La magistratura, il caso Moro e il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti: contro la ricerca indipendente sugli anni ‘70
L’8 giugno scorso, su mandato della Procura di Roma, la polizia ha sequestrato a Paolo Persichetti il suo archivio. L’intero archivio di lavoro costruito in anni. L’accusa è di “divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro”, accusa associata al reato di favoreggiamento e al reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (!). Sia in merito al sequestro che ai reati sollevati, l’azione della Procura di Roma è surreale e inammissibile, oltre a sapere di atto intimidatorio. Persichetti è oggi il più competente studioso del caso Moro e il suo archivio probabilmente il più approfondito; da anni, nella veste di storico, attraverso articoli e libri, documenti e fonti alla mano, Persichetti smonta complottismi e dietrologie costruiti intorno al rapimento Moro, facendo pian piano luce. Senza l’archivio non può continuare a farlo.Se i reati sollevati sono, come sembra e ipotizza lo stesso Persichetti, “reati chiavistello” per poter agire con strumenti di indagine più invasivi – per esempio lo stesso sequestro dell’archivio – le domande da porsi sono: la ricerca storica, in Italia, è controllata dalla magistratura? Sono i processi giudiziari e/o le Commissioni parlamentari a dover consegnare una ‘Verità di Stato’ che nessun studioso deve porre in discussione? Quanto pesa ancora oggi la vicenda Moro? Paginauno ha già pubblicato, sul sito online e nella rivista cartacea, articoli di Paolo Persichetti sul caso Moro, e continueremo a farlo. Ora stiamo seguendo anche la vicenda del sequestro dell’archivio.
In Italia esiste un organismo di Polizia che si occupa di storia. Proprio così, si intromette nell’attività di ricerca, sorveglia il lavoro dello storico, ascolta le sue conversazioni con le fonti, intercetta le caselle di posta elettronica, sequestra archivi. Come in una sorta di scenario orwelliano si erge a Ministero della verità e con il suo occhio minaccioso amministra il passato, decide chi può scrivere, recinta gli argomenti, filtra i contenuti e sopratutto gli autori. Decide insomma come e chi può scrivere la storia. Questo nuovo organismo si chiama Polizia di Prevenzione, ex Ucigos, una struttura che nasce dalle ceneri della dissolta e famigerata Uar. Di sicuro non lo sapevate, a dire il vero nemmeno io ne ero al corrente fino a quando non ho letto l’informativa della Polizia di prevenzione del 21 dicembre 2020 (N.224/B1/Sez.2 /18803/2020, procedimento penale nr. 93188/20). Un rapporto che fa seguito a una lunga serie di indagini originate nel gennaio 2019 e da cui è scaturita una ulteriore e intensa attività investigativa che ha radiografato l’esistenza della mia intera famiglia dalla fine del 2015 a oggi, e ancora domani e dopodomani, poiché l’attività investigativa e “tecnica” è tuttora in essere. Un attacco frontale al mio lavoro di ricerca che ha portato, l’8 giugno scorso, a una lunga perquisizione nella mia abitazione e al sequestro del mio intero archivio digitale, dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile. Non è stato portato via solo il materiale d’archivio raccolto e prodotto negli ultimi 15 anni, ma la storia della mia famiglia, di mia moglie e dei miei figli, il nostro passato, la nostra intimità.
L’irruzione nel passato
Questi nuovi storici con l’uniforme si intromettono nel lavoro complicato e complesso della ricostruzione del passato, fanno irruzione in quella bottega dove il ricercatore come un artigiano impasta le sue mani con la polvere del tempo: raccoglie documenti, testimonianze, tenta di colmare i buchi della memoria, rappezza brandelli di ricordi, tracce spezzettate, indizi che pazientemente prova a rimettere insieme, soprattutto a interrogare. Ma a questi nuovi sbirri del passato tutto ciò non interessa. Nella visione poliziesca della storia i testimoni, gli attori, i soggetti e i gruppi sociali vengono sostituiti dai colpevoli, dai fiancheggiatori e dalle vittime. Le sfumature non esistono, il contrasto è netto, bianco e nero, luce e tenebre, buoni e cattivi. Il terreno storiografico è solo un pretesto per cercare nuovi colpevoli, arrestare gli scampati, affibbiare nuovi ergastoli. La storia si fa riserva di caccia, un safari dove conquistare un trofeo da mostrare in manette a una conferenza stampa con tanto di selfie.
È con queste aspettative che il nuovo Ministero della verità – avrebbe detto Orwell – si è intromesso nel rapporto che in questi anni ho intrattenuto con alcune delle mie fonti, ha sorvegliato il lavoro preparatorio che ha portato alla stesura del primo volume del libro Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, scritto insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena e apparso nel febbraio 2017. «Peraltro – scrivono nella loro informativa – Persichetti emerge nelle e-mail oggetto di analisi anche in riferimento all’invio a Loiacono di documenti riguardanti una bozza di una futura pubblicazione relativa ad una ricostruzione dell’azione di via Fani, dalla pianificazione fino alla sua conclusione. Tale materiale è poi effettivamente confluito, sebbene con alcune modifiche, in un capitolo del citato libro. Queste ultime mail, in particolare, contengono una ricostruzione dell’azione di via Fani per alcuni versi distonica rispetto a quanto accertato sinora dai processi e dalle varie Commissioni sul sequestro dell’on. Moro. Lo scopo del libro – e quindi anche di queste e-mail che ne rappresentano una bozza preliminare – è assertivamente quello di “sgomberare il campo dalle mille bufale che circolano sul 16 marzo in via Fani” e di ribadire che “via Fani fu in tutto e per tutto un’azione operaia”. Finalità più volte esplicitata da Persichetti in più passaggi dello stesso libro, come per esempio a pagina 9, dove si legge testualmente “… Ciò che preme sottolineare qui per restare sul terreno della critica è la sordità cognitiva delle narrazioni dietrologie, impermeabili alle smentite accumulatesi nel tempo. Le teorie del complotto, a causa del loro divenire circolare, si sottraggono alla verifica della coerenza interna ed esterna delle loro asserzioni”».
Quella coerenza che sembra mancare anche ai poliziotti della memoria, come vedremo meglio tra un po’.
