di Nicola Loda
QUI la seconda parte dell’articolo
Santi e beati: politica e convenienze dietro i processi di canonizzazione
Invocato già in epoche remote per richiedere la canonizzazione immediata e plebiscitaria del pontefice appena defunto, lo slogan ‘santo subito’ si è imposto durante l’oceanica adunata dei fedeli cattolici a Roma, in seguito alla morte di Giovanni Paolo II. Non tutti possono diventare santi. Esistono caratteristiche che la Chiesa cattolica deve ravvisare per dare avvio al processo di canonizzazione, che con attenzione valuterà l’intera vita del ‘presunto’ santo prima di riconoscerlo come tale. Innanzitutto deve essere rinvenuta la presenza straordinaria dello Spirito Santo e della Volontà di Dio, in vita e dopo la morte, davanti alla quale lo stesso riconoscimento di un miracolo passa spesso in secondo piano. Il santo è esempio da seguire e imitare, rivela nel suo agire quotidiano qualcosa di Dio, è modello di vita cristiana per tutte le comunità di fedeli e contribuisce a rendere salda la fede nei valori fondanti del cristianesimo: l’amore per Dio e quindi per il prossimo, la carità, il perdono, l’accoglienza verso i deboli, il rispetto della dignità umana, il rifiuto dell’egoismo e di ogni forma di violenza. Le esistenze dei santi hanno quindi ispirato la vita dei cristiani durante la millenaria storia della Chiesa.
Molti di loro, infatti, soprattutto negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, hanno preso esempio da Sant’Ambrogio, patrono della città meneghina, e dal suo rapporto con gli ebrei. Nel quarto secolo d.C. il santo scriveva, nell’Expositio Evangelii secundum Lucam, che il popolo giudaico è “perduto, spirito immondo, preda del diavolo anche all’interno del suo tempio sacro, la sinagoga: anzi la stessa sinagoga è ormai sede e ricettacolo del demonio che stringe entro spire serpentine tutto il popolo giudaico”.
Nel 388 d.C. a Callinicum, sul fiume Eufrate, il vescovo locale aveva guidato una piccola folla di cristiani all’assalto della sinagoga, incitando i fedeli a dar fuoco al tempio. Per placare gli animi il governatore romano, con il consenso dell’imperatore Teodosio I, condannò l’accaduto e ordinò che il luogo di culto, distrutto dalle fiamme, venisse ricostruito a spese del vescovo. Ambrogio inviò una lettera a Teodosio nella quale dichiarava che quell’incendio non era affatto un crimine: bruciare le sinagoghe era un “atto glorioso” di cui il santo stesso si assunse la paternità: “Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sì, sono stato io che ho dato loro l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato […]. Che cosa è più importante, il mantenimento dell’ordine o l’interesse della religione?”. Si rifiutò di salire sull’altare se Teodosio non avesse abolito il decreto imperiale che sanciva la ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo, e l’imperatore ubbidì. In materia religiosa, l’unica istituzione atta a decidere era la Chiesa cattolica, secondo le convinzioni dell’allora vescovo di Milano, il quale rivendicava la superiorità delle leggi cristiane su quelle dello Stato. La sua influenza sulla politica di Teodosio portò all’editto di Tessalonica (380 d.C.), con il quale la religione cattolica divenne religione di Stato.
Altre volte le vite dei santi non risultano sufficientemente ispiratrici finché non si verificano particolari congiunture storiche: è forse questo il caso di San Thomas Moore (il nostro Tommaso Moro).
Cancelliere di Enrico VIII, fu giustiziato nel 1535 per essersi opposto al divorzio del suo sovrano – solo il papa, secondo Moore, poteva annullare il sacramento del matrimonio – e al successivo scisma dalla Chiesa cattolica. Dopo 400 anni, nel luglio del 1935, giusto in tempo per benedire i falangisti di Franco che insorsero contro il governo del Fronte popolare l’anno successivo, Moore viene beatificato da papa Pio XI. Secondo lo storico Lucio Villari, il dramma personale, religioso e politico di Moore era per la Santa Sede un traslato del dramma che la religione cattolica stava vivendo in Spagna da quando, quattro anni prima, era stata proclamata una repubblica non subalterna alla Chiesa di Roma ma decisamente laica e in alcune sue componenti apertamente anticlericale. Diventava dunque attuale l’esempio di Moore: il cattolico ha il dovere di ribellarsi al potere politico se questo si allontana dai dogmi della religione (o più prosaicamente quando si oppone alle ambizioni terrene del Vaticano).
