di Giuseppe Ciarallo |
Satira e fascismo: storia e percorso della satira nel Ventennio
Ci sono pareri contrastanti tra coloro che sostengono la superiorità dell’uomo sulle altre specie del regno animale. Alcuni credono che questa supremazia sia data dal fatto che l’essere umano sia l’unica bestia ad avere coscienza di sé. Io sono in totale accordo con il compianto Gualtiero Schiaffino, fumettista, illustratore e fine pensatore, il quale, invece, aveva una teoria tutta sua che si può sintetizzare nell’assunto: la principale caratteristica che distingue l’uomo dagli animali non è l’intelligenza, bensì la coglioneria. Comunque la si pensi, una cosa è certa: l’uomo è l’unico animale sulla faccia della terra che abbia la capacità di ridere, di sé (poco) e degli altri (moltissimo). Nei secoli è stato dimostrato che nulla e nessuno è mai riuscito a impedire all’uomo di ridere. In tale intento, hanno fallito tanto le dittature più feroci e sanguinarie quanto i regimi religiosi più miopi e integralisti, anzi, possiamo dire che chiunque abbia provato a soffocare la sana, liberatoria risata, ha visto ritorcere contro di sé il maldestro tentativo, diventando ben presto uno zimbello, oggetto di ironia e sberleffo.
Anche nei momenti più duri e bui nella vita di un uomo, la risata (che può esplodere in qualsiasi contesto e con qualsiasi stato d’animo, non ultima la disperazione) ha la funzione di valvola di sfogo, onde evitare che quella pentola a pressione che è il nostro cervello, possa giungere a tali livelli di tensione da deflagrare poi improvvisamente.
Quando diciamo “c’è poco da ridere”, per sottolineare la gravità di una situazione, ci riserviamo inconsciamente la possibilità di ridere, magari poco, ma di ridere. E anche nei casi estremi, quando esclamiamo gravemente “non c’è niente da ridere”, evidentemente ci stiamo rivolgendo a qualcuno che nonostante tutto, una grassa ghignata se la sta facendo. A proposito di ciò che verrà trattato in seguito, neanche a farlo apposta esiste un’antologia di Umoristi Italiani Contemporanei, dall’eloquente titolo: Ridi poco. Anno di stampa 1943, XXI anno dell’Era Fascista (a cura di Mario Buzzichini e Enzo Ferrieri, Hoepli Editore).
Da sempre l’ironia, e la sua parente più nobile, la satira, non sono altro che elementi che il popolo assume per combattere il veleno del potere. Oggi, invece, nel ‘mondo roverso’ nel quale ci tocca vivere, c’è chi ha voluto, non si comprende se consapevolmente o meno, rovesciare il concetto: un potente racconta a ritmo continuo barzellette, per combattere gli effetti devastanti di quella che egli ritiene una terribile malattia infettiva, e cioè la democrazia. Il nostro presidente del Consiglio, tanto per non fare nomi, per giustificare le sue quasi quotidiane gaffe in ogni contesto possibile e immaginabile, ha sempre raccomandato ai propri seguaci di diffidare delle persone che non sanno ridere, spingendosi ultimamente ancora oltre, ad affermare, rivolgendosi ai giovani del suo partito: diffidate di quelli che non sanno farvi ridere. Una persona con un minimo di cervello, merce che sembra essere sempre più rara in un Paese dimentico di essere stato la patria di sommi pensatori, risponderebbe che sono molto più pericolose le persone che non sanno essere serie, nemmeno quando le circostanze lo richiedono.
Al momento siamo ancora troppo impegolati in questo pastrocchio storico-politico-istituzionale, ma probabilmente tra qualche anno il berlusconismo potrà essere sezionato e analizzato sotto ogni punto di vista, diventerà oggetto di studio e si troveranno disamine anche sull’ironia e la satira ai tempi del ‘duce formato tascabile’, come è già avvenuto per il fascismo, quello originario, con l’interessante libro Vent’anni di beffe. Le ‘barzellette’ sul fascismo durante il fascismo di Carlo Veneziani (Monte Università Parma Editore, 2006). L’autore, già nella prefazione, citando Tacito sottolinea quanto sia terribile l’arma del ridicolo. E il fascismo non seppe sottrarsi a questa esposizione al ridicolo, del tutto facilitato nel compito dalla presenza di gerarchi spesso rozzi e ignoranti il cui unico compito nella vita sembrava consistere nel compiacere in tutto e per tutto le follie egocentriche del loro capo.