Una ricostruzione veritiera
«Si tratta di documenti – proseguono gli autori del testo – che forniscono una ricostruzione per alcuni versi inedita, basata sul Memoriale Morucci, ed integrata sulla base dei contenuti di alcuni libri scritti dagli stessi brigatisti e delle nuove dichiarazioni rese “agli autori da Moretti, Seghetti e Balzerani nel corso di una serie di conversazioni tra il 2006 e il 2016”». Ricostruzione che ad avviso della Polizia di prevenzione appare veritiera poiché «La lettura delle mail induce a ritenere che i protagonisti fossero “genuini” nella cristallizzazione dei propri ricordi, non fosse altro che per la presunzione di poter discutere in forma “riservata” […] Una analisi integrata del materiale a disposizione, partita dai dati desumibili da queste “inedite” mail, da rapportare poi alla versione “ufficiale” presente nel libro e a quella presente nel “memoriale Morucci”, non ha evidenziato elementi di novità ad eventuali altri brigatisti o soggetti estranei alle Brigate rosse che possano aver preso parte alla strage».
Non un ricercatore ma un favoreggiatore
Talmente veritiera che secondo i poliziotti non «avrei», in realtà sarebbe stato più corretto scrivere ‘avremmo’ (il libro è opera a più mani, ma alla polizia della storia fa comodo indicarmi come autore unico), riportato correttamente le informazioni raccolte. Per questo mi sarei macchiato di favoreggiamento, in particolare nei confronti di Alvaro Loiacono Baragiola. Nella relazione si sostiene che «la mancata trasposizione nel libro di alcuni passaggi invece presenti nelle email implica una scelta che potrebbe non essere solo di natura editoriale, ma anche “politica”, tenuto conto delle contraddizioni che pure erano emerse tra i racconti dei vari terroristi intervistati e tra questi e il memoriale Morucci e/o gli iscritti già pubblicati da alcuni militanti delle Br».
Affermazione impegnativa, che troverebbe senso solo se i poliziotti della storia avessero intercettato tutti i colloqui avuti dagli autori del libro in anni di incontri con i diversi testimoni e riscontrato difformità. Forse per questo sono venuti in casa, col pretesto della divulgazione di un inesistente documento riservato della Commissione (le relazioni annuali e le bozze delle relazioni non rientrano in questa fattispecie) per cercare appunti, schizzi, piantine, vocali e altri materiali raccolti nel corso della preparazione del primo volume e in vista del secondo. Una ingerenza indebita nel lavoro mio e di Marco Clementi (abbiamo curato insieme la parte del libro su via Fani).
È un fatto gravissimo. Non può essere un’autorità di polizia o la magistratura a sindacare il rapporto con le fonti e giudicare come un ricercatore affronta le contraddizioni, le difficoltà, gli errori, le illusioni o i buchi di memoria delle fonti orali a quarant’anni dai fatti. Nella informativa si sostiene che avremmo «cassato completamente» dal libro «le funzioni inedite svolte da Loiacono rispetto a quelle riscontrate processualmente» (tornerò tra poco sulla questione), ma la cosa davvero gratuita è il movente scelto dalla Polizia di prevenzione per giustificare questa presunta omissione. Secondo il Primo dirigente Di Petrillo e il vice Ispettore Vallocchia avrei intenzionalmente svolto «generale opera di rivisitazione del ruolo [dei brigatisti latitanti – anche se Loiacono è cittadino svizzero e ha scontato per intero la condanna] nell’azione di via Fani, assumendo anche i margini di una possibile forma di favoreggiamento».
Un lavoro rigoroso
Chiunque abbia letto il libro conosce perfettamente il lavoro minuzioso svolto, gli elementi di novità significativi introdotti nella ricostruzione del rapimento Moro grazie a una faticosa integrazione tra fonti documentali e nuove disponibilità delle fonti orali, che non si sono tirate indietro, intenzionate a dare un contributo definitivo di chiarezza nella ricostruzione dei fatti. Abbiamo insistito con loro affinché anche il minimo dettaglio venisse ricostruito, nei limiti delle possibilità che la memoria e i documenti potevano consentire. Abbiamo assistito al processo di rimemorizzazione in presa diretta di alcuni di loro, testimoni che hanno dovuto superare e correggere errori e illusioni stratificatesi a decenni di distanza dai fatti. Oggi sappiamo come sono arrivati sul posto i brigatisti quella mattina, tutte le armi che impugnavano, come hanno organizzato l’azione, collocato le macchine, la via di fuga ricostruita nel dettaglio, e molte altre cose ancora sulla vicenda politica del sequestro, aspetti che alla Polizia di prevenzione sembrano interessare ben poco.
Nonostante ciò, al momento di chiudere le bozze, alla fine del 2016, non siamo riusciti a chiarire un aspetto della via di fuga, per altro fino ad allora da tutti ignorato: ovvero come venne spostato un furgone di riserva, collocato nel quartiere di Valle Aurelia, che in caso di necessità sarebbe dovuto servire per un secondo trasbordo del prigioniero. Il confronto con gli altri testimoni che abbiamo potuto raggiungere è stato acceso ma purtroppo non risolutivo sul punto. Dovendo andare in stampa abbiamo così deciso di risolvere l’impasse delimitando l’informazione su due dati da noi accertati: non abbiamo mai scritto che Loiacono fosse sceso dalle scalette in fondo a via Licinio Calvo insieme a Balzerani, Bonisoli, Casimirri e Fiore. Abbiamo riportato quanto sostenuto da Moretti e confermato da tutti, che furono alcuni dei membri già identificati della Colonna romana che presero parte all’azione a spostare il furgone (p. 184).
