Le strade del male di Antonio Campos
Il recente ritiro dall’Afghanistan degli Stati Uniti, con la conseguente ripresa del potere da parte dei talebani, ha fatto sì che si tornasse a parlare di crisi degli Usa e dell’Occidente in generale. Un tema che si era posto già da tempo nel cinema, se si pensa che il primo film della trilogia del regista canadese Denys Arcand, intitolato Il declino dell’impero americano, risale al 1986 (gli altri due sono Le invasioni barbariche del 2003 e La caduta dell’impero americano del 2018). Ma, fin dalle sue origini, la settima arte ha funzionato alla stregua di uno specchio, a volte impietoso, più spesso deformante in senso propagandistico e consolatorio, di tutte le contraddizioni e inquietudini delle varie nazioni in cui andava sviluppandosi, compresi ovviamente gli Stati Uniti, pionieri indiscussi dell’industria cinematografica.
Non ci interessa in questa sede approfondire i motivi geopolitici che hanno portato gli Usa a essere causa dell’ennesimo disastro umanitario, perpetrato al di fuori dei propri confini. Piuttosto tenteremo di descrivere il modo in cui l’immaginario americano agisce in rapporto alla storia del Paese. E per farlo applicheremo gli strumenti offertici da un interessante saggio di Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia dal titolo Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano (manifestolibri, 2015) all’analisi di un film recente, Le strade del male (2020) di Antonio Campos, tratto da un romanzo di Donald Ray Pollock, pubblicato nel 2011.
Siamo nel 1945. Di ritorno dal fronte giapponese, facendo tappa a Meade, una cittadina cartiera dell’Ohio, Willard Russell (Bill Skarsgård) conosce Charlotte (Haley Bennett), la cameriera di una tavola calda, di cui si innamora e che sposa di lì a poco, nonostante i tentativi della madre Emma (Kristin Griffith) di maritarlo a Helen Hatton (Mia Wasikowska) – una ragazza di Coal Creek, West Virginia, rimasta orfana in seguito all’incendio della casa in cui abitava con i genitori – secondo un voto fatto a Dio nella speranza che ciò servisse a riportarle il figlio vivo dalla guerra. Emerge qui un tema estremamente battuto nel film, ovvero il peso della religione nella cultura a stelle e strisce, fonte spesso di un vero e proprio fanatismo. Ma non è questo il caso di Emma, la quale, dopo essersi resa conto della vacuità del suo progetto, accetta l’unione tra Willard e Charlotte, senza troppe preoccupazioni. Da un punto di vista prettamente narrativo, tuttavia, l’infrazione del voto acquisisce il carattere di un presagio relativo al gran numero di tragedie che è destinata a patire la famiglia Russell – e non solo.
Nel frattempo, Willard e Charlotte hanno un figlio, Arvin (interpretato da Michael Banks Repeta quando è bambino e da Tom Holland nel momento in cui diviene adulto) – come vedremo, il vero protagonista del film – e con lui si trasferiscono a Knockemstiff, Ohio, un paesino di quattrocento anime, tutte in un modo o nell’altro imparentate tra loro: “[…] per lussuria, necessità o semplice ignoranza”, commenta la voce fuori campo. E vale la pena soffermarsi su questo punto, poiché si ha qui un ribaltamento grottesco dell’ideale puritano descritto da Ilardi e Tarzia nel saggio sopracitato.
Per i primi coloni americani, infatti, lo spazio esterno era gravido di minacce, l’ambiente della wilderness in cui il Male può mettere radici e proliferare incontrastato. Le piccole comunità che iniziavano a formarsi a quel tempo avevano, dunque, una funzione protettiva e fondativa insieme, essendo i luoghi in cui ricreare sulla Terra la Gerusalemme celeste, la città di Dio edificata attorno alla fede e alla purezza dei suoi abitanti, certo, ma in primis alla loro natura di ‘prescelti’. Sì, perché, secondo la mentalità puritana, sviluppatasi in Inghilterra durante il XVI secolo nell’ambito del protestantesimo calvinista e poi ‘esportata’ nel Nuovo Mondo, ogni essere umano è predestinato fin dalla nascita a perseguire il Bene o il Male, a fare il suo ingresso in paradiso dopo la morte o a bruciare all’inferno per l’eternità.