Come definire se non grottesca e caricaturale quella ossessione esterofoba che faceva tradurre ogni termine straniero in un italiano per forza di cose approssimativo, che faceva cambiare (sui giornali, a futura memoria) il nome del musicista di ‘musica negroide’ Louis Armstrong in Luigi Fortebraccio, quello del direttore d’orchestra Benny Goodman in Beniamino Bonomo e il titolo del brano jazz Saint Louis Blues in una strappalacrime versione dal titolo, però, scoppiettante, Le tristezze di San Luigi! E che dire del sabato fascista voluto da Starace, il ‘cretino ubbidiente’ come lo stesso Mussolini lo aveva definito, con frotte di panciuti gerarchi impegnati nell’irrealizzabile, per molti, tentativo di saltare attraverso un cerchio di fuoco?
E poi le smorfie del duce durante i comizi, le demenziali veline del Minculpop che indirizzavano i giornali dove il regime voleva, spesso surreali come quella del 23 giugno 1943: “Il Messaggero del 20 ha pubblicato un’inserzione tra i ‘matrimoniali’ che suona così: ‘Professore ventinovenne, distintissimo, occhi bellissimi, sentimentale, sposerebbe dotata carina, anche provinciale, aiutargli a consolidare posizione’. Le espressioni occhi bellissimi ecc. sono eccessive e bisogna evitarle” (1). Da notare la data. Il fascismo si occupava di tali infinitesimali sciocchezze alla vigilia di un evento nodale della Storia, come fu lo sbarco degli americani in Sicilia che avvenne di lì a qualche giorno.
Ma ridicoli erano anche i pomposi slogan, spesso riportati a caratteri cubitali sulle facciate delle case, a deturpare i paesaggi dei borghi contadini: NOI TIREREMO DIRITTO ; MOLTI NEMICI MOLTO ONORE; BOIA CHI MOLLA!; ME NE FREGO!
A proposito di queste pillole di fascistica propaganda, ho scoperto con non poco fastidio che la frase “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”, non è farina del sacco di Jake/John Belushi del film The Blues Brothers di John Landis, ma un motto coniato proprio da Benito Mussolini, o, quantomeno, a lui attribuito.
Nel libro di Carlo Veneziani, che non è azzardato definire saggio antropologico, viene ripercorsa la parabola ventennale del fascismo accompagnata dalla sagace ironia popolare che ne puntualizza anno per anno, episodio per episodio, il carattere di grandezza fondato sulla menzogna, sul tenere nascoste le beghe al popolo attraverso la manipolazione della stampa (vizietto, questo, che oggi più che mai pare essere estremamente in voga): erano severamente vietati articoli che riguardassero suicidi, tragedie passionali, violenze e atti di libidine su minorenni, pornografia, incidenti ferroviari ecc. Questa totale assenza di informazione relativa a dette tematiche, è servita in seguito a far passare la convinzione che “quando c’era lui certe cose non succedevano”.
Numerose le battute, i versi, le considerazioni degne di nota, riportate nella raccolta di Veneziani.
Sul tavolino di un caffè di via Veneto,
un rimatore scrisse: passa il Gran Segretario /
ed il pubblico vario / guarda il cavallo al trotto /
chiedendo: “Val di più / la bestia che sta sotto /
o quella che sta su?”
Quando a segretario del partito venne nominato Ettore Muti,
costui spedì subito il dispaccio d’obbligo:
Duce, ai vostri ordini assolverò la mia carica
in modo che gli italiani siano tutti come voi li volete. Muti.