Il suggeritore
Quello del ricercatore è un lavoro paziente e ostinato che non si arresta mai e negli anni successivi siamo più volte tornati sulla questione. Cosa c’entri questo lavorio storiografico con il favoreggiamento e l’associazione sovversiva, potete valutarlo da soli. Forse bisognerebbe chiederlo all’ex presidente della Commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che nel verbale di sommarie informazioni reso il 1 dicembre 2020 davanti al pm Eugenio Albamonte e ai vertici della Polizia di Prevenzione, ribadendo una sua personale e indimostrata ipotesi sulla presenza di un garage “amico” dei brigatisti in via dei Massimi 91, circostanza che smentirebbe – a suo dire – l’abbandono delle tre vetture del commando brigatista in contemporanea in via Licinio Calvo e la fuga attraverso le scalette che portano verso via Prisciano, ha sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». E fin qui nulla da obiettare. Ognuno può pensarla come vuole, anche se la disciplina dei riscontri richiede elementi concreti e verificabili, non illazioni senza fondamento. Il problema sorge quando Fioroni insinua che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della Commissione con riferimento a questo profilo». Lavori e stati di avanzamento destinati a diventare di dominio pubblico, quindi se quello fosse stato il fine di “queste terze persone” sarebbe bastato attendere. Di Fioroni, delle attività della sua Commissione, dei suoi carteggi con Loiacono e delle sue proposte indecenti, parleremo nella prossima puntata.
Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni ‘70
(Articolo pubblicato in data 6 luglio 2021 sul blog insorgenze.net)
Il tribunale del riesame ha rigettato il ricorso contro il sequestro del mio archivio, degli strumenti di lavoro e comunicazione, computer, smartphone, tablet e ogni altro supporto informatico, l’intero l’archivio fotografico di mia moglie, lo spazio cloud dove erano stoccati oltre al mio materiale storiografico anche le cartelle cliniche, amministrative e scolastiche dei miei figli.
All’udienza che doveva esaminare l’impugnazione presentata dal mio legale, tenutasi venerdì 2 luglio, era presente il pm titolare del decreto di sequestro. Una circostanza del tutto irrituale, non accade praticamente mai che i procuratori della Repubblica vengano a difendere le proprie ragioni in udienze del genere. Il pm probabilmente nutriva qualche timore sulla fondatezza delle sue decisioni ed è venuto in prima persona a cauzionarle. In aula, a dire il vero, non si è soffermato – come ci attendevamo e sarebbe stato logico – sulle ragioni che hanno giustificato la scelta dei capi d’imputazione. Nulla ha detto sul presunto favoreggiamento, ancora meno sul 270 bis. Eppure era stato appena chiamato in causa dall’avvocato Romeo che chiedeva quali fossero gli altri associati, le condotte censurate, il ruolo organizzativo presunto nell’associazione (semplice partecipante? Promotore? Organizzatore? Finanziatore?), i proclami, le azioni realizzate o programmate.
Anche sulla natura “riservata” dei documenti che avrei divulgato, il titolare delle indagini ha glissato velocemente, sostenendo che tutti i regolamenti inevitabilmente danno luogo a interpretazioni soggettive e che dunque sarebbe servito a poco soffermarsi su una discussione del genere. Non si capisce però, se le cose stanno così, perché la sua interpretazione soggettiva dovrebbe essere prevalente. In ogni caso stando all’articolo 2 della “Deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti”, stabilito dalla stessa Commissione presieduta dal presidente Giuseppe Fioroni il 15 ottobre 2014, sono considerati documenti riservati «gli atti giudiziari, i documenti provenienti dalle autorità amministrative e di governo per i quali sia stato raccomandato l’uso riservato, documenti provenienti da soggetti privati per i quali sia stata richiesta la riservatezza, infine documenti che al momento dell’acquisizione siano stati classificati come tali». Insomma secondo le regole che si è data la Commissione Moro 2, le Relazioni di bilancio annuale e tantomeno le loro bozze, che in un altra nota non assumono alcuna fattispecie documentale ma al contrario vengono ritenute «inesistenti», non sono documenti riservati. E non potrebbe essere altrimenti trattandosi di documenti politici, risultato di una discussione, di emendamenti e di un voto finale.
In un Paese normale la discussione si sarebbe conclusa qui. Ma in Italia il sistema Giustizia non funziona così e i pm dettano legge così il responsabile dell’accusa ha preso la parola narrando i suoi impegni professionali, i numerosi filoni d’inchiesta aperti che ha ereditato dalle attività irrisolte della Commissione Fioroni e che in parte condivide con la procura generale. Ha tirato fuori dal cilindro una serie di argomenti che non erano indicati nel provvedimento di sequestro e nelle carte depositate, impedendo alla difesa così di sviluppare le proprie controdeduzioni.
Ha spiegato che potrebbero esserci in giro altre prigioni dove Moro sarebbe stato rinchiuso nei 55 giorni del sequestro e dunque che ci sarebbero in giro ancora degli ex brigatisti mai catturati, affittuari o titolari di quelle abitazioni (sembrava recitasse a memoria i libri di Flamigni o Cucchiarelli), ha poi tirato fuori il cartellino fotosegnaletico falso su Alessio Casimirri (1) finito tra le mani della Commissione Moro, chiedendosi se quel documento fosse la prova dell’arresto di Casimirri e della sua successiva liberazione e quindi delle coperture di cui si sarebbe giovato nelle istituzioni o se invece quel documento fosse un falso, messo lì da pezzi “deviati” degli apparati. Sono passati tre anni dalla chiusura dei lavori della Commissione e il fatto che il responsabile dell’inchiesta non sia stato in grado di accennare uno straccio di risposta sulla questione, partendo da un assunto che era già palese all’epoca ovvero che quel cartellino era un falso, ma oggi pensi che la soluzione del mistero passi per il mio archivio e le cartelle cliniche di mio figlio, la dice lunga.
Infine, dulcis in fundo, come una serie americana, ha tirato fuori l’Fbi, l’indagine internazionale (probabilmente una semplice rogatoria) sulle caselle postali elettroniche di Alessio Casimirri, ormai cittadino nicaraguense. L’intercettazione del suo traffico email avrebbe portato – ha spiegato il pm – alla scoperta di conversazioni con Alvaro Lojacono Baragiola, suo compagno nelle Br al momento del sequestro Moro, e oggi cittadino svizzero, Paese dove ha scontato una lunga condanna per la sua appartenenza alle Brigate rosse. I due si sarebbero intrattenuti spesso sulle vicende di via Fani ricostruendone alcuni passaggi. Fatto grave, secondo il pm, era che Lojacono conversasse prima con Persichetti che poneva domande, sollevava questioni e poi ne parlasse con Casimirri. Non ho ancora avuto accesso a queste carte, e nemmeno i giudici del riesame che hanno deciso sulla parola del pm, posso solo ipotizzare che con tutta probabilità ciò avveniva negli anni in cui era in corso il lavoro preparatorio che ha portato al libro “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera”.