Una simile convinzione confligge, tuttavia, con il concetto di libero arbitrio. Sicché, per salvare capra e cavoli, seppur in maniera alquanto contorta e non priva di paradossi, interviene la teologia del Patto, la quale prevede una sorta di contratto stipulato tra Dio e i propri eletti: “In altre parole Dio e gli eletti sono legati da un giuramento reciproco, l’uno si impegna alla salvezza del secondo, gli altri alla fede nei confronti del primo. Una sorta di unico, iniziale libero arbitrio è salvo, mentre la rigida e oscura predestinazione del calvinismo originario, l’angoscia derivante dal persistere del dubbio sulla propria elezione, si scioglie grazie al ‘contratto’. Una volta liberato da questa ossessione, il prescelto può partire alla conquista del nuovo mondo” (1).
Sarebbe interessante soffermarsi ora su come il puritanesimo abbia influenzato moltissimi aspetti dello stile di vita e della cultura americana, non ultima la politica, come risulta evidente dal genere di narrazione instauratasi all’indomani dell’11 settembre 2001, do-ve la ‘guerra al terrorismo’ veniva presentata nella veste di uno scontro assoluto tra Bene e Male; e sarebbe altresì interessante indagare le cause per cui, in determinati momenti storici, compreso quello attuale, gli Stati Uniti abbiano avvertito con tanta più forza il bisogno di un nemico esterno – fossero gli indiani, i comunisti o i musulmani – in contrasto al quale definire la propria identità. Ma un simile discorso ci porterebbe troppo lontano, e per il lettore intenzionato ad approfondire questo argomento rimandiamo al lavoro di Ilardi e Tarzia. Per le finalità della nostra analisi, ci basti considerare Kockemstiff una copia in negativo delle comunità di pionieri a cui abbiamo accennato più sopra; dunque, uno spazio chiuso in se stesso, dove il Male, lungi dall’essere tenuto all’esterno, si è diffuso e ha prosperato alla stregua di una pianta infestante.
Qui i Russell sono gli unici a non essere imparentati con qualcuno. E per questo motivo il giovane Arvin si trova a subire gli insulti e le botte di alcuni compagni di scuola. Vedendolo tornare a casa con l’ennesimo occhio nero, il padre gli intima di porre fine alla faccenda, sottintendendo il fatto che Arvin dovrebbe reagire alla forza con la forza. Senonché, mentre i due sono genuflessi sul ceppo della preghiera – sorta di altare con una croce di assi inchiodate, eretto da Willard nel bosco dietro casa – vengono derisi da una coppia di bracconieri, che si produce anche in una serie di pesanti commenti su Charlotte. E Willard, invece di reagire, si ostina a pregare – ma non per viltà o ipocrisia, come risulta chiaro più avanti. Per lui, infatti, ogni cosa ha il suo tempo – quasi un’applicazione letterale di quanto scritto nell’Ecclesiaste. Se, dunque, c’è un tempo per pregare, c’è anche un tempo per vendicarsi, e i due momenti non vanno confusi o mescolati insieme. Un insegnamento destinato ad avere un grande influenza su Arvin, complice la scena in cui il padre picchia a sangue i due bracconieri, dopo essersi assicurato che il figlio assista dall’auto.
Qui sembrerebbe che un primitivo senso di giustizia possa ancora avere la meglio sul Male e che lo scontro con quest’ultimo sia una semplice faccenda di muscoli e un po’ di strategia. Senonché il giorno stesso, di ritorno a casa, Willard e Arvin trovano Charlotte svenuta sul pavimento. La diagnosi è cancro, chiara metafora della corruzione diffusa nella comunità, rispetto alla quale ora non è possibile opporre alcuna resistenza. Ciononostante, Willard non si dà per vinto, certo che per salvare la moglie Dio può arrivare laddove si ferma la scienza. Iniziano allora delle lunghe sessioni di preghiera a cui partecipa anche Arvin, obbligato dal padre. Quando anche questo sistema però si rivela inefficace, Willard offre Jack, il cane del figlio, in sacrificio a Dio. Come commenta la voce fuori campo: “Pensò che forse Dio si aspettava qualcosa in più delle preghiere e della sincerità. Dio aveva la tendenza a chiedere sacrifici agli uomini per dimostrare la loro fede”. Nel romanzo di Pollock, si spinge addirittura a uccidere un essere umano per la stessa ragione, e il fatto che ciò non avvenga qui rappresenta una delle poche variazioni alla trama presenti nel film, le quali hanno, tuttavia, il pregio di rendere la storia decisamente migliore dal punto di vista dell’economia narrativa.