Ma pensando alla vicenda di Thomas Moore, il quadro neppure oggi è così netto e leggibile come lo si voleva fare apparire allora. Egli diede il meglio di sé sul piano filosofico e letterario, ma il peggio lo mise in pratica nell’esercizio delle funzioni di cancelliere del Regno d’Inghilterra promulgando, quando il suo re era chiamato dal papa ‘difensore della fede’, la legge De Heretico comburendo, grazie alla quale almeno quindici anabattisti furono bruciati vivi dopo un grottesco processo.
Beatificare, nel pieno della crisi della Spagna, un personaggio come Moore, significava dare una precisa indicazione ai cattolici e agli uomini di chiesa spagnoli che avevano osato appoggiare la Repubblica. Nel 2000, papa Giovanni Paolo II proclama Tommaso Moro patrono dei governanti e dei politici.
Quando nel VI secolo d.C. san Benedetto dettava con la Regola le basi del monachesimo occidentale, auspicava per i monaci una vita all’insegna dell’obbedienza assoluta e del raggiungimento della santità: “Non vivono più del loro libero arbitrio, ambulantes alieno iudicio et imperios, ma procedono sotto il giudizio e l’ordine di un altro, desiderando sempre che un abate li comandi” (cap. V della Regola).
Molti secoli dopo la ‘santa subito’ per antonomasia, Madre Teresa di Calcutta, utilizzava gli stessi metodi per assicurare la santità alle sue sorelle e ai malati che avevano la sfortuna di ricevere le sue cure. Ecco alcune testimonianze tratte dal libro di Christopher Hitchens, La posizione della missionaria.
Susan Shields, suora: “All’interno dell’ordine, l’obbedienza totale ai dettami di un’unica donna è imposta a ogni livello. Mettere in discussione l’autorità non è ammesso. Riuscivo a tenere a bada la mia coscienza recalcitrante perché ci era stato insegnato che lo Spirito Santo guidava la Madre. Dubitare di lei significava che non avevamo fiducia e, ancora peggio, che ci eravamo macchiate del peccato dell’orgoglio. […] A San Francisco fu messo a disposizione delle suore un convento a tre piani con molte stanze spaziose e uno scantinato immenso. […] Le suore non esitarono a sbarazzarsi dei mobili indesiderati. Tolsero le panche dalla cappella e strapparono via tutta la moquette dalle stanze e dai corridoi. Buttarono grossi materassi dalle finestre e spogliarono l’edificio di tutti i divani, di tutte le sedie e di tutte le tende. Quel magnifico edificio fu reso conforme allo stile di vita che doveva aiutare le sorelle a diventare delle sante. Spaziosi soggiorni furono trasformati in dormitori stipati di letti. […] I riscaldamenti rimasero spenti per tutto l’inverno nonostante la casa fosse umidissima. Nel periodo in cui vissi là molte sorelle contrassero la Tbc”.
Mary Loudon, volontaria, in merito alla Casa dei moribondi: “La mia prima impressione fu quella di tutte le fotografie e i filmati che avevo visto di Belsen e posti del genere, perché tutti i pazienti avevano la testa rasata. Non c’erano sedie, solo barelle. Allora mi chiesi: che cos’è questo posto? Sono due stanze, di cui una ospita tra i cinquanta e i sessanta uomini, e l’altra tra le cinquanta e le sessanta donne. Stanno morendo. Non ricevono molte cure mediche. Praticamente non ricevono nemmeno antidolorifici oltre all’aspirina. Gli aghi li usavano e riusavano all’infinito e di tanto in tanto si vedeva una suora sciacquare gli aghi sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Chiesi a una di loro perché lo faceva, e mi rispose: «Be’, per pulirli». Allora le dissi: «Sì, ma perché non li sterilizzi; perché non fai bollire l’acqua e sterilizzi gli aghi?» Mi rispose: «Non ce n’è motivo. Non c’è tempo»”.