Con tutta evidenza, in quegli scambi non ci sono nomi nuovi, altrimenti le autorità di polizia sarebbero già intervenute, ma ai loro occhi questa normale attività di interrogazione delle fonti testimoniali, proprie di un lavoro di ricerca storiografica, appare sospetta, degna di ulteriori accertamenti e sequestri. A più di quarant’anni dai fatti, la polizia vuole ficcare il naso nella ricerca storica, criminalizzando l’attività di studio e ascolto delle fonti. Il pubblico ministero ha inviato un chiaro messaggio ai giudici del riesame: non intralciate le mie indagini, non cassate il mio sequestro esplorativo perché altrimenti bloccate la scoperta dei segreti di questo Paese che per forza di cose passano per casa Persichetti.
Altro dato emerso nell’udienza di venerdì è la sovrapposizione tra indagini della procura, attività delle forze di polizia e narrazioni dietrologiche. Un fronte comune schierato contro la ricerca indipendente. Le fonti testimoniali e chi va a scomodarle d’ora in poi dovranno saperlo: se provano a ricostruire quegli anni al di fuori dei circuiti istituzionali legittimi sono passibili di reato associativo e favoreggiamento. La storia è sotto sequestro, il rapimento Moro è recintato col filo spinato.
Di seguito potete leggere la dichiarazione che ho depositato davanti al riesame e che ricostruisce il lavoro preparatorio del libro e i rapporti intrattenuti con la Commissione Fioroni nel 2015.
Dichiarazione di Paolo Persichetti ai giudici del tribunale del riesame presso il Tribunale di Roma – udienza del 2 luglio 2021
Nelle carte dell’indagine depositate dal pubblico ministero dottor Eugenio Albamonte emerge una rappresentazione della mia biografia esistenziale e della mia attività di ricerca deformata e fuorviante.
Quando nel settembre del 1991 mi sono recato in Francia in possesso del mio passaporto ho iniziato ha lavorare in una scuola di lingue, dove tenevo dei corsi di alfabetizzazione e primo livello in alcune grosse società che formavano i propri dipendenti all’impiego della lingua italiana. L’anno successivo ho ripreso gli studi iniziati nel dipartimento di Storia della Sapienza di Roma riuscendo a iscrivermi presso la facoltà di scienze politiche dell’Università di Parigi 8, Vincennes-Saint Dénis. Questa doppia attività di studio e lavoro si è bruscamente interrotta nel novembre 1993, quando in esecuzione di un mandato di arresto internazionale per l’esecuzione della pena a cui ero stato condannato in Italia in via definitiva dopo la mia partenza per la Francia, sono stato arrestato nei locali delle prefettura di place d’Italie dove ero stato convocato per il ritiro del permesso di soggiorno.
Dopo oltre un anno e mezzo di detenzione sono stato scarcerato. Appena le condizioni lo hanno permesso, sono tornato all’università dove ho completato gli studi con un diploma di laurea e un master. Successivamente ho avuto accesso alla scuola dottorale della facoltà dove mi ero laureato, ho vinto un posto Ater, insegnamento e ricerca, e una piccola borsa di studio del Ministero della Cultura. Attività di insegnamento e studio che si è interrotta il 24 agosto del 2002 quando in serata sono stato fermato in strada, caricato su un’autovettura e condotto direttamente in Italia, dove alle prime ore dell’alba del giorno successivo la polizia francese mi ha consegnato alle autorità italiane nell’area antistante il tunnel del Monte Bianco.
Nei primi anni di detenzione non ho più avuto accesso ad alcun computer e per l’intero periodo di esecuzione pena non mi è stato possibile riallacciare rapporti con nessuna università per completare il mio percorso dottorale. Ottenuta la semilibertà ho iniziato a lavorare nella redazione del quotidiano “Liberazione”, dove sono rimasto fino alla chiusura, poi sono passato al settimanale “Gli Altri”. Negli anni successivi ho collaborato con diversi altri quotidiani: “Il Garantista”, “Il Dubbio”, “il Riformista”. Nel 2015 collaboravo con “Il Garantista”.
Nell’agosto 2013, quando da pochi mesi avevo ottenuto l’affidamento in prova, un episodio di morte in culla intercorso al mio secondogenito ha bruscamente modificato la mia esistenza e quella della mia famiglia. Nonostante una pronta reazione e la disperata corsa verso l’ospedale il bambino è giunto al pronto soccorso in arresto cardiaco. Durante il tragitto gli avevo praticato la respirazione bocca a bocca. Rianimato il piccolo è rimasto in stato di coma per diverse settimane.
Il danno ipossico-ischemico ha provocato una situazione di paralisi cerebrale e tetraparesi. Da allora non ho più potuto lavorare. Sono diventato caregiver di mio figlio portatore di una tracheotomia e peg, mi occupo quotidianamente della gestione di tutti i rapporti con le amministrazioni, Asl, ospedale, centri riabilitativi, attività scolastica. Dopo il primo anno interamente trascorso nei vari reparti d’ospedale, nel maggio del 2014 siamo stati domiciliati a casa dove è iniziata una intensa e proficua attività riabilitativa.
Davanti a questa nuova condizione esistenziale che mi impediva di proseguire l’attività intellettuale precedente, di mantenere quella poliedricità di interessi e temi affrontati, ho deciso comunque di mantenere fermo, nei limiti del possibile, l’impegno di studio e ricerca sugli anni ’70. Nei ritagli di tempo, con grandi sforzi e fatica, anche solo per poche ore a settimana, ho iniziato a frequentare biblioteche e archivi d’ogni tipo alla ricerca di materiali e documenti, oltre a raccogliere tutto quello che i vari portali e le fonti aperte presenti sul web consentivano di rintracciare. Ho scoperto così, quasi per caso, le carte della direttiva Prodi versate in archivio di Stato, 27 faldoni che ho consultato interamente per quasi tre anni, previa autorizzazione ministeriale che all’epoca era richiesta. Successivamente è arrivata la direttiva Renzi e altri materiali di notevole interesse (materiale digitale interamente sequestrato lo scorso 8 giugno). Da qui è nata l’idea di un progetto editoriale complesso, insieme a due altri studiosi, che è poi sfociato nel 2017 nella pubblicazione di un primo volume, “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera”. Successivamente ho chiesto anche l’accesso agli archivi della Corte d’appello depositati presso l’aula bunker di Rebibbia. Nel frattempo con i miei colleghi ho avviato anche un lavoro di ascolto delle fonti orali disponibili e raggiungibili. Da qui lo scambio di email posto all’attenzione delle indagini della procura.