Tornando al cane, è importante sottolineare che Willard non si limita a sopprimerlo, ma addirittura inchioda le sue spoglie alla croce di legno posta sul ceppo della preghiera. Per spiegare questo comportamento, si pone ora necessaria una breve digressione sulle e-sperienze patite da Willard sulle isole Salomone durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui, infatti, l’ex soldato era incappato in un altro marine crocifisso dai giapponesi, ancora vivo, ma praticamente già ridotto a un ammasso di carne putrefatta. L’unica cosa che Willard aveva potuto fare per lui era stata sparargli un colpo in testa per abbreviarne l’agonia.
Ecco allora emergere un tema centrale per la comprensione del film, ovvero la coazione a ripetere il trauma – vera fonte del Male – il quale sembra tramandarsi addirittura di generazione in generazione per diffondersi nel mondo, e qui il richiamo all’horror Hereditary – Le radici del male (2018) di Ari Aster è immediato.
Un ulteriore parallelismo potrebbe essere arrischiato, inoltre, tra il lavoro di Pollock/Campos e l’opera William Faulkner non solo in relazione all’atmosfera tipica del romanzo gotico sudista – per quanto nel nostro caso la vicenda si svolga nel nordest degli Stati Uniti – ma anche in virtù del fatto che i personaggi faulkneriani, così come quelli di Pollock/Campos, paiono essere vittime di un fato inalterabile. Secondo un’analisi di Fernanda Pivano: “È proprio il rapporto tra presente, passato e futuro e la realizzazione di questo rapporto a dare alla pagina di Faulkner il senso di sospensione che la caratterizza. Perché il rapporto viene attuato presentando il racconto, cioè il presente, come se il lettore ne conoscesse già la conclusione, cioè il futuro, oltre a conoscerne naturalmente il passato. Questo è possibile appunto perché la realtà è per Faulkner un destino e, come tale, è presente sempre in un racconto a costituirne il futuro. Faulkner non racconta mai per preparare ciò che avverrà o a ciò che avverrà, perché ciò che avverrà esiste già in ciò che avviene, e Faulkner si sforza continuamente di insinuarlo e distillarlo nel racconto di ciò che avviene” (2). A conferma di ciò, basti il seguente esempio tra i tanti che si sarebbero potuti estrapolare dall’opera di Faulkner: “Fuggiva, non dal passato, ma per salvarsi dal futuro. Gli ci vollero dodici anni per capire che non si fugge da nessuno dei due” (3). Quanto scritto finora risulterà tanto più evidente in relazione al lavoro di Pol-lock/Campos, se si considera il modo in cui le strade dei vari personaggi sono destinate a incrociarsi.
Quando, infine, com’era inevitabile, Charlotte muore, Willard non riesce a superare il fatto e si suicida – il peccato più grave dal punto di vista di un cristiano – tagliandosi la gola sul ceppo della preghiera. Arvin si trasferisce allora nella casa della nonna Emma e dello zio Earskell (David Atkinson) a Coal Creek, i quali, nel frattempo, hanno adottato Lenora (Eliza Scanlen), la figlia di Helen Hatton, avuta con un folle predicatore di nome Roy Laferty (Harry Melling) che nel 1950 si era reso responsabile dell’omicidio della moglie, perpetrato allo scopo di resuscitarla come prova di fede. Lenora, il cui nome rimanda subito a Il corvo di Edgar Allan Poe, padre del gotico americano, è forse uno dei personaggi più rappresentativi di quanto abbiamo scritto riguardo all’ereditarietà del trauma. Come la madre, infatti, è destinata anche lei a innamorarsi di un predicatore, il reverendo Preston Teagardin (Robert Pattinson) – personaggio che ricorda per molti aspetti quello interpretato da Robert Mitchum in La morte corre lungo il fiume (1955) – che sarà causa della sua fine violenta.