Ce n’è una, poi, che mi è piaciuta particolarmente in quanto ha un triste rimando all’oggi, con il vizietto di un certo governante di voler accentrare su di sé ministeri, poteri e decisioni varie, con gli stessi risultati del suo predecessore.
Quando uno diceva che il dittatore aveva nelle sue mani tutti i ministeri,
altri aggiungevano subito: è vero, ma gli manca la Giustizia,
e non ha la Cultura né l’Educazione.
Ma se la Storia è destinata a ripetersi e non si incontra alcuna difficoltà a trasferire le trame delle barzellette del passato alle acrobatiche evoluzioni dei politici di oggi, se basta cambiare i nomi dei protagonisti di ieri con quelli del presente per riconoscere la stessa galleria di loschi figuri, di raccomandati, di banderuole, di farabutti, viene il fondato dubbio che il potere sia sempre uguale a se stesso, che si perpetui senza variare di una virgola pur cambiando i partiti e i colori che lo rappresentano, e che alla fin fine, forse, non aveva tutti i torti quell’anima candida di Fabrizio De André nel sostenere che “non esistono poteri buoni”.
In un regime dispotico, la satira deve giocare a nascondino, deve assottigliarsi e farsi fine, per passare attraverso le maglie sempre più fitte della censura. E deve combattere anche contro il nemico più subdolo, e cioè l’ambigua tesi secondo la quale se la satira può essere espressa liberamente vuol dire che il potere non è dispotico (e di conseguenza non dovrebbe essere bersaglio della satira stessa).
Ed è tra le maglie strettissime della censura fascista che si insinua la scrittura di un autentico fuoriclasse della satira quale era il purtroppo dimenticato Anton Germano Rossi. Rossi è uno scrittore all’avanguardia, nel senso che è avanti di un secolo rispetto ai codici espressivi e alle tematiche della sua epoca, ha una scrittura ipersurreale, crea mondi spiazzanti e personaggi che disorientano il lettore, elegge il cinismo e la cattiveria a pura normalità. Nei suoi racconti trovano spazio tutte le azioni scorrette che ognuno di noi vorrebbe commettere almeno una volta nella vita, ma che ci vengono impedite dalle convenzioni morali e sociali che ci rendono parte del consorzio civile.
Rossi è il precursore del politically incorrect quando questo termine non era ancora stato coniato né pensato da mente umana. Nella sua raccolta di ‘contronovelle’ dall’assurdo titolo Porco qui! Porco là! (Edizioni Corbaccio, 1934), l’autore prende in giro i fanti ma anche i santi (nel racconto Crisi di mendicanti, il sant’uomo lamenta lo scarso numero di ammalati disposti a farsi confortare e le eccessive pretese di denaro che questi hanno, forti “dell’offerta superiore alla domanda”), non ha remore nemmeno di fronte agli handicap fisici, argomento che in seguito, secondo la moderna interpretazione della satira, sarebbe diventata una delle cinque tematiche tabù insieme a religione, capo dello Stato, razzismo e omosessualità. Ignorando bellamente ogni tipo di freno etico, e immergendo la narrazione nel paradosso più estremo, troviamo vecchi paralitici malmenati, anziani signori scaraventati dai finestrini di un autobus o dalle finestre di un palazzo tra il grande divertimento degli altri passeggeri o dei vicini di casa, formose signore che si sentono fare proposte oscene per aver chiesto l’ora a un passante.
Sono le situazioni assurde create dall’autore, però, che rendono lieve e piacevole la narrazione di azioni che altrimenti riterremmo inaccettabili. Ma a rendere unico e prezioso il libro Porco qui! Porco là! è il capitolo finale, dal titolo Il prode capitano o L’arte della guerra, diviso in tredici giornate. Qui Rossi si supera, la guerra diventa un gioco stupido giocato da bambini stupidi, che fanno dispetti, che replicano permalosi agli scherzi altrui, che perdono le armi per poi ritrovarle nei posti più impensati, e il linguaggio roboante che abbiamo imparato a conoscere dai cinegiornali Luce dell’epoca, viene ridicolizzato da queste situazioni stralunate e grottesche all’estrema potenza. Mi piace pensare che Bonvi, il grande fumettista autore delle Sturmtruppen, si sia abbondantemente ispirato alle novelle di Rossi per le avventure dei suoi piccoli soldati dell’esercito tedesco, il cui mito è stato annullato e ridicolizzato dalle loro azioni e dai loro dialoghi strampalati.