Poiché nel frattempo era stata istituita una nuova Commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda del sequestro e della uccisione di Aldo Moro, è iniziato un parallelo lavoro, sempre con i miei colleghi, di studio dei nuovi materiali accessibili prodotti dalla nuova Commissione (fondamentalmente audizioni) e di interazione con la Commissione stessa, almeno fino al maggio 2016, quando ci è stato impedito di tenere un convegno.
Preso contatto con un suo membro, insieme ai miei colleghi abbiamo formulato delle proposte come l’audizione, novità assoluta rispetto al passato, di studiosi del caso Moro molto critici rispetto alle ricostruzioni complottiste della vicenda. Grazie a questo lavoro, tra il giugno e il luglio 2015 sono stati auditi il professor Marco Clementi, il documentarista del Senato e in passato archivista della Commissione Stragi, dottor Vladimiro Satta, e un giovane studioso, il dottor Gianremo Armeni, autore di una brillante monografia su via Fani che avevo recensito sul “Garantista” dove nel frattempo avevo pubblicato una sequenza di 5 articoli molto critici sulle ipotesi di ricerca privilegiate dalla Commissione Fioroni.
Queste persone hanno portato all’attenzione della Commissione uno sguardo nuovo, una metodologia differente, una quantità rilevante di nuove informazioni e nuovi documenti.
In particolare il professor Clementi, con il quale collaboravo in modo stretto, nel corso della audizione del 17 giugno 2015, ha depositato delle foto e un verbale di interrogatorio del testimone Alessandro Marini, che hanno poi condotto il teste a ritornare sulle sue precedenti dichiarazioni e ammettere che nessuno sparo aveva colpito il parabrezza del suo motorino, danneggiatosi nei giorni precedenti l’agguato di via Fani a causa di una caduta dal cavalletto, come risulta nel verbale d’interrogatorio del 1994 (da me trovato presso l’Archivio storico del Senato e da tutti sempre ignorato) e le foto attestavano. Circostanza rilevante poiché metteva definitivamente in dubbio le ricostruzioni che parlavano delle presenza di una moto Honda nella dinamica dell’azione di via Fani. Il professor Clementi ha depositato anche un fonogramma proveniente da Beirut, scovato nelle direttiva Renzi, inviato dal colonnello Giovannone che attestava per la prima volta l’esistenza del “Lodo Moro”, infine uno schizzo di Mario Moretti che ricostruiva la dinamica dell’azione di via Fani.
Attiro la vostra attenzione su questa singolare circostanza che mi vede accusato di essermi procurato e aver divulgato documenti riservati, in realtà la bozza di una relazione che non è un documento primario, quando in realtà è accaduto l’esatto contrario: con il mio lavoro ho fatto pervenire all’attenzione della Commissione documentazione di significativa rilevanza.
Nel luglio del 2015 era stato audito il ministro degli Esteri che nel riassumere le vicende estradizionali aveva riportato delle informazioni errate riguardo alla posizione del dottor Alvaro Loiacono Baragiola. Il dottor Baragiola, dopo aver ascoltato su Radio radicale l’audizione, mi comunicò il suo disappunto e l’intenzione di intervenire sulla questione. Informai il membro della Commissione con cui ero in contatto, il quale a sua volta ne parlò con il Presidente Fioroni che si mostrò subito interessato. In effetti nell’autunno del 2015 la Commissione Moro 2 aveva avviato una nuova fase: il presidente della Commissione si era convinto della necessità di audire gli ex militanti delle Br che in passato avevano sempre rifiutato, in ragione delle ricostruzioni complottiste avanzate dalle Commissioni. In alcune dichiarazioni pubbliche aveva dichiarato che era venuto il momento di ascoltare questi brigatisti. L’intenzione di intervenire espressa dal dottor Baragiola sembrava quindi confortare i progetti del Presidente Fioroni.
Tra il novembre e la fine del dicembre 2015 ci fu un intenso lavorio che portò a uno scambio di lettere tra il dottor Baragiola e il Presidente Fioroni, un flusso comunicativo che mi pose inevitabilmente nella posizione di veicolatore dei reciproci messaggi che passavano attraverso una terza persona, un membro della Commissione. È nell’ambito di questo contesto, assolutamente noto al Presidente Fioroni, che ho inviato alcune pagine della bozza della prima relazione attinenti a un punto cruciale della vicenda, su cui si focalizzava l’attrito tra il nostro lavoro di ricostruzione del sequestro e l’ipotesi portata avanti dalla Commissione, ovvero l’abbandono in via Licinio Calvo delle tre vetture con cui i brigatisti erano fuggiti da via Fani. Ed è a partire dalle richieste di chiarimenti fatte a più testimoni, non solo al dottor Baragiola, che è iniziato il lungo percorso di ricostruzione dell’azione di via Fani in tutti i suoi aspetti, logistici e politici.
Un lavoro condotto in completa trasparenza, senza alcun artificio cospirativo, attraverso le email e i vari social e appuntamenti in presenza con le fonti residenti in Italia.
Consentitemi, infine, di concludere con una domanda: vista l’insistenza sul mio passato nelle carte depositate dalla procura, in particolare su un singolo segmento di quel passato, vi chiedo se avrò mai diritto a 59 anni compiuti, dopo aver scontato per intero la condanna, dopo aver trascorso 11 anni in esilio, ad avere un presente?
Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della Commissione Moro presieduta da Fioroni
(Articolo pubblicato in data 20 agosto 2021 sul blog insorgenze.net)
I tre anni di attività della seconda Commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono stati contrassegnati dalle ripetute violazioni del protocollo interno che regolava il regime dei documenti da mantenere riservati o segretati. Durante i suoi lavori abbiamo assistito a una continua rincorsa all’anticipazione di notizie, o presunte tali, dove il più delle volte roboanti effetti d’annuncio servivano a colmare l’assenza di fatti nuovi. È andata avanti così fino al febbraio 2018, quando a causa della conclusione della legislatura la Commissione ha dovuto chiudere anticipatamente i battenti senza essere in grado di produrre una relazione conclusiva. Nel frattempo commissari e consulenti avevano intrattenuto relazioni privilegiate con la stampa, fatto filtrare veline, notizie, documenti, fake news, avvalendosi anche di giornalisti che svolgevano la funzione di house organ, e ognuno come poteva si era avvalso di consulenze esterne e informali. Normale amministrazione di un organo eminentemente politico che però nella legge istitutiva si era dato anche delle prerogative giudiziarie, dando vita a un ibrido dalle molte e irrisolte ambiguità.
Le ripetute fughe di notizie riservate ignorate dalla procura
Nonostante queste continue fughe di notizie siano avvenute sotto gli occhi di tutti la procura di Roma, che pure con la Commissione intratteneva continui scambi, ha sempre girato il capo altrove ignorando le ripetute irregolarità.
Una rapida inchiesta ci ha permesso di individuare almeno cinque episodi (ma il numero è probabilmente superiore) nei quali esponenti della Commissione hanno diffuso sui media notizie o documenti riservati o segretati. Queste violazioni, due delle quali avvenute prima del dicembre 2015, hanno riguardato la diffusione di verbali segretati di tre testimoni, due escussi dai consulenti della Commissione e dallo stesso presidente, uno audito in seduta segreta dalla Commissione stessa, e due notizie riservate raccolte dai consulenti. Si trattava di materiale documentale di prima mano funzionale allo sviluppo di successivi approfondimenti investigativi, la cui divulgazione poteva nuocere allo sviluppo degli ulteriori accertamenti. A questa prima circostanza bisogna aggiungere che la divulgazione sui media è avvenuta spesso attraverso un uso sapientemente selezionato di stralci e notizie tale da distorcere il contenuto stesso delle informazioni presenti nei verbali e nei documenti, dandone in pasto all’opinione pubblica una versione finalizzata ad avvalorare ipotesi cospirazioniste che i commissari o i consulenti protagonisti di queste indiscrezioni appoggiavano. In questo modo accanto alla violazione delle regole di riservatezza si è dato corpo anche alla circolazione di fake news, in taluni casi di vere e proprie azioni di depistaggio informativo.
Primo episodio
Il 13 marzo 2015 il deputato Gero Grassi, membro tra i più attivi della Commissione, rivelava l’acquisizione da parte della Commissione di alcune musicassette ritrovate nell’aprile del 1978 in via Gradoli. L’informazione era contenuta in una informativa riservata prodotta dal magistrato Antonia Gianmaria, una consulente che lavorava per la Commissione. La notizia appariva sui maggiori quotidiani, Corriere della sera, Repubblica, Stampa. «Da quel che si conosce dagli atti – spiegava imprudentemente Grassi – erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e valuteremo la rilevanza per le nostre indagini». L’entusiasmo appena velato di Grassi era dovuto alla convinzione che le audiocassette contenessero gli interrogatori di Moro. Non era affatto vero: i nastri provenivano da tre sequestri avvenuti in epoche diverse nelle basi brigatiste di via Gradoli, via delle Nespole e nell’abitazione di viale Giulio Cesare. Contenevano in prevalenza selezioni musicali, come riferivano i verbali dell’epoca acquisiti successivamente dalla prima Commissione Moro.
All’appello non mancavano cassette: alcune erano vuote, altre contenevano canzoni di Francesco Guccini, Gabriella Ferri, Bob Dylan, Enzo Jannacci, il duo di Piadena, canti rivoluzionari, gli Intillimani, il sax di Fausto Papetti, una – recitava il verbale – era «registrata da ambo le parti in lingua inglese». Altre due cassette ritrovate nel gennaio 1982 all’interno della base del Partito guerriglia di via delle Nespole, ma per un errore iniziale attribuite al sequestro effettuato in viale Giulio Cesare, dove Faranda e Morucci avevano trasferito l’archivio della “Brigata contro” dopo la loro uscita dalle Br, contenevano il messaggio telefonico di un mitomane e le dichiarazioni di una teste (Chiarantano) interrogata da un ufficiale dei carabinieri appartenente ai servizi segreti, Pignero, da cui scaturì l’inchiesta del generale Dalla Chiesa del maggio 1979 contro ambienti della estrema sinistra genovese, accusata ingiustamente di far parte della colonna genovese delle Br. Si trattava di materiale di provenienza processuale e le dichiarazioni della teste erano riportate integralmente sulle pagine di Lotta continua dell’epoca.
Un testo dell’Ansa del 16 marzo 2015, ore 8,27, che riprendeva le affermazioni di Grassi raccoglieva anche le proteste del vicepresidente della Commissione Gaetano Piepoli: «Il riserbo e la prudenza – dichiarava – sono l’unica bussola che la ricerca della verità ha per non smarrirsi nel labirinto delle infinite ipotesi».
Secondo episodio
Per due giorni consecutivi, il 17 e il 18 novembre 2015 sulle pagine di Repubblica il giornalista Paolo Berizzi ebbe modo di riportare ampi stralci del verbale segretato dell’escussione di Raffaele Cutolo, avvenuta il 14 settembre precedente nella sezione 41 bis del carcere di Parma. Le ennesime dichiarazioni dell’ex capo della Nuova camorra organizzata sulla vicenda Moro erano state raccolte dal tenente dei carabinieri Leonardo Pinelli e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della Commissione e che il giorno successivo protocollarono il verbale insieme alle osservazioni e proposte di approfondimento investigativo. Qualche manina interessata farà pervenire due mesi dopo a Repubblica il documento segretato. La vicenda provocò anche una coda polemica: un membro della Commissione, il deputato Fabio Lavagno, denunciò la fuga di notizie in una dichiarazione pubblica sottolineando per altro come fossero riportate in modo distorto. Il giornalista di Repubblica replicò che le fonti che avevano ispirato i suoi articoli erano interne alla Commissione.