Siamo nel 1965. Lei e Arvin sono cresciuti insieme come fratello e sorella. Lenora viene spesso bullizzata da alcuni compagni di scuola, proprio co-me accadeva ad Arvin da piccolo. Ma lui ha ormai interiorizzato l’insegnamento del padre riguardo all’aspettare il momento giusto per vendicarsi. Ed è esattamente quello che fa, andando a prendere uno per uno gli aguzzini di Lenora e picchiandoli come Willard aveva fatto con i due bracconieri, rei di aver insultato Charlotte. Senonché il proposito di proteggere la sorella acquisita è mal diretto. È proprio mentre Arvin sta compiendo la sua serie di pestaggi, infatti, che Lenora viene sedotta per la prima volta da Teagardin, il quale approfitta della fragilità della ragazzina e della sua fede ingenua.
Una relazione in seguito alla quale lei resta incinta, fatto che si preoccupa subito di comunicare a Preston, attirandosi da questi l’accusa di essere pazza e il ‘consiglio’ di sbarazzarsi del bambino finché è in tempo, onde evitare di coprire la famiglia di vergogna. A causa di ciò, Lenora prende la risoluzione di uccidersi (come Willard), salvo poi cambiare idea all’ultimo momento. Senonché, con il cappio già al collo, inciampa nel secchio su cui si era sistemata allo scopo di impiccarsi e muore così, aggiungendo al danno la beffa per cui nessuno saprà mai che non si è suicidata davvero. Quando, attraverso alcune indagini, Arvin scopre che è Teagardin il responsabile della morte di Lenora, decide di vendicarla, usando come arma una vecchia Luger che Willard aveva portato dal fronte, regalatagli dallo zio Earskell per il suo compleanno. Torna qui quel genere di continuità di cui abbiamo parlato più volte nel corso di questa analisi, ed è giunto il momento di sottolineare come in tale continuità la guerra abbia un ruolo centrale.
Il 1965, infatti, è l’anno in cui gli Stati Uniti invadono il Vietnam, un genere di conflitto molto diverso da quello combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale, quando impegnarsi contro il nazifascismo costituiva una priorità storica, e gli Usa avevano gioco facile a narrare se stessi in quanto liberatori d’Europa – a prescindere dai loro interessi geopolitici nella zona. In tutt’altro modo viene avvertito l’intervento nel Paese del sudest asiatico anche all’interno della nazione americana, come dimostrano i movimenti di protesta sorti in quegli anni. Senza contare il fatto che il Vietnam fu una disfatta anche da un punto di vista militare. Scrivono Ilardi e Tarzia: “Il Vietnam non mette in crisi in modo irreversibile l’America. È l’America che, in crisi di identità, applica uno dei suoi sistemi di ricomposizione simbolica più tipici: scatena una guerra e la racconta come in occasione della Seconda Guerra Mondiale.
Il punto è che non solo le vicende sul campo, ma anche tutti i risvolti simbolici e narrativi di quel conflitto, paiono confermare la crisi preesistente, finendo per continuare a incarnarla come un nuovo stereotipo, anche a distanza di decenni. Per la prima volta il rituale narrativo dei men at war perde le connotazioni esorcistiche che aveva avuto nei primi decenni del Novecento, e si vela di ‘tragico’, cioè di irrisolto. L’antico schema puritano della violazione-riconsacrazione-ritorno a ca-sa viene calato al di sopra di una realtà che non può reggerlo e che, al contrario, sembra ideale per evocare primordiali rimossi. È la seconda, terribile crisi del Novecento, dopo quella degli anni ‘30, e questa volta la soluzione ‘standard’ non funziona” (4).
