paziente “è in buone condizioni generali di salute e nessuna conseguenza è derivata dall’intervento che è stato eseguito a regola d’arte”. La stessa opinione che avevano espresso nel dibattimento di primo grado i consulenti della difesa, i professori Giampaglia e Lampl.
Ora: questo fatto è già di per sé una notizia, poiché va a evidenziare quanto nella sentenza di condanna di primo grado possa avere pesato la mancanza di una perizia super partes richiesta dagli avvocati e non disposta dal tribunale. Vi abbiamo infatti dedicato attenzione anche nel libro inchiesta E se il mostro fosse innocente?, chiedendoci quanti casi simili possano esserci tra gli oltre ottanta per i quali si è avuta sentenza di condanna. È una domanda più che legittima, a cui una perizia super partes – se sarà disposta in questa seconda fase del dibattimento – potrà dare una risposta.
Ma non basta, perché a questa notizia se ne aggiunge un’altra, se possibile ancora più clamorosa: alla richiesta di acquisizione agli atti della consulenza Tentori-D’Ambrosi, il sostituto procuratore Gian Luigi Fontana – che veste il ruolo dell’accusa in questo secondo grado al posto dei ppmm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano – non solo non si è opposto e si è rimesso alla decisione della Corte, ma ha affermato: «Non andiamo a cercare farfalle sotto l’arco di Tito [dotta citazione dalle Odi Barbare del Carducci, più tristemente nota agli italiani di buona memoria per essere stata pronunciata in Parlamento da Mussolini il 3 gennaio 1925 nel discorso con cui inaugurava, a tutti gli effetti, la dittatura, n.d.a.] questa relazione è una zeppa all’intero impianto accusatorio, e la difesa lo sa benissimo». Il procuratore Fontana ha dunque riconosciuto l’importanza di questa nuova prova sopravvenuta, definendola addirittura una ‘zeppa’, un inciampo, un blocco, capace di mettere in crisi non solo il caso specifico ma l’intero impianto accusatorio.
E giusto per dovere di cronaca, occorre registrare che gli unici a opporsi all’acquisizione della perizia sono stati gli avvocati dei pazienti costituitisi parti civile e il legale che rappresenta l’Ordine dei Medici di Milano.
La seconda prova presentata è un decreto di archiviazione, datato novembre 2011, richiesto dal pm e disposto dal gip nei confronti delle accuse di lesioni aggravate, per interventi ritenuti inutili e dannosi, mosse da due pazienti a carico del dottor Lorenzo Spaggiari, primario di chirurgia toracica allo Ieo di Milano. La richiesta di archiviazione è stata formulata dal pm e accettata dal gip sulla base di consulenze medico-legali che hanno evidenziato come il dottor Spaggiari abbia, al contrario, agito correttamente. La difesa del dottor Brega ritiene i casi oggetto di archiviazione del tutto simili a quelli contestati al chirurgo della Santa Rita e per i quali Brega è stato invece condannato in primo grado; ritiene quindi che il decreto di archiviazione possa essere una prova a sostegno della non colpevolezza del medico e della correttezza del suo operato.
La Corte ha accolto entrambe le carte come documenti e non come fonti di prova.
La difesa del chirurgo ha inoltre chiesto la riapertura del dibattimento, e su questo i giudici si pronunceranno.
Questo è quanto di rilevante, a nostro avviso, è accaduto ieri in aula. È nostra intenzione seguire tutte le udienze del processo di appello e fornire una controcronaca di questo secondo dibattimento. Controcronaca, perché se l’informazione seguisse con attenzione le udienze dandone dettagliata e approfondita notizia, potremmo chiamarla semplicemente cronaca, ma pare non sia così. Come ci siamo ritrovati a dover definire controinchiesta un libro basato sugli atti processuali, e che avremmo potuto chiamare semplicemente inchiesta se l’informazione, in questa vicenda, avesse camminato sulle proprie gambe, assumendosi il dovere di leggere gli atti, fornirne una valutazione autonoma e informare in modo completo l’opinione pubblica.