Terzo episodio
Il 5 settembre 2017 viene audito dalla Commissione in seduta segreta Pietro Modiano, ex direttore generale di Intesa San Paolo, divenuto nel frattempo presidente della società che gestisce gli aeroporti milanesi. Modiano viene sentito in relazione all’ipotesi di legami tra le Brigate rosse e la ‘ndrangheta calabrese durante il rapimento Moro. Il contenuto dell’audizione era stato anticipato all’Ansa il giorno precedente dal solito Gero Grassi: «Uno dei commissari che ha segnalato la volontà di Modiano di far conoscere quello che apprese anni fa spiega quello che potrebbe essere almeno uno degli elementi rilevanti dell’audizione» scriveva l’Ansa: «Modiano era molto amico di Don Cesare Curioni (il capo dei cappellani delle carceri italiane utilizzato come canale di trattativa con le Br dal Vaticano) e quindi potrebbe rivelare particolari inediti sulla conoscenza che il sacerdote aveva del mondo brigatista. Ricordando anche che Don Curioni era presente all’obitorio quando fecero l’autopsia ad Aldo Moro». Secondo quanto riportato da Gero Grassi nel suo Aldo Moro, la verità negata, Pegasus edizioni 2018, durante l’audizione segreta Modiano avrebbe rivelato che poco dopo l’omicidio Moro il sacerdote suo amico gli avrebbe riferito «che chi ha sparato materialmente è Giustino De Vuono, calabrese». Al netto del gioco di specchi dei de relato, dove amici e conoscenti riportano fantasmagoriche affermazioni di defunti, assolutamente non verificabili, ciò che qui interessa è la circostanza che il contenuto dell’audizione segretata, oltre a essere anticipata appare su due lanci dell’Ansa del 5 settembre, ore 17:37 e in un libro.
Quarto episodio
Il 20 Settembre 2017 è lo stesso presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, a rivelare all’Ansa il ritrovamento del corpo di Giustino De Vuono, nonostante l’informazione fosse contenuta in un atto da lui stesso classificato riservato. L’episodio, alquanto surreale, viene raccontato da Fabio Lavagno nel volume, Moro. L’inchiesta senza finale, Edup ottobre 2018, scritto insieme a Vladimiro Satta. A p. 56 si riportano gli stralci essenziali della dichiarazione di Fioroni: «Il Presidente della Commissione d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni, a proposito della figura del criminale Giustino De Vuono […] rende noto che ‘tramite l’Arma dei Carabinieri è stato possibile stabilire con certezza la sua data di morte e il luogo di sepoltura: De Vuono, ristretto, nel carcere di Carinola dal 16 marzo 1991, venne ricoverato il 1 novembre del 1994 nell’ospedale di Caserta, già operato per aneurisma fissurato, e lì morì il 13 novembre dello stresso anno. La salma di de Vuono venne tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Scigliano […]». La figura di De Vuono, come abbiamo visto, è ritenuta centrale da alcuni narratori complottisti. A loro avviso infatti era presente in via Fani e sarebbe stato l’esecutore materiale dell’uccisione di Moro, per questo aiutato dai Servizi ed esfiltrato all’estero. Da qui le strenue ricerche condotte dalla Commissione per infine ritrovarlo inumato in un paesino della provincia di Cosenza.
Quinto episodio
Il 17 marzo 2016 Francesca Musacchio sul Tempo riportava ampi stralci del verbale segretato di escussione che Angelo Incandela, ex maresciallo delle guardie di custodia del supercarcere di Cuneo, aveva rilasciato dieci giorni prima, il 7 marzo, nei locali della questura di Torino davanti al presidente della Commissione Giuseppe Fioroni e al consulente Guido Salvini (p. 200 della relazione sull’attività svolta dalla Commissione, dicembre 2017). Incandela avrebbe riferito di un incontro con il generale Dalla Chiesa, presente anche Pecorelli, e poi di carte che il generale gli avrebbe chiesto di nascondere all’interno del carcere e successivamente ritrovare con una perquisizione camuffata. L’ex maresciallo lasciava intendere che si trattasse del memoriale Moro o di parte di esso ritrovato dagli uomini del generale in via Monte Nevoso a Milano.
Lo strabismo investigativo della procura e la caccia al reato
Dopo cinque anni di assoluta inerzia davanti alle continue fughe di notizie provenienti dall’interno della Commissione Moro 2, alla fine del 2020 la procura di Roma si è improvvisamente interessata ad alcune mie email. Si trattava dell’invio a una cerchia ristretta di persone di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale nelle quali si affrontava l’abbandono delle macchine del commando brigatista in via Licinio Calvo. La trasmissione era avvenuta l’8 dicembre 2015, meno di 48 ore prima della sua pubblicazione ufficiale. Secondo la procura quella spedizione costituiva una fuoriuscita di documentazione riservata, nonostante fosse di natura ben diversa rispetto ai documenti segretati resi pubblici nei cinque episodi prima descritti. La relazione è un testo politico, sottoposto a emendamenti e voto finale, che riassume per sommi capi audizioni – già pubbliche – e l’indirizzo delle indagini intrapreso dalla Commissione, non un verbale di interrogatorio o una relazione su indagini in corso scritta dai consulenti.