Alla luce di ciò, risulta evidente la profondità del collegamento operato nel lavoro di Pollock/Campos tra la Seconda Guerra Mondiale e il conflitto vietnamita. Il trauma di Willard è la guerra. Ed esso si perpetua nella vita di Arvin, destinato anche lui a combattere numerose battaglie, mentre la radio trasmette continui aggiornamenti sulla situazione nel Paese del sudest asiatico. Prima contro i bulli che lo maltrattavano a scuola quand’era bambino, poi per opporsi agli aguzzini di Lenora, fino ad arrivare all’uccisione del reverendo Teagardin. Ma non solo: dopo avere sparato a quest’ultimo con la Luger, infatti, Arvin pensa di fuggire, ma sente il bisogno di rivedere ancora una volta la sua casa di Knockemstiff.
Come ci informa la voce fuori campo: “Doveva andarsene da quel posto o da qualunque posto avesse chiamato casa. Ma in quel momento sentì un’improvvisa forza trascinarlo di nuovo verso Knockemstiff. Qualunque cosa fosse accaduta, doveva sistemare le questioni in sospeso con suo padre che gli divoravano ancora il cuore”. In questo senso, Le strade del male può essere considerato alla stregua di un Bildungsroman in quanto le prove affrontate da Arvin costituiscono le tappe di un percorso di crescita, alla fine del quale si trova l’accettazione e interiorizzazione delle proprie origini. Prima che ciò avvenga, tuttavia, il ragazzo ha altri due confronti con la morte. Il primo con una coppia di seria-killer, Carl (Jason Clarke) e Sandy (Riley Keough), soliti scegliere le loro vittime tra gli autostoppisti, come vuole una lunga tradizione americana. E vale la pena qui aprire una parentesi sulla figura dello psicopatico, tanto presente in questo film e, in generale, nella cultura a stelle e strisce.
Secondo Ilardi e Tarzia, essa è, infatti, rappresentativa della crisi dell’immaginario statunitense in rapporto all’ideale della frontiera. Abbiamo già visto come i puritani avvertissero lo spazio esterno alla comunità come un vuoto in cui il Male può proliferare incontrastato. Ma, considerando la frontiera, tale concezione si ribalta, e lo spazio esterno acquisisce il valore positivo di un luogo in cui potersi stanziare ed esprimere liberamente la propria individualità, qualunque essa sia, senza compromessi. A tal proposito, diventa necessario sottolineare come nella cultura americana sia praticamente assente una mediazione tra desiderio e realtà. Quello che uno statunitense immagina lo deve realizzare, altrimenti non ha nemmeno senso averlo immaginato.
Per comprendere tale assunto può essere utile riportare quanto sostenuto da Nietzsche a proposito dei genovesi, rilevando, tuttavia, una differenza sostanziale: in questo caso, infatti, l’assenza di territori vergini fa sì che l’estrinsecazione del proprio Io avvenga in contrasto a quello altrui in un processo continuo di trasformazione dell’esistente, emblematico di come la cultura europea sia influenza dal concetto di tempo piuttosto che da quello di spazio: “Vedo sempre l’uomo che costruisce far riposare il suo sguardo su tutto quanto gli è stato edificato intorno, lontano e vicino, e così pure sulla città, sul mare e sui contorni delle montagne; ed esercitare con questo sguardo il suo potere e il suo dominio: tutto questo egli vuole inserire nel suo disegno e farne infine la sua proprietà, per il fatto che entra a farne parte. Questa intera contrada trabocca di questo magnifico, insaziabile egoismo che gode del possesso e della preda; e come questi uomini non riconoscevano nessun confine nella lontananza e, nella loro sete di cose nuove, instaurarono un mondo nuovo di fianco all’antico, così anche in patria ognuno continuava a ribellarsi sempre l’uno contro l’altro ed escogitava sempre un modo per esprimere la sua superiorità e per interporre tra sé e il suo vicino la sua personale infinitudine. Ognuno riconquistava ancora una volta per sé la sua patria, soggiogandola con i suoi pensieri architettonici e trasformandola, per così dire, nella delizia della sua casa” (5).
Al contrario, per gli americani – i quali evidentemente non hanno mai considerato la presenza degli indiani un ostacolo alla loro fame di terra – la frontiera diventa, tra le altre cose, un perfetto strumento di rimozione del conflitto sociale: “[…] è proprio il sogno della terra promessa dove scorrono latte e miele, un sogno messianico ma tremendamente materiale, a fare in modo che la questione sociale non sia riuscita a invadere il campo della politica e a influenzare o modificare l’agenda dei Padri Fondatori. La fatale passione per la ricchezza improvvisa, che in Europa cominciava a creare i primi conflitti nelle metropoli (descritti da romanzieri come Balzac, Maupassant, Zola), in America poté essere tenuta a bada almeno abbastanza a lungo grazie alla presenza di un territorio potenzialmente infinito” (6).
Senonché già alla fine dell’Ottocento la frontiera storica si esaurisce. Si pone allora la necessità di inventare surrogati a quegli spazi fisici ormai pericolosamente affollati, di cui Internet, con il suo corollario di dispositivi e applicazioni, è solo l’ultimo ritrovato. Ma tali strumenti si rivelano sempre per quello che sono, ovvero deboli astrazioni di ciò che un tempo costituiva una possibilità estremamente concreta, incapaci di assorbire quella smania, tipicamente americana, di una totale affermazione di sé. Da qui il senso di irrequietezza manifestato dagli statunitensi a partire soprattutto dal secondo dopoguerra, come dimostrano i viaggi in auto compiuti dagli esponenti della Beat Generation negli anni Cinquanta, i quali fanno pensare all’agitarsi di una mosca intrappolata in un bicchiere.
Con la stessa frenesia, Carl e Sandy si muovono lungo le strade del West Virginia in cerca delle loro vittime. Il modus operandi è sempre lo stesso: Carl offre all’autostoppista di turno la possibilità di ‘divertirsi’ con la moglie, mentre lui scatta delle foto, le quali finiscono invariabilmente per ritrarre un cadavere. Ed è interessante notare come per Carl tali immagini acquisiscano il valore di una nuova frontiera. Scrivono Ilardi e Tarzia: “[lo psicopatico], da perfetto frontiersman, è colui che si rifiuta di accettare il fatto che la frontiera sia finita e che quindi sia ormai necessario limitare l’estroflessione della propria interiorità e la realizzazione, senza compromessi, dei propri desideri. La stessa mancanza di empatia o di rimorso fanno dello psicopatico l’emblema dell’individuo orfano della frontiera. L’empatia, permettendo al soggetto di identificarsi nell’altro, è la base inconscia su cui si costruiscono mediazioni e compromessi. Nello spazio vuoto della frontiera in cui lo psicopatico crede di vivere non è necessario mettersi nei panni dell’altro, anzi è addirittura controproducente: per realizzare l’utopia il primo nemico da abbattere è proprio l’empatia […]” (7). Senonché Arvin si accorge in tempo delle reali intenzioni di Carl e Sandy e li uccide prima che loro possano farlo con lui.
Da quanto scritto finora, si capisce come Le strade del male sia un’opera decisamente iperbolica, connotata da uno spiccato gusto per il grottesco e l’esagerazione. Ma bisogna considerare anche e soprattutto quella sorta di meccanismo fatale a cui abbiamo accennato sopra in rapporto ai romanzi di Faulkner. Allora non ci stupirà sapere che Carl e Sandy si erano conosciuti nel 1945 a Meade nello stesso giorno e nella medesima tavola calda in cui Willard aveva incontrato Charlotte per la prima volta; che la coppia di serial-killer è responsabile, tra gli altri, dell’omicidio di Roy Laferty, in fuga dopo la mancata resurrezione della moglie; che Sandy è la sorella di Lee Bodecker (Sebastian Stan), il poliziotto giunto per primo al ceppo della preghiera, dopo il suicidio di Willard; e che proprio con quest’ultimo Arvin avrà il suo ultimo confronto con la morte. Bodecker è, infatti, un personaggio estremante corrotto, divenuto sceriffo in virtù della forza propulsiva di tangenti e favori di vario tipo. È, inoltre, colluso con Leroy (Douglas Hodge), un criminale di Meade, i cui affari ruotano soprattutto attorno al racket della prostituzione. Il che è per Bodecker come una spada di Damocle appesa sopra la sua testa, essendo prossime le nuove elezioni per scegliere lo sceriffo della contea e già numerose le chiacchiere sul suo conto. Motivo per cui si decide a uccidere Leroy e la sua guardia del corpo, fatto non presente nel libro di Pollock, ma che nel film ha la funzione di preparare allo scontro che Bodecker avrà con Arvin, dimostrando fino a che punto è disposto a spingersi il primo.