Un piccolo saggio della follia visionaria di Rossi, in alcuni frammenti della prima giornata de Il prode capitano o L’arte della guerra.
«Chi è lei? Cosa vuole?» gridò ad un tratto il prode capitano ad un vecchio fuciliere che passava.
«Buon giorno» disse il vecchio fuciliere «io sono il nemico: devo andare avanti con alcuni amici a conquistare quella collina».
«Non si può!» ribatté il prode capitano. «Per conquistare quella collina bisogna passare sul corpo dei miei vecchi granatieri».
«Li lasci andare» suggerì il vecchio granatiere «e la finisca con questa storia di farci sempre passare il nemico sul nostro corpo. In un mese, per gusto suo son ridotto che non mi posso chinare tanto son pieno di dolori».
«Attenzione!» gridò il prode capitano «viene il nemico».
«Senta» disse il vecchio granatiere «non è per me, ma queste cose vanno dette gradatamente: ci sono dei malati di cuore».
«Sparate il cannone!» gridò il prode capitano.
«È una parola!» disse il vecchio artigliere.
«L’hanno mandato senza istruzioni».
«Oggi» gridò il prode capitano «ci copriremo di alloro».
«Tutti i gusti sono gusti» commentò seccato il vecchio granatiere «ma con questa storia di coprirci di alloro, uno la sera si ritrova tante foglioline nel colletto».
«Senta» disse un vecchio caporale «sono andato a vedere se si potevano passare le linee del nemico».
«Bravo!» disse il prode capitano.
«Non si può sa…» continuò il vecchio caporale «c’è un cartello su cui è scritto ch’è vietato
il passaggio».
«Maledizione!» urlò il prode capitano.
«C’è scritto:» disse il vecchio caporale «Vietato l’ingresso al nemico. Multa di dieci lire
ai contravventori. Se andiamo, spendiamo un capitale!»
«Che roba!» concluse il prode capitano con amarezza «domando e dico se si può fare la
guerra a questo modo!»
La particolarità di questo libro di Anton Germano Rossi è data dal fatto che la prima edizione è datata 15 settembre 1934, XII, e cioè in piena preparazione dell’azione bellica che fissava l’obiettivo della ‘conquista totale dell’Etiopia’ che avrebbe avuto inizio di lì a qualche mese.
In un momento storico in cui il regime cercava di instillare nella popolazione italiana, soprattutto nei giovani, lo spirito indomito e battagliero necessario alla pugna, i racconti di Rossi suonavano come una sonora pernacchia nei confronti delle tronfie parole della propaganda. Fu solo grazie alle atmosfere surreali in cui i militari di Rossi si muovevano con finto (artefatto) candore, che probabilmente venne risparmiata all’autore l’infamante accusa di disfattismo e la conseguente pena che tale tipologia di reato prevedeva.
Un consiglio per chi volesse accostarsi alla lettura di Porco qui! Porco là!: un’ottima colonna sonora, perfettamente intonata alla prosa di Anton Germano Rossi, è il disco Mezzacoda nel quale un Paolo Poli particolarmente ispirato, accompagnato al pianoforte da Jacqueline Perrotin, ripercorre in una corposa carrellata di successi, la canzone italiana dall’inizio del Novecento agli anni ’50. Naturalmente i brani in cui l’attore sfoggia con maggior enfasi la sua affilata ironia, sono quelli patriottardi, bellicisti, colonialisti del periodo fascista.
Eia, eia… ma va là!
(1) Le veline del duce. Come il Fascismo controllava la stampa, Riccardo Cassero, Sperling & Kupfer, 2004