L’inchiesta della procura partiva da una serie di informative della Polizia di prevenzione realizzate dopo una lunga attività investigativa, nata almeno un paio di anni prima e scaturita dal monitoraggio dei rifugiati politici degli anni ‘70. In un rapporto del novembre 2020 la Dcpp ipotizzava la presenza del reato di rivelazione di segreto d’ufficio (326 cp), accusa mossa contro ignoti. In un nuovo rapporto del mese successivo venivo identificato come il responsabile della divulgazione di questo materiale e contemporaneamente veniva modificato il titolo del reato da rivelazione di segreto d’ufficio a favoreggiamento (378 cp). Dopo le dichiarazioni del presidente della defunta Commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, sentito come teste informato, il pubblico ministero titolare dell’inchiesta introduceva una nuova imputazione: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis) a corredo del favoreggiamento. Nello scorso mese di luglio, il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro del mio materiale d’archivio, dei miei strumenti di lavoro e dei documenti e materiali amministravi, sanitari e scolastici dei miei figli, avvenuto l’8 giugno precedente, riteneva la sottrazione del materiale legittima se inquadrata sotto un diverso titolo di reato: la rivelazione di notizie riservate stabilite dall’autorità (262 cp), smontando di fatto il quadro accusatorio disegnato della procura. Nel giro di 8 mesi ho così assistito alla successione di ben quattro imputazioni per un unico episodio. Questa difficoltà nell’inquadrare giuridicamente il presunto fatto-reato addebitatomi rivela quanto sia fragile e pretestuosa l’inchiesta condotta dalla Polizia di prevenzione e dalla procura di Roma che con tutta evidenza mira ad altro.
Le insinuazioni del Presidente della Commissione Moro 2
Tra i contatti a cui avevo inviato alcune pagine della bozza di relazione, tutti legati al lavoro di ricerca storica che stavo conducendo insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena in vista della pubblicazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse e del sequestro Moro uscito nel 2017 (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, edizioni DeriveApprodi), erano presenti persone coinvolte nel sequestro. Si trattava di ex militanti delle Brigate rosse a cui avevo chiesto di vagliare il capitolo della “Relazione” e fornire la propria versione dei fatti, spunto da cui partire per una ricostruzione minuziosa poi sfociata in un capitolo del libro.
Nel corso della sua testimonianza Giuseppe Fioroni aveva insinuato un diverso scenario, sostenendo che fossero le informazioni contenute nella bozza il vero movente della divulgazione anticipata. Secondo l’ex presidente, le indagini condotte dalla Commissione sulla possibile presenza di un garage compiacente o di una base dei sequestratori nei pressi della zona di via Licinio Calvo, avrebbero messo in allarme l’ambiente degli ex brigatisti. Da qui l’insinuazione che la diffusione in un circuito ristretto di quelle pagine non fosse dettata da ragioni di polemica storica, ovvero l’intenzione di contrastare le ricostruzioni dietrologie promosse dalla Commissione perché travisavano i fatti, ma dalla necessità di carpire notizie in anticipo (48 ore sic!) sulla direzione delle indagini. Io sarei stato dunque una sorta di agente infiltrato!
Il capitolo su Licinio Calvo non conteneva anticipazioni o notizie riservate
Fioroni tuttavia dimentica di dire che il capitolo su via Licinio Calvo non conteneva notizie riservate ma fantasie ampiamente note. Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò già nel dicembre 1978 un articolo della rivista glamour Penthause, divenuta una delle maggiori referenze della Commissione Fioroni. Soprattutto entrò nella sfera giudiziaria quando il pm Amato raccolse questa voce durante le udienze del primo processo Moro. Successivamente se ne occupò la prima Commissione Moro e la leggenda fu ripresa nella pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica. Alla luce di questi precedenti, con buona pace del povero Fioroni, l’allarme tra gli ambienti vicini ai brigatisti sarebbe dovuto scattare diversi decenni prima.
Il presunto favoreggiamento
C’è un altro aspetto davvero singolare di questa vicenda che merita di essere sottolineato: nelle informative della Polizia di prevenzione mi viene contestato di aver riportato nelle pagine del libro dedicate a via Fani solo parte di quanto contenuto nelle email intercorse tra me e uno dei partecipanti al rapimento Moro. Ad avviso dei funzionari di polizia avrei trattenuto dei passaggi che avrebbero consentito di attenuare il ruolo di Alvaro Loiacono Baragiola nella vicenda. Affermazione davvero ardita perché oltre a non esser vera in punto di fatto, nel volume si ricostruisce nel dettaglio – come mai era avvenuto in precedenza – il ruolo avuto da “Otello” in via Fani; dal punto di vista giuridico (che poi è l’argomento dirimente in questa circostanza) l’eventuale difesa di una persona, per giunta condannata in via definitiva per quei fatti, non comporta alcun favoreggiamento penale. Altrimenti quanti scrittori o giornalisti che hanno scritto libri o preso le difese pubbliche di un imputato o di un condannato avrebbero dovuto essere accusati di favoreggiamento? Mi pare superfluo ricordare che l’intento del mio lavoro non era quello di difendere o condannare qualcuno ma ricostruire, il più fedelmente possibile, contesto e dinamica dei fatti.
«Chi controlla il passato controlla il futuro»
La vera questione che questa indagine solleva è l’inaccettabile intromissione del Ministero dell’Interno e della procura della Repubblica nel lavoro complicato e complesso di ricostruzione del passato. In una delle ultime relazioni dei servizi di sicurezza (2019) si puntava l’indice contro la ricerca storiografica indipendente sugli anni ‘70. A preoccupare gli apparati era la presenza di una lettura non omologata di quel periodo, etichettata come «propaganda», rispetto alle versioni storiografiche ufficiali. Il pericolo – scrivevano gli estensori del testo – è quello di «tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti», un «impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”» che – sempre secondo i Servizi – rischia di trovare consensi «nell’uditorio giovanile».
Siamo un Paese dove polizia e magistratura pretendono di decidere cosa un ricercatore debba scrivere in un libro
Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso gli anni ‘70 fanno fatica a ritagliarsi un posto nella storiografia, suscitando ancora grossi timori in settori di peso delle istituzioni che pretendono di mantenere una tutela etica su quel periodo, estendendo all’infinito la logica dell’emergenza antiterrorismo fino a occupare il campo della conoscenza del nostro passato. Da alcuni anni è venuto meno il monopolio delle fonti sugli anni ‘70, un accesso più fluido alla documentazione (direttiva Prodi e Renzi) ha democratizzato la ricerca storica, in passato nelle mani della magistratura e delle commissioni parlamentari con la loro scia di consulenti e periti. Agli apparati, come ai dietrologi, tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte aveva messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia, secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita a una sorta di nuovo negazionismo storiografico. Recintare lo spazio storiografico degli anni ‘70, stabilire chi può fare storia, è l’obiettivo di fondo di questa inchiesta giudiziaria.