Lee sapeva già che la sorella e Carl stavano combinando qualcosa di strano. Quando scopre della morte dei due, si affretta, dunque, a perquisirne la casa in modo da sbarazzarsi di potenziali prove che potrebbero produrre un effetto devastante sulla sua campagna elettorale. Dimodoché tutte le foto di Carl vengono bruciate, o meglio, tutte tranne una, quella che Arvin aveva preso dal portafoglio del serial-killer in modo da potersi giustificare in caso di un eventuale arresto. Quando lo sceriffo di Coal Creek chiama Bodecker per informalo dei sospetti su Arvin – “un ragazzo delle tue parti” – riguardo alla morte di Teagardin, e nel corso nella telefonata emerge anche il fatto che il reverendo è stato ucciso con lo stesso genere di pistola con cui hanno sparato a Carl e Sandy, Lee fa due più due e si reca al ceppo della preghiera, dove spera di trovare Arvin per eliminarlo in qualità di testimone scomodo. Senonché è proprio Bodecker a morire in seguito a uno scontro a fuoco con il ragazzo.
A questo punto, dovrebbe apparire chiaro come Arvin rappresenti nel film una sorta di agente purificatore del Male che attanaglia la comunità in una dinamica simile a quella descritta da Alexandre Dumas ne Il conte di Montecristo in cui il personaggio di Dantès diventa incarnazione della Provvidenza. In questo senso, va letta la scena in cui Arvin seppellisce finalmente, come si era proposto di fare da bambino, senza che però avesse modo di adempiere a tale proposito, i resti del cane crocifisso, metafora del trauma. Sottoterra, insieme alle ossa, finisce anche la Luger, simbolo della ‘guerra’ combattuta dal ragazzo, ormai conclusa, come viene evidenziato, inoltre, dal fatto che, nella scena finale del film, ad accogliere la richiesta di Arvin di un passaggio è un hippie a bordo di un pulmino.
Sembrerebbe, dunque, riconfermarsi quello schema puritano di violazione-riconsacrazione-ritorno a casa a cui abbiamo accennato più sopra, citando il lavoro di Ilardi e Tarzia. Senonché il ritorno a casa avviene solo per metà: Arvin ha sì accettato e interiorizzato le proprie origini, comprendendo i motivi che avevano spinto il padre a suicidarsi, ma la sua natura di ricercato lo obbliga a una continua fuga verso una frontiera ormai inesistente. La radio del pulmino, intanto, ci informa che il presidente Lyndon B. Johnson ha intenzione di intensificare lo sforzo bellico in Vietnam. E se, immaginando di essere scagionato dalla legge, Arvin prova a pensare al suo futuro, riesce a farlo solo con l’idea di arruolarsi nell’esercito o formare una famiglia in una fatale predisposizione a ripercorrere le orme paterne. L’ombra del tragico e dell’irrisolto si stende, dunque, sul lieto fine solo apparente di questa storia, prefigurando ulteriori massacri, quelli che sappiamo già essere stati causati dagli Stati Uniti fino a oggi e quanti ancora ne dovremo conoscere con tutta probabilità negli anni a venire.
1) Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano, manifestolibri
2) Il testo è citato dalla voce fuori campo in una vecchia trasmissione della Rai dal titolo William Faulkner, cantore del Sud, disponibile al seguente indirizzo internet: https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/William-Faulkner-cantore-del-Sud-9c820e25-daa7-44d1-8e27-22e3932ece86.html. Chi scrive non è riuscito a risalire al saggio della Pivano a cui viene fatto riferimento
3) William Faulkner, Il borgo, Adelphi
4) Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, op. cit.
5) Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi
6) Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, op. cit.
7) Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, op